Sullo Stato

Karl-Marx

Ciò che è stato è Stato.

Note critiche sugli interventi di Germinario e Longo al seminario di Bologna,

circa il tema dello Stato

 

di Andrea Berlendis

 

 

“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”

 

Montale ‘Non chiederci la parola’,   in ‘Ossi di seppia’

 

Esplicito subito l’intento della mia disamina: sia rispetto alla problematica teorica dello Stato, sia rispetto alla prospettiva marxiana circa lo Stato, (di)mostrare la consistenza o l’inconsistenza (parziale o completa) dei due interventi (scritti) (1) evidenziando in che cosa questa consistenza o inconsistenza (parziale o completa) consista.  Laddove, la consistenza riguarda la padronanza della  problematica cui afferiscono (lo Stato) e la capacità di confronto con la matrice di provenienza a cui si riferiscono (Marx), per quello che si può evincere dai due interventi. La valutazione di queste due dimensioni non è fine a sé stessa, ma funzionale allo sviluppo della problematica dello Stato a partire dall’ipotesi lagrassiana del conflitto strategico: obiettivo identico a quello dei due autori degli interventi. Impiego il termine problematica teorica nel significato althusseriano del medesimo: “il concetto di problematica per designare l’unità specifica di una formazione teorica” (2), per cui pensare “sotto il concetto di problematica, significa permettere di evidenziare la struttura sistematica tipica che unifica tutti gli elementi del pensiero, è dunque scoprire in questa unità un contenuto determinato, che permette allo stesso tempo di concepire il senso degli elementi”.(3) Nel perseguire l’analisi dei due interventi vorrei sottolineare la decisività del modo di porsi rispetto alla problematica dello Stato. Questo perché, seguendo Althusser “il concetto di problematica di una teoria coincide con quello di una struttura sottostante che mentre esclude certe domande, ne rende possibile altre che vengono poste in una particolare forma. La comprensione di un particolare problema non è il risultato delle qualità del singolo lettore del testo, che lo mettono in grado di vederlo per quello che esso è, ma piuttosto il risultato della problematica con la quale egli si sta confrontando.”(4)

Nello spirito e nella lettera dei versi montaliani riportati in apertura, altro qui non voglio fare, stando nell’implicita convinzione che per ora basti.

 

1. Un dispositivo di analisi

 

Per analizzare i due interventi rispetto alla problematica dello Stato ed al rapporto di Marx con essa, predispongo un dispositivo fondato su tre criteri, che integrati formano una griglia di analisi. Per ogni criterio, proporrò poi due spunti, uno proveniente da un ‘classico’ dell’epoca del formarsi degli Stati e della relativa problematica teorica ed uno proveniente dall’itinerario marxiano nel rapporto con la problematica dello Stato.

 

Il primo criterio

 

Il primo criterio è dato dalle modalità del (dis)porsi rispetto alla problematica dello Stato. Una pregnante rappresentazione metaforica di tale problematica, delle teorie che la compongono e delle relazioni tra esse, si ottiene sostituendo l’espressione ‘teoria/e dello Stato’ al termine ‘filosofia’ nella seguente esposizione  althusseriana:

 

“Perché un filosofia [‘teoria dello Stato’; Nota mia] non viene al mondo come Minerva nella società degli dei e degli uomini. Essa esiste solo per la posizione che occupa, e occupa questa posizione solo conquistandola nello spazio pieno di un mondo già occupato [da altre ‘teorie dello Stato’; Nota mia]. Essa esiste dunque solo nella sua differenza conflittuale, e questa differenza può conquistarla e imporla solo attraverso un detour di un incessante lavoro sulle altre posizioni esistenti. Questo detour è la forma del conflitto che costituisce ciascuna filosofia [‘teoria dello Stato’; Nota mia] come parte in causa della battaglia e sul quel Kampfplatz (Kant) che è la filosofia [‘teoria dello Stato’; Nota mia]. Se infatti la filosofia [‘teoria dello Stato’; Nota mia] dei filosofi è questa perpetua guerra (…), nessuna filosofia [‘teoria dello Stato’; Nota mia]  esiste, in questo rapporto di forza teorico, se non prendendo le distanze dai suoi avversari, e investendo la parte delle posizioni che essi hanno dovuto occupare per assicurare il proprio potere sull’avversario che, dunque, portano in sé.”(5)

 

Partendo da questa configurazione della problematica dello Stato, si determinano diverse conseguenze. La prima conseguenza, che interessa qui per il discorso che sto facendo, è stata bene esposta dall’economista svedese Myrdal. Poichè si solcano sempre terreni che già sono stati diversamente e ripetutamente arati, “come può lo studioso di problemi sociali affrancarsi: dalla schiacciante eredità di tutto quanto è stato elaborato in precedenza entro il suo campo d’indagine”(6)? Per ‘affrancarsi’, Myrdal ritiene che ogni studioso debba necessariamente  esplicitare la propria collocazione rispetto a questa “schiacciante eredità”. Questo richiede il detour althusseriano prima richiamato, e lo richiede, aggiungo io, a maggior ragione se si ha l’ardire di fornire una propria definizione, relativamente a concetti (Stato, potere e dominio) che hanno visto incessantemente cimentarsi studiosi di vaglia.  La seconda conseguenza, strettamente connessa alla prima, è derivata dal fatto che, se gli ambiti in cui ci si inserisce sono già occupati, per affermare la propria posizione, non ci si può sottrarre al confronto con le posizioni già presenti, laddove il confronto assume la forma del conflitto.  Trova qui fondamento la tesi althusseriana, prima richiamata, secondo la quale una posizione può scaturire solo tramite la differenza conflittuale rispetto alle altre. Quindi, come giustamente sostiene Bourdieu: “Gli agenti, con il loro sistema di disposizioni, con la loro competenza, il loro capitale, i loro interessi, si scontrano, all’interno di quel gioco che è il campo, in una lotta per far riconoscere un modo di conoscere (un oggetto e un metodo), contribuendo così a conservare o a trasformare il campo di forze.”(7)

Non si può non vedere qui la stretta affinità con alcune delle implicazioni epistemologiche derivabili (ed implicate) dall’ipotesi lagrassiana del conflitto strategico relative alla teoria ed alla pratica scientifica. Sostiene infatti La Grassa: “Lo svolgimento dell’attività conoscitiva, nelle scienze sociali, è dunque strettamente intrecciato alla scelta di campo che si compie in relazione a questo o quel gruppo sociale (e, in particolare, in relazione a dominanti o dominati); ed ogni scelta di campo implica il posizionamento secondo questo o quell’angolo di visuale (di osservazione)”(8) Questo perché secondo La Grassa, “La politica è l’apprestamento di un campo di lotta, favorevole alla disposizione su di esso delle forze di cui i diversi agenti strategici sono in possesso, allo scopo di effettuare le mosse più confacenti ad acquisire la supremazia. Ogni agente strategico agisce in cotesto senso; e ognuno si muove cercando nel contempo di svolgere funzione di orientamento di un dato gruppo sociale—più o meno precisamente configurato e strutturato—che, in genere inconsapevolmente, (nel senso che la consapevolezza spetta all’agente strategico), si scontra con altri. Il risultato della lotta non è determinato.”(9) Ne discende da questa impostazione che, la teoria è simultaneamente un campo conflittuale ed uno degli strumenti degli agenti strategici che, insieme ad altri strumenti di altro tipo, consente loro di dotarsi della necessaria “consapevolezza” e di esplicare su tale base quella “funzione di orientamento” di dati gruppi sociali, quali aspetti necessari per condurre la loro lotta per la supremazia entro quel campo conflittuale.

 

Un primo ‘classico’: Machiavelli e la problematica dello Stato.

 

Definiamo le coordinate spazio-temporali del fenomeno ‘Stato’ come qui le intendiamo. Per la delimitazione spaziale, parto dall’assunzione weberiana secondo la quale lo Stato è “un’istituzione politica con una ‘costituzione’ razionalmente statuita, con un diritto razionalmente statuito e con un’amministrazione affidata a funzionari specializzati, secondo regole razionalmente statuite (…) è noto, in questa combinazione essenziale di elementi decisivi (…) solamente in occidente”(10). Per la delimitazione temporale si segue qui l’impostazione (11) per cui lo Stato ha avuto la sua genesi da un “processo che ebbe inizio in Europa agli albori del quindicesimo secolo” (12) per cui si deve “riservare il concetto di Stato allo Stato moderno” (13) (già l’impiego dell’aggettivo moderno per lo Stato sarebbe quindi pleonastico). Entro questa linea concettuale, ribadisce Portinaro: “Lo Stato è una costruzione specifica di un’epoca storica determinata.” (14). Contestualmente al processo storico di formazione dello Stato nel Cinquecento, è andata emergendo la problematica teorica dello Stato, l’impiego del termine e le relative rappresentazioni concettuali. “Fu proprio il ‘Principe’ del Machiavelli—va rilevato—uno dei veicoli più efficaci all’uso del termine Stato, che nel senso attuale cominciò a diffondersi fra il XV e XVI secolo” (15). Proprio nell’incipit del ‘De principatibus’, Machiavelli (1513) (16) afferma perentoriamente: “Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o republiche o principati”.(17) A tal proposito ritengo condivisibile l’osservazione secondo la quale “Il brevissimo capitolo I del ‘Principe’ di Machiavelli, che classifica gli Stati in repubbliche o principati e i principati in ereditari o nuovi, può legittimamente costituire il capitolo primo della moderna dottrina dello Stato. Non certo perché quella classificazione risulti essenziale o insostituibile per la comprensione del moderno fenomeno Stato, ma perché essa rappresenta un radicale cambiamento di rotta nell’analisi stessa dello Stato.”(18) Questo sempre avendo presente che “con questo vocabolo Machiavelli non vuole intendere direttamente l’astrazione, la finzione statuale, ma per lo più il gruppo di aiutanti al servizio del monarca, la Corte del re, comprendendo tutta la sua articolazione in uffici e organi di potere per l’esercizio del governo.”(19)

 

L’elaborazione dei testi machiavelliani “maturò nel corso della crisi che investì gli Stati italiani tra la fine del Quattrocento e gli inizi del secolo successivo, quando divenne chiaro a tutti che le strutture e le risorse di quelle piccole entità politiche erano destinate a soccombere di fronte alla potenza delle grandi monarchie europee.”(20) Machiavelli “vuole intervenire nella politica e nella storia del suo paese”(21) per la creazione di uno Stato unitario, dotato di una propria potenza autonoma capace di promuovere ‘La redenzione dell’Italia’(22) dalle potenze straniere che la occupavano e devastavano. L’Italia odierna non è forse un ‘vaso di coccio’ che, il ceto politico di ‘lanzichenecchi’ addetti alla distruzione interna (in primis i sinistroidi ed accoliti) vuol servilmente consegnare mani e piedi al servizio della potenza dominante (gli Usa), mentre si va verso, come sempre tortuosamente, il multipolarismo che richiederebbe un moderno ‘Principe’ (ovviamente diverso da quello originario di machiavelliana memoria)?  Gramsci non si sottrasse al confronto con l’analisi e l’esortazione machiavelliana: “Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel senso completo della nozione già fissata in altre note), come esempio di come si forma una concreta e operante volontà collettiva.  […] Il primo capitolo [(parte)] appunto dovrebbe essere dedicato alla «volontà collettiva» impostando la quistione così: esistono le condizioni fondamentali perché possa suscitarsi una volontà collettiva nazionale-popolare? Quindi un’analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei successivi fallimenti.”(23)

 

Gli inizi di Marx e lo Stato

 

Per quanto riguarda Marx, si confrontò sia con la problematica teorica dello Stato, in primis come definita dalla e nella costruzione hegeliana (Hegel, ‘Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio.’ del 1821), sia con quello che già nel 1842 definiva con questi toni: “Lo Stato prussiano è uno Stato di polizia e burocratico”(24). Intese quindi, sin dai suoi primi lavori giovanili, apprezzando l’attidudine di Machiavelli “a considerare lo Stato con occhio umano e a sviluppare le sue leggi dalla ragione e dall’esperienza, non dalla teologia”(25), pubblicando nel 1844 una “analisi critica dello Stato moderno e della realtà ad essa connessa”(26), predisponendo nel 1845 il ‘Piano di uno scritto sullo Stato’(27), dopo aver prima già studiato nel periodo di soggiorno a Kreuznach il processo storico di formazione degli Stati (28). Questo Marx, pur nei limiti aporetici (29) della ponderosa ‘Kritik’ (‘Critica del diritto statuale hegeliano’) del 1843, inizia ad individuare quello che sarà un focus della sua elaborazione, sia generale che riguardo allo Stato: la centralità della proprietà privata quale fondamento dello Stato, entro la separatezza (qui oppositiva) tra lo Stato e la società civile. Scriveva infatti già allora il giovane Marx: “Hegel presenta il maggiorascato come il potere dello Stato politico sulla proprietà privata. Egli fa della causa l’effetto e dell’effetto la causa, del determinante il determinato e del determinato il determinante. […] Qual è dunque il potere dello Stato politico sulla proprietà privata? Il potere che è proprio della proprietà privata, la sua essenza portata all’esistenza. In quanto opposto a quest’essenza che cosa rimane dello Stato politico? L’illusione di determinare, laddove esso viene determinato.”(30)  Possiamo notare qui, l’assunzione della centralità della proprietà privata, pur mancante, in questo periodo della riflessione marxiana, delle determinazioni storico-sociali, che la caratterizzeranno nei testi della maturità come una forma di rapporto sociale, e con riferimento ai mezzi di produzione, quale forma connotante il rapporto sociale capitalistico in quanto tale, e da lì irradiare con la sua determinazione le altre sfere della formazione sociale. Inoltre uno scritto, anch’esso dell’autunno del 1843, ma pubblicato nell’unico numero degli ‘Annali franco-tedeschi’ nel febbraio del 1844 sosteneva questa tesi: “In quanto Stato, lo Stato annulla, per esempio, la proprietà privata, l’uomo dichiara tolta in maniera politica la proprietà privata, non appena esso toglie il censo in vista dell’eleggibilità attiva e passiva, come è avvenuto in molti Stati nordamericani. […] Eppure, con l’annullamento politico della proprietà privata, non solo la proprietà privata non è tolta, ma è addirittura presupposta. Lo Stato toglie alla propria maniera la differenza di nascita, di classe, di formazione, di incombenze, quando dichiara non-politiche nascita, classe, formazione e incombenze, quando, a prescindere da queste differenziazioni, chiama ogni membro del popolo alla partecipazione in misura eguale della sovranità popolare, quando tratta tutti gli elementi della effettuale vita del popolo dal punto di vista dello Stato. Ciononostante lo Stato lascia operare alla loro maniera la proprietà privata, la formazione, le incombenze, vale a dire, in quanto proprietà privata, formazione, incombenze, e lascia che valorizzino la loro specifica essenza. Lungi dal togliere queste differenziazioni fattuali, esso esiste solo col loro presupposto, si percepisce come Stato politico, e valorizza la propria universalità solo in antitesi a questi suoi elementi.”(31) In modo analogo alla centralità della proprietà privata, anche l’affermazione dell’eguagliamento formale operato statualmente, sarà successivamente sostanziato da Marx nella sua ‘critica dell’economia politica’, in questo caso, tramite il postulato della eguaglianza giuridica (statualmente garantita) tra proprietari della forza lavoro e proprietari dei mezzi di produzione. Pur nelle differenze e discontinuità profonde, tra le opere giovanili e quelle della maturità, questi due punti (proprietà privata e dissimulazione mediante l’eguagliamento—pur se concettualizzati diversamente dalla formulazione iniziale appena citata), manterranno un ruolo decisivo durante tutto l’itinerario marxiano rispetto alla natura ed alle funzioni dello Stato. Proprio riconoscendo questo, La Grassa li ha inclusi in quello che ha definito come ‘primo disvelamento’ indicandolo come merito scientifico imperituro a Marx. Allo stesso tempo però, è proprio partire dai limiti, che oggi tale disvelamento ha mostrato (più precisamente, è stato teoricamente di-mostrato), per una teoria critica della società capitalistica nelle sue forme odierne, che La Grassa ha cercato, di andare oltre mediante l’ipotesi ruolo decisivo del conflitto strategico…

 

1.2 Il secondo criterio

 

Il secondo criterio è dato dalla definizione adottata (esplicitamente o implicitamente) del concetto di Stato. Epistemologicamente un “concetto è un ritaglio operato in un flusso di esperienze infinito in estensione e in profondità ed infinitamente mutevole. Il ritaglio si opera considerando globalmente un certo ambito di queste esperienze: ad esempio, unificando alcune sensazioni visive e tattili nel concetto di ‘tavolo’ oppure alcuni stati d’animo nel concetto di rabbia. Effettuato una volta questo conglobamento di sensazioni, ci sarà più facile ripeterlo in casi analoghi, per cui riconosceremo (non senza margini di errore) altri tavoli o altri stati di rabbia. In questa maniera ridurremo gradatamente la complessità e la problematicità del mondo esterno, e quindi accresceremo la nostra capacità di orientamento nella realtà.”(32) Decisivi in quest’ottica sono i diversi modi possibili di ‘ritagliare’ le esperienze: “La maniera in cui il ritaglio deve essere di volta in volta operato non è dettata in forma cogente da qualità intrinseche delle nostre sensazioni, ma dipende in larga misura dalle necessità pratiche di un certo individuo, gruppo, società. Le differenze tra gli ambiti di esperienza che vengono ‘ritagliati insieme in un concetto non sono soltanto verticali (fra livelli di generalità), ma anche orizzontali: un certo ambito può essere suddiviso nei tre concetti A,B, C, da un individuo, gruppo, o società, e nei tre concetti D, E, F da un altro individuo, gruppo o società”(33). Analoga rilevanza del processo definitorio, si ha nell’impostazione lagrassiana, in cui, più in generale, la natura e la funzione della teoria è fondata nei seguenti termini: “Accettata la necessità per l’analisi del movimento del porre, ma soltanto teoricamente, un determinato punto d’avvio, questo secondo me deve essere lo squilibrio incessante del reale, del mondo cioè in cui siamo inseriti e agiamo. Di conseguenza, la nostra azione, se segue le più corrette modalità di svolgimento, inizia con il tentativo di stabilizzare il campo in cui si svolge.”(34) In particolare, “Uno dei mezzi di stabilizzazione è precisamente la teoria, che fissa strutture relazionali tra elementi ‘ritagliati’ analiticamente, anche se il reale non ha struttura, va semmai pensato quale insieme di flussi e vibrazioni.”(35) Il lavorio definitorio, tipico di ogni pratica scientifica, pone capo a dei concetti. Per dirla ancora con Althusser: “Prego il lettore di voler considerare che faccio ogni sforzo per dare ai concetti di cui mi servo un senso rigoroso, ed è quindi necessario per intendere questi concetti, tenere presente questo rigore e, nella misura in cui non è immaginario, adottarlo. Posso ricordare che senza il rigore che il suo oggetto prescrive, non può esservi questione di teoria, ossia di pratica teorica nel senso rigoroso del termine?”(36). Questo vale anche per l’impiego del termine ‘Stato’, per cui “Ciascuna disciplina scientifica tende a formare un proprio linguaggio diverso da quello comune, non solo per la riduzione della vaghezza o dell’ambiguità, o per il fatto di essere empiricamente significante, ma perché questo costituisce un modo nuovo di percepire l’universo. Il linguaggio scientifico non è soltanto un linguaggio comune depurato; è soprattutto un linguaggio con un nuovo contenuto.”(37).

 

1.2.1 Un secondo ‘classico’: Bodin e la definizione del concetto di  Stato.

 

Per quanto riguarda la forma statuale, il giurista francese (avvocato e consigliere di corte) Jean Bodin, produsse nel 1576 una celeberrima definizione di Stato: “Per Stato si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su molte famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune fra loro.”(38) Proseguendo, l’autore si diffonde anche sul valore delle definizioni: “Diamo inizio alla nostra trattazione con questa definizione, perché crediamo che di ogni realtà occorra anzitutto cercare di individuare il fine supremo, in secondo luogo le vie per giungere ad esso. Ora la definizione non è che il fine del soggetto di cui si intraprende la trattazione; se non lo si fissa con assoluta certezza tutto ciò che vi si costruisca sopra ulteriormente è destinato a rapida rovina. Chi abbia ben fissato il fine cui intende giungere, anche se poi non riesca a trovare i mezzi adeguati (come un cattivo arciere che veda sì il bersaglio, ma che non riesca a centrarlo) tuttavia riesce pur sempre, con ogni sforzo di abilità, se non proprio a colpirlo, perlomeno ad andargli vicino; e non è meno lodato chi non raggiunga il suo scopo in pieno, purchè abbia fatto tutto quanto stava in lui per raggiungerlo. Invece chi ignora il fine e la definizione di quello stesso soggetto di cui intende trattare non può mai sperare di trovare i mezzi per raggiungerlo, e fa come chi tiri in aria senza vedere il bersaglio. Una volta fissata la definizione, però, occorre spiegarla in ogni sua parte. In primo luogo abbiamo parlato di governo giusto, e questo per fissare la differenza che sussiste fra gli Stati e le bande di predoni e di pirati, coi quali non si deve mantenere rapporto né commercio né alleanza di sorta; principio, questo, ch’è stato sempre osservato in ogni Stato ben ordinato, sì che, quando si è trattato di impegnare la propria parola d’onore, trattare la pace, dichiarare la guerra, pattuire alleanze difensive e offensive, fissare le frontiere, dirimere le controversie fra principi e signori sovrani, non si sono mai presi in considerazione i predoni e le loro forze».(39)

Bodin forgiò la sua definizione in una congiuntura storico-politica densa di eventi tumultuosi: “Di fronte al caos provocato dalla guerre civili, egli fece un’affermazione che era nuova: nello Stato deve esserci un’autorità suprema, e tale autorità deve unire nelle sue mani i poteri di emanare leggi, di imporle e di amministrare la giustizia. Bodin riteneva che nessuno Stato potesse esistere senza questa sovranità, e sulla base dell’esperienza francese andava così sviluppandosi una nuova teoria rivoluzionaria: la moderna dottrina dell’autorità politica.”(40). In effetti “Quando si parla di sovranità, si usa fare riferimento immediatamente a Bodin, poi a Hobbes (…). Bodin e Hobbes sono vissuti in periodi di disordini e violenza. Jean Bodin è stato testimone oculare delle guerre di religione in Francia e ha pubblicato nel 1576 i ‘Sei libri della repubblica’: quattro anni dopo la notte di San Bartolomeo l’idea di sovranità ha ricevuto gli onori della nobiltà letteraria.”(41)   Si può quindi a ragion veduta dire che “Dal punto di vista internazionale, l’opera di Jean Bodin aveva … fissato da subito l’elemento essenziale: la repubblica sovrana non era costretta da alcun tipo di obbligo e l’idea di una giurisdizione internazionale sembrava insostenibile”(42). Ancor più dettagliatamente: “Bodin deduce logicamente il concetto di sovranità, e da questo tutte le conseguenze necessarie. La sovranità, secondo la definizione contenuta nel I libro, è così ‘quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato’ (I,8, pag. 345): perpetuo, perché non sottoposto a vincoli temporali che limitandone l’esercizio ne farebbero inevitabilmente un potere derivato proprio da chi pone quei limiti; assoluto, perché non riconosce alcuna istanza superiore, ed è in grado di dare di dare leggi ai sudditi, restando da parte sua esente—absolutus, sciolto—sia dalle leggi dei suoi predecessori sia da quelle che esso stesso ha fatte. […] Inoltre, la sovranità è per Bodin anche indivisibile (cioè fortemente unitaria) e inalienabile”(43)

Se per le formazioni sociali dipendenti si pone il problema della ‘sovranità limitata’, se ancor oggi la nostra sovranità nazionale è limitata dal predominio degli Stati Uniti, se le correnti politico-culturali che pongono il problema si (auto)definiscono ‘sovraniste’, ci si può esimere dal confronto con concezioni dello Stato in cui la sovranità (nazionale) era pensata quale attributo definitorio decisivo dello Stato (vagliando poi la qualità e l’effettività di data sovranità)?

 

1.2.2  L’approssimarsi di Marx verso una definizione dello Stato.

 

Dopo aver assai brevemente intravisto il primo incontro marxiano con la problematica dello Stato, scrutiamo ora il prosieguo della riflessione sullo Stato in Marx.  Dalla metà degli anni ‘40 dell’Ottocento Marx inizia il suo processo di definizione progressiva, sia della problematica dello Stato, che dello Stato in quanto apparato. Ad esempio nei materiali che intese lasciare alla “rodente critica dei topi”(44), lo Stato è definito come “la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità verso l’esterno quanto  verso l’interno, a garanzia reciproca della loro proprietà e dei loro interessi.”(45). Precisando poi in un testo successivo pubblicato che lo “Stato politico, il quale non sarà che l’espressione ufficiale della società civile”(46), quella stessa ‘società civile’ in cui si danno e prevalgono la proprietà e gli interessi dei borghesi di cui sopra. Per designare e disegnare la forma statale Marx impiegherà successivamente metafore concettualmente assai pregnanti ed implicanti, quali “edificio dello Stato” e “macchina dello Stato”(47). La metafora della forma dello Stato come ‘edificio’, non riproduce all’interno della rappresentazione concettuale dello Stato lo schema fondato a sua volta sulla metafora architettonica comportante la distinzione tra ‘base’ e ‘sovrastruttura’? Se questo è vero, è possibile dismettere l’architettonica generale (che colloca lo Stato nelle ‘sovrastrutture’) senza dismettere anche l’architettonica particolare (che immagina lo Stato come una struttura a più piani)? Chiediamoci anche che cosa comporta pensare la forma dello Stato tramite la metafora della ‘macchina’, avendo presente a quale tipologia di macchine, dal punto di vista tecnologico, Marx pensava. Althusser ci ha provato nel volume ‘Marx e i suoi limiti’ … si ritiene invece opportuno glissare sul punto?

 

1.3 Il terzo criterio

 

Il terzo criterio riguarda la coerenza tra le definizioni approntate, sia rispetto al loro successivo impiego, sia rispetto al procedere argomentativo, che la congruenza di questo incedere rispetto agli obiettivi esplicitati all’inizio della propria esposizione. Il che significa che, una volta che ci si è dati (e/o si sono accettate) determinate premesse, occorre poi trarne—in una forma certo non identica, ma che rispetti il rigore delle inferenze sillogistiche—le conseguenze che da esse derivano. A solo titolo esemplificativo, per dare l’idea del quanto: “Vanno poi sempre e logicamente collegati fra loro i vari punti dello schema ed i vari pensieri all’interno di ogni punto. Il collegamento deve essere reale, deve risultare dalla materia e dalla logica del discorso: si avrà allora un discorso chiaro e senza ambiguità.”(48). Per chi intende poi in particolare, collocarsi nella prospettiva lagrassiana del conflitto strategico, le indicazioni metodologiche per la pratica teorica sono state già tracciate da La Grassa stesso, a suo tempo: “A partire da determinate ipotesi-base, che costituiscono dei postulati,  si procede fondamentalmente tramite inferenze deduttive, alla costruzione di una più o meno complessa struttura teorica, che non è una riproduzione, sia pure per schemi semplificatori, della realtà che si intende indagare, di cui si vuol afferrare la direzione dinamica. […] Innanzitutto, non si può negare che, in determinati casi, la teoria rappresenta, sotto forma di modello (o di mappa), una certa realtà, ad es. … l’organizzazione statuale concreta di date formazioni sociali… Ma qui abbiamo a che fare con la mera descrizione, mediante schemi semplificatori, di un oggetto reale, non con il suo concetto, con il coglimento della sua struttura e dinamica intrinseche. Un conto è l’esplorazione, la ricognizione, di un dato territorio, un altro la comprensione della sua relazione al tutto strutturato, al movimento d’esso. E’ in quest’ultimo caso che è necessaria la costruzione di una teoria (ipotetica) che sappia ordinare i ‘fatti’ secondo quello che si suppone essere il loro senso, il loro orientamento.”(49)

 

1.3.1 Un terzo ‘classico’: Botero o della congruenza con la definizione di Stato adottata.

 

L’ex gesuita italiano, Giovanni Botero nella seconda edizione(50) della sua opera principale (1590), così definì lo Stato: “Stato è un dominio fermo sopra popoli”(51). Coerentemente con questa definizione, nel prosieguo del volume, nel paragrafo ‘Dei modi di conservare’ lo Stato, scriveva: “La conservazione di uno Stato nella quiete e pace de’ sudditi,  e questa è di due sorti, come anco il disturbo e la guerra, perché o sei disturbato da’ tuoi, o da’ stranieri; da’ tuoi puoi esse travagliato in due maniere, perché, o combattono l’uno contro l’altro, e si chiama guerra civile, o contra il principe, e si dice sollevamento, o ribellione. Or l’uno e l’altro inconveniente si schiva con quelle arti le quali acquistano al principe amore e riputazione appresso de’ sudditi. Perché sì come le cose naturali si conservano con quei mezi co’ quali si sono generate, così le cause della conservazione e della fondazione de gli Stati sono l’istesse.”(52) Lo studioso che ha curato la riedizione della principale opera di Botero sottolinea che nella definizione dello Stato la “fermezza, cioè alla stabilità e durata, un’espressione che accentua la staticità, e quindi la priorità conservativa, già presente nella parola Stato”(53). Lo stesso studioso afferma anche che Botero con l’impiego dell’aggettivo ‘fermo’(54) vuole anche rimarcare la dimensione dell’uso della forza quale attributo decisivo (pur non esclusivo) del potere statale, di qualunque sia la tipologia del ‘disturbo’ (proveniente dall’interno o dall’esterno) rispetto ad un dato assetto dello Stato. Botero si inserisce in quella corrente rinascimentale, che dà anche il titolo alla sua stessa opera, per cui la sua elaborazione può venir così contrassegnata: “La ragion di Stato viene intesa come tecnica di governo e il potere è una macchina di cui occorre conoscere il funzionamento per mantenere  integro il dominio del principe. Botero analizza i vari dispositivi che permettono il controllo della macchina statale, ottenendo in questo modo «l’obedienza dei sudditi al suo superiore» che è «fondamento principale di ogni Stato» e «si fonda sull’eminenza del prencipe». Accanto alle virtù, mutuate dalla tradizione aristotelico-scolastica e umanistica, atte a recare «amore e reputazione» (Umanità, Cortesia, Clemenza, Liberalità, Grandezza, Forza d’animo e d’ingegno, Fortezza, Arte militare, Politica, Costanza, Vigore dell’animo e la prontezza d’ingegno”(55). Rimarchevole è anche il fatto che nell’impostazione boteriana, la definizione dello Stato pone anche il problema della fondazione della potenza dello Stato stesso:  “In tale definizione pare esservi un ritorno a Machiavelli, almeno nel senso di un’accettazione dell’autonomia della politica intesa quale arte dell’esercizio e della conservazione del dominio.[…] La vera novità costituita dall’opera di Botero consistette nel fatto che egli si fosse messo alla ricerca di mezzi ordinari per l’esercizio e la conservazione del dominio politico, spostando  per la prima volta il centro del discorso lontano sia dalla tematica strettamente politica, essenziale in Machiavelli, sia dalla tematica giuridica, fondamentale in Bodin. Con Botero si verificò, in sostanza, una sorta di passaggio ‘dal politico all’economico’, che iniziava a porre al centro della riflessione politica la questione della ricchezza e dell’abbondanza come strumento della potenza politica.”(56)  Oltre all’uso flessibile ed articolato della forza per il mantenimento del potere dello Stato, Botero sa certamente che sono necessarie ‘prudenza’ e ‘segretezza’, ma la forza è, e deve rimanere, l’ultima (e decisiva) istanza. Questo può produrre un qualche effetto di stupore in chi, a dopo la costante e capillare instillazione delle virtù della democrazia elettoralistica all’americana, si è ormai assuefatto ad essa come l’unico ed il migliore dei mondi (politici) possibile. Molto meglio ed opportuno sarebbe aver sempre presente quanto rammentava Schmitt ne ‘La dittatura’: “conseguire un obiettivo concreto significa intervenire nella concatenazione causale degli eventi con mezzi la cui giustezza va misurata sulla loro adeguatezza o meno allo scopo e che dipende dai nessi reali in questa concatenazione causale.”.(57)

 

1.3.2 La coerenza della teoria dello Stato nel Marx della ‘critica dell’economia politica’.

 

L’excursus marxiano rispetto alla problematica dello Stato, dalle opere giovanili a quelle della maturità, (pro)pone interrogativi di diverso tipo rispetto alla coerenza. Un primo esempio, è dato dall’ ambivalenza marxiana, sia circa l’aggettivazione o meno del termine ‘Stato’, sia circa il tipo di aggettivazione eventualmente impiegata (moderno, borghese). Un secondo esempio è dato dal tipo e forma rapporto che istituisce tra lo Stato e la società: mentre nei lavori giovanili suppone l’oppositività tra le due entità, nei lavori preparatori alla sua ‘critica dell’economia politica’, così si esprime: “Sintesi della società borghese nella forma dello Stato. Considerata in relazione a se stessa.…”(58). Oppure quando così ne ipotizza il rapporto secondo questo schema: “4. – Produzione. Mezzi di produzione e rapporti di produzione. rapporti di produzione e rapporti di traffico. Forme dello Stato e forme della coscienza in relazione ai rapporti di produzione e di traffico. Rapporti giuridici. Rapporti familiari.”(59) Inoltre nel predisporre le linee essenziali del piano di lavoro di Marx per il ‘Capitale’, si noti dove collocava lo Stato:

“Il piano del 1857 prevedeva la seguente ripartizione:

Il libro sul capitale […]

Il libro sulla proprietà fondiaria

Il libro sul lavoro salariato

Il libro sullo Stato

Il libro sul commercio estero

Il libro sul mercato mondiale e le crisi.”(60)

Un terzo esempio di interrogativo, riguarda la congruenza tra concetto di Stato nelle cosiddette opere ‘storiche’ (‘Le lotte di classe in Francia’, ‘Il 18 Brumaio’, degli anni ’50 dell’Ottocento) ed il concetto di Stato desumibile da ‘Il Capitale’. A seguire, un quarto esempio di interrogativo, si pone dopo la coerentizzazione lagrassiana della teoria marxiana: vi è corrispondenza o meno tra il concetto di Stato, e le sue funzioni, esplicitamente presente ne ‘Il Capitale’, per cui discorrendo dei momenti e dei modi dell’accumulazione originaria Marx afferma che “tutti però si servono del potere dello Stato, della violenza concentrata e organizzata della società”(61) ed il concetto di Stato , e le sue funzioni, implicitamente derivabile dall’ipotesi della formazione del lavoratore collettivo cooperativo.

Per proseguire la ricerca, si possono effettuare almeno tre operazioni concettuali. La prima consiste nel chiedersi: che cosa significa che la forma dello Stato sintetizza la ‘società borghese’? E, con la transizione del ‘capitalismo borghese’ a quello lagrassiamente definito ‘società dei funzionari del capitale’, quella sintesi, si mantiene? E se, sì, si mantiene nei medesimi termini o si modifica significativamente–e come?  La seconda consiste nel connettere questa funzione (coercitiva) dello Stato come delineata dal Marx ne ‘Il Capitale’, con l’ipotesi del formarsi del ‘lavoratore collettivo cooperativo’, per cui si delineerebbe lo Stato come ultimo baluardo dei capitalisti proprietari, per questo poteva solo essere ‘spezzato’ e non riformato, per consentire il pieno dispiegamento della tendenza intrinseca del ‘modo di produzione capitalismo’ che aveva ritenuto di individuare. La terza consiste invece nell’analizzare sinotticamente la formulazione marxiana (“potere dello Stato, della violenza concentrata e organizzata della società”) con quella weberiana (“lo Stato è quella comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio,…, rivendica per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica”).(62)

 

A questo punto, approntato il dispositivo, che, ricapitolando, si articola in tre criteri:

 

1) Posizionamento rispetto ad un campo teorico già occupato;

2) Se e come il concetto di Stato viene definito;

3) coerenza e congruenza dell’impiego del termine Stato,

 

si può passare all’analisi dei due interventi.

 

 

2. Analisi  del testo di Longo: ‘La nazione e lo Stato: una grande illusione dei popoli’

 

Longo assume come premessa il fatto che la “rottura teorica del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa apre strade interessanti per nuovi scenari paradigmatici”, in diverse direzioni tra cui la “concezione dello Stato”,  per cui scrive “All’interno di questo quadro interpretativo del conflitto strategico avanzerò alcune riflessioni sullo Stato”. Questo è quindi esplicitamente l’obiettivo che si pone l’autore.

 

2.1. Rispetto al primo criterio di analisi, cioè il posizionamento rispetto ad un campo teorico già occupato, Longo sostiene che il suo intervento: “Né sarà una analisi delle diverse concezioni dello Stato nelle diverse teorie e dottrine che caratterizzano la ‘conoscenza’ della società data [lo Stato giuridico, le teorie contrattualistiche, le teorie costituzionaliste, eccetera per non parlare della concezione dello Stato liberale, keynesiano e marxista].” Dato che, però, le ‘riflessioni’ di Longo circa lo Stato intendono muoversi:

 

dall’ipotesi lagrassiana del conflitto strategico e dalla ‘rottura teorica’ che rappresenta,

dalle implicazioni per la teoria dello Stato che da tale ipotesi teorica derivano,

 

ci si sarebbe attesi che sostanziasse se e perché e come, le implicazioni per la teoria dello Stato derivanti dall’ipotesi lagrassiana del conflitto strategico, determinino una ‘rottura teorica’ rispetto alle posizioni presenti all’interno della problematica dello Stato così come è attualmente andata configurandosi, oppure rappresenti una ‘rottura teorica’ proprio rispetto alla  problematica dello Stato.  Longo enuncia una ‘rottura teorica’ anche per la ‘concezione dello Stato’, ma tutto quello che riguarda il che cosa, rispetto a cui si è determinata la rottura, è “tenuto sullo sfondo”. Questa formula è ambigua in sé, se non si precisa che tenere sullo sfondo, può simultaneamente voler dire:  a) darne per assodata e scontata la conoscenza, oppure all’opposto, b) mettere in parentesi, per trattare il proprio oggetto, senza che ciò che si ritiene di tenere sullo sfondo, rientri nella trattazione. Questa ambiguità non è certo risolta dalla delega ad un futuro “gruppo multidisciplinare” che dovrebbe approntare un ‘lavoro immane’. Se in un campo già occupato, ogni posizione si costituisce per ‘differenza conflittuale’, e questa risulta da un ‘detour’ di un ‘incessante lavoro sulle altre posizioni esistenti’, per cui una posizione può formarsi solo tramite questo detour, che ‘è la forma del conflitto che costituisce ciascuna’ posizione teorica.

 

Prima conseguenza: se questo detour non c’è, o non si costituisce un posizione, oppure se non viene esposto il suo dispiegarsi, la posizione affermata risulterà giustapposta, non giustificata e giustificabile rispetto al suo costituirsi (non risalta e viene valorizzata la dimensione della rottura rispetto alle altre o alla problematica stessa).

Seconda conseguenza: vi è il ritorno del rimosso, cioè il riaffiorare nel proprio incedere, di tutti termini, concetti, argomentazioni e posizioni non esplicitamente e quindi criticamente vagliate e trattate.  Esemplificativamente: Longo distingue tra potere e dominio senza neppure che, anche limitandosi alla sopra richiamata epoca della genesi della problematica dello Stato—dal ‘500 in poi, si è cumulata una letteratura (63) enorme non solo circa le dizioni dei due concetti, ma anche e prima circa la loro distinzione, e nel caso tale distinzione sia adottata—dato che il talune soluzione è assente ed i due termini identificati in uno solo, quali sono le relazioni che si danno tra i due concetti. Nel caso di Marx, si deve dar ancora corso all’avvertenza alla promozione di “un chiarimento sui vocaboli che afferiscono all’area semantica del potere politico”(64). Gli ulteriori effetti (negativi) di questo modo di procedere, si vedranno al termine della disamina che andremo svolgendo tramite il mio secondo criterio della griglia di analisi (‘Se e come il concetto di Stato viene definito’).

 

2.2.  Rispetto al secondo criterio di analisi, costituito dalla definizione del concetto di Stato, il modo di procedere dell’autore è assai singolare. Il rigore scientifico, per quanto riguarda le scienze sociali, pur non essendo assimilabile ad un processo di assiomatizzazione, richiede però che un argomentare corretto definisca le categorie impiegate, prima di impiegarle (esplicitazione della definizione assunta), o nell’incedere espositivo (per successive approssimazioni ed integrazioni o progressive attribuzioni).  Invece, Longo impiega 13 volte il termine ‘potere’ e 15 volte il termine ‘dominio’ prima di esporre la sua definizione (faccio altresì notare che addirittura prima vi è il paragrafo 4., titolato ‘Potere e dominio’, mentre solo dopo, precisamente al paragrafo 6, titolato ‘Potere di parte e dominio dell’insieme’, il Nostro introduce le definizioni). La struttura logica argomentativa è capovolta, perché prima si impiega il termine e poi, successivamente lo si definisce: non prima la definizione concettuale  e poi il suo relativo (e coerente con la definizione assunta o data) impiego, ma esattamente il contrario. Il tutto, in una struttura discorsiva in cui non si mirava a far emergere progressivamente il concetto, ma in una struttura discorsiva in cui il concetto è già impiegato da subito in quanto tale (dandone per scontata la cognizione e la condivisione della definizione impiegata). Longo infatti definisce la categoria di Stato attraverso i termini di potere e dominio senza che essi siano stati definiti prima. Ristabiliamo un ordine logico, per cui esponiamo le due definizioni che Longo da di ‘potere’ e ‘dominio’:

 

“Uso il termine potere per intendere una forma di rapporti di forza finalizzato all’accrescere delle proprie capacità di incidere nella società ed è limitata ai gruppi sociali che dispongono dei mezzi di produzione e di flussi finanziari (sfera economica produttiva-finanziaria), di strumenti politici (sfera politica), di sistemi culturali e ideologici (sfera culturale), eccetera.[per esempio gli agenti strategici dominanti o sub-dominanti nelle singole sfere sociali, le èlites di potere].

Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale (nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali.”

 

A questo punto introduciamo la definizione dello Stato formulata da Longo:

“Leggo lo Stato (va da sé che faccio riferimento a quello italiano come modello), con le sue strutture di funzionamento (parlamento, governo, pubblica amministrazione, organi ausiliari, magistratura) e le sue articolazioni territoriali istituzionali ( enti locali, enti intermedi, eccetera- le casematte gramsciane), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto strategico per l’egemonia nella società storicamente data.”

A scopo dimostrativo (e di divertissement), nella definizione di Stato di Longo qui sopra, sostituiamo i termini di potere e dominio (presi come incognite) con le corrispondenti definizioni dei due concetti date da Longo, e sopra riportate ed osserviamo cosa ne risulta(65):

 

“Leggo lo Stato …, con le sue strutture di funzionamento (parlamento, governo, pubblica amministrazione, organi ausiliari, magistratura) e le sue articolazioni territoriali istituzionali (enti locali, enti intermedi, eccetera- le casematte gramsciane), come luogo e strumento di “una forma di rapporti di forza finalizzato all’accrescere delle proprie capacità di incidere nella società ed è limitata ai gruppi sociali che dispongono dei mezzi di produzione e di flussi finanziari (sfera economica produttiva-finanziaria), di strumenti politici (sfera politica), di sistemi culturali e ideologici (sfera culturale)” e di “una egemonia sociale (nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali”, per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto strategico per l’egemonia nella società storicamente data.”

 

Avventuriamoci in questa autentica selva di contorsionismi logico-linguistici per far opera di discernimento. Se schematicamente assumiamo dalle definizioni di cui sopra , che potere  =  forza e dominio = egemonia (forza + consenso), ne risulta che lo Stato in quanto “luogo e strumento di potere e di dominio”, è “luogo e strumento di”  forza ed egemonia. Ma se a sua volta l’egemonia è forza+consenso, otteniamo come risultato finale che lo Stato è “luogo e strumento di” forza e forza+consenso. Quale sia stato il vantaggio conoscitivo ,  sia in chiarezza che in profondità, di tutto questo iter, lascio a coloro che mi hanno seguito sin qui, valutare. Mi limito a rimarcare che, se etimologicamente definire significa: “Determinare, dichiarare in modo preciso e con vocaboli appropriati la natura di chicchessia, in guisa che da ogni altra cosa si distingua”(66); o in termini moderni: “Determinare con termini adeguati la natura, la qualità, il significato di qualcosa”(67), nel caso in oggetto siamo ben distanti da una definizione che tale possa definirsi. Ma i problemi per la definizione di Stato longhiana non sono finiti qui. Il mancato detour althusseriano rispetto alle altre posizioni in campo, rilevato con il primo criterio di analisi, ha condotto l’autore a riproporre una copia, peraltro non conforme, della dizione gramsciana: ecco tutta la strada che ha fatto il Nostro… da Gramsci a Gramsci—reso più oscuro…  Infatti, e tanto basta a chi scrive, il confronto con la celebre formula gramsciana nella sua semplicità e chiarezza (68), “Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione”(69), è impietoso. Inoltre non si può non evidenziare, che Longo si pone in questo modo come se interi scaffali pieni di volumi di esegesi gramsciana o il gramscismo del Pci togliattiano (per non parlare di quello berlingueriano a ridosso del ‘compromesso storico’), rispetto al concetto gramsciano di ‘Stato’ non fossero mai esistiti…

 

2.3. Il terzo criterio di analisi, pone il problema della coerenza e congruenza dell’impiego del termine Stato, nel testo.

In primo luogo, si evince dal testo qualche problema di datazione …. Con una prima affermazione Longo fissa così il momento della genesi dello Stato: “non sarà una ri-costruzione storica sulla nascita dello Stato dalle origini fino ad oggi sia in occidente sia in oriente, cioè, una narrazione che inizia dallo Stato di Dio di Agostino il cui fondatore e sovrano è Cristo ”. Si desume quindi dal testo, che lo Stato è nato con lo ‘Stato di Dio di Agostino’ (354 –430). Successivamente però, sempre a proposito della genesi dello Stato, incontriamo, più avanti nel testo, la seguente formulazione: “La mia ipotesi è che il pensiero deve ri-partire dalla prima forma di Stato, originatosi con la violenza, nel passaggio dalla fase matriarcale a quella patriarcale; organizzazione statale che né Karl Marx né Friedrich Engels colgono quando collocano l’origine dello Stato nella necessità di proteggere la proprietà privata”. In questa caso, constatiamo che lo Stato è nato nella preistoria umana(70): forse sarebbe meglio per l’autore concordare con sé stesso su quando ritiene che lo ‘Stato’—nella dizione che lui usa—sia nato. Perché qui vige il principio di contraddizione: o è nato in un dato periodo (agostiniano) oppure in un altro (preistoria).

In secondo luogo, Longo impiega il termine Stato come categoria senza specificazione alcuna, quindi come Stato ‘in generale’. Si tenga presente che la soluzione di assumere come categoria lo ‘Stato in generale’, declinandolo poi per le diverse formazioni sociali succedutesi, non può che fondarsi sull’esistenza di presupposti omogenei ed invarianti (tra i quali la persistenza di un’entità quale lo ‘Stato’) per ogni formazione sociale esistita nella storia umana (per cui si avrà uno Stato antico, uno Stato medievale, ecc.) (71). In tal modo si mantiene la premessa fondamentale del ‘materialismo storico’: l’esistenza di un continuum invariante costituito dalle tre sfere sociali (economica, politica, ideologico-culturale) e dall’invarianza della loro articolazione, di cui i diversi ‘modi di produzione’ che connotano i diversi tipi di società (‘formazioni sociali’) sono invece variazioni rispetto alla forma e contenuti delle tre sfere sociali. Su questo fondamento poggia poi l’assunto della determinazione della sfera economica in ultima istanza, da cui deriva il nesso verticale tra struttura e sovrastruttura, con cui invece l’ipotesi lagrassiana produce invece, di per sé stessa, una radicale rottura. L’ipotesi della centralità del conflitto strategico non può includere anche la centralità di una delle tre sfere sociali (economia, politica ed ideologica) in cui la formazione sociale viene, per scopi conoscitivi, suddivisa. Il conflitto strategico, il suo essere costituito dalla politica come sequenza di mosse compiute dagli agenti strategici per la conquista della supremazia, attraversa e pervade ognuna delle tre sfere sociali, senza che a nessuna sia attribuita una stabile preminenza e tanto meno determinazione rispetto alle altre.

 

3. Analisi  del testo di Germinario

 

Germinarlo apre il suo intervento  indicandone esplicitamente gli obiettivi: “Questo intervento si prefigge di approfondire due tematiche: di tracciare approssimativamente le basi teoriche ed evidenziare i limiti di analisi e la sterilità dell’azione politica derivata da una di una di esse, la globalizzazione; di evidenziare, al contrario, la persistente vitalità di quello strumento e luogo di azione politica che è lo Stato e più in generale di sottolineare, … alcune delle potenzialità offerte dalla teoria del conflitto tra agenti strategici” assunta come “chiave di lettura”

 

3.1 Rispetto al primo criterio di analisi, cioè il posizionamento rispetto ad un campo teorico già occupato, notiamo che il testo di Germinarlo si pone come referente solo l’ideologia della fine degli Stato nazionali che conseguirebbe dalla globalizzazione. La problematica dello Stato come attualmente imperante e le relative teorie, presenti e passate, non sono prese ed—apparentemente—tenute in nessuna considerazione, ad esclusione dell’ipotesi lagrassiana del conflitto strategico, in questo caso senza neppure accennare—come nel caso di Longo, prima esaminato—alle implicazioni circa lo Stato. Per completezza, segnalo che, nella parte di testo relativo allo Stato vengono citati i nomi di autori quali Althusser e Poulantzas (l’altro è Chauprade), senza però che vi sia nessun confronto con le loro posizioni in materia. Questa mancanza inficia l’obiettivo dell’autore, di sondare la potenzialità di una teoria rispetto alla lettura di fenomeni, perché ciò si può raggiungere solo comparandola ad altre letture degli stessi fenomeni, e dato che l’ipotesi lagrassiana deriva (pur fuoriuscendone) dalla lettura marxiana, è rispetto a tale lettura in primis, oltre che rispetto ad altre, che andrebbe sondata rispetto alle sue potenzialità. Ora, il valore aggiunto della teoria lagrassiana viene dimostrato se, e solo se, può spiegare in modo migliore o addirittura esclusivo sia il perché della persistenza dello Stato, sia le sue modalità di funzionamento attuale. Questo, oltre al dimostrare i limiti delle posizioni marxiane riguardo a che cosa sia e quali funzioni svolga lo Stato.  Tale dimostrazione comparata è ritenuta dall’Autore del tutto superflua, non trovandosene quindi traccia nel suo scritto: ma come è possibile allora dimostrare che la teoria X include potenzialità superiori alla teoria Y rispetto ad un medesimo fenomeno Z, se la teoria Y (rispetto alla quale X deriva) non è nemmeno presa in considerazione? Abbiamo qui una costruzione che parte acrobaticamente dal tetto, senza che le fondamenta siano presenti. La Grassa ha utilizzato metafore come, ‘occorre sapere da quale porta si esce’, ‘esco da quella porta e non da un’altra’; ‘salpo da un porto’…il nostro Autore è invece evidentemente già ‘oltre’… Peccato che, secondo chi scrive, le indicazioni lagrassiane credo servissero ad evitare proprio che quell’ ‘oltre’ in assenza del ‘prima’, nel migliore dei casi ‘girassero a vuoto’ e nel peggiore finissero per riproporre il ‘prima’ travestito dall’ ‘oltre’ (ricordo il ‘Marx, oltre Marx’ di Negri). Anziché andare oltre (al di là) o si rimane al di quà (auto)illudendosi di essere andati ‘al di là’ (per non parlare dei casi in cui si regredisce perfino dai punti di partenza). Inoltre, questo mancato confronto suscita un ulteriore problema. O si ritiene che il concetto di Stato in Marx sia solo quello derivabile dall’ipotesi falsificata della formazione del lavoratore collettivo cooperativo, e questo andrebbe in primo luogo esplicitato ed in secondo luogo (di)mostrato con tutti i suoi corollari e conseguenze. Oppure no, ed allora occorre nel delineare ulteriormente il concetto di Stato in Marx (rapportandolo anche alla dizione derivata dall’ipotesi della formazione del lavoratore collettivo cooperativo).

 

3.2 Se ci riferiamo al secondo criterio di analisi, riguardante la definizione del concetto di Stato, l’autore fornisce la seguente definizione dello Stato: “struttura particolare deputata ad alcune specifiche e particolari attività politiche le quali, però, hanno uno spettro e finalità di azioni diverse e più ampie e offrono una rappresentazione tendenzialmente organica degli obbiettivi e delle finalità di azione”, la cui forma viene così descritta:  “nelle sue varie conformazioni, fondamentali nel delineare le modalità della cooperazione e del conflitto tra agenti strategici e della conformazione dei blocchi sociali, è comunque una struttura su base gerarchica” Qui siamo in presenza, per usare un ossimoro, di una definizione indefinita, che definisce mediante un gioco di rimandi ad un termine che a sua volta non è stato definito (né prima, né successivamente). Scorrendo infatti l’intero testo troviamo che Stato è volta a volta designato dalle seguenti locuzioni: “struttura particolare”, “struttura organizzata”, “struttura su base gerarchica” (oltre che anche come: “strumento e luogo di azione politica”, “campo e strumento di azione politica per eccellenza”, “istituzione”). Ma che cosa sono queste ‘strutture’? Laconicamente il testo afferma che “una struttura, una rete, una relazione non sono un soggetto”. Premesso che, a parere di chi scrive, dopo Foucault—solo per fare un esempio eclatante nell’ambito delle scienze sociali, senza richiamare la critica weberiana ai ‘nomi collettivi’—con questa asserzione, si ha qui la scoperta non dell’acqua calda, ma proprio dell’acqua vera e propria…., ciò non ci dice comunque che cosa le ‘strutture’ siano.  Per continuare, sempre riguardo a cosa le ‘strutture’ siano, l’autore procede con tautologie del tipo: “Hanno una dinamica, ma non una volontà. Sono composte, mosse da soggetti che tutt’al più agiscono in nome e per conto. Sono i soggetti, singoli o in gruppo che si muovono, utilizzano e mobilitano, non lo Stato. Costituiscono, mobilitano utilizzano parti di esso.” Ma se non sono un soggetto …è incluso in ciò, che non dispongano degli attributi di un soggetto….

Dato che Germinario impiega abbondantemente il termine ‘strutture’ e richiama nel testo Althusser, propongo—al di là della eventuale condivisibilità o meno—rispetto alla chiarezza, la definizione althusseriana dello Stato: “Lo Stato è l’Apparato (repressivo) di Stato.”(72)  Dove per apparato “Si intende con questo termine non soltanto l’apparato specializzato (in senso stretto) di cui abbiamo riconosciuto l’esistenza e la necessità di partire dalle esigenze della pratica giuridica, cioè la polizia, i tribunali, le prigioni. Si intende anche l’esercito che (il proletariato ha pagato col suo sangue questa esperienza) interviene direttamente come forza repressiva di punta in ultima istanza quando la polizia ed i suoi corpi ausiliari specializzati, vengono ‘sommersi’ dagli avvenimenti. E al di sopra di questo insieme, il capo dello Stato, il governo e l’amministrazione.”(73) Anche in questo caso—come in quello di Longo—la comparazione è impietosa. Infatti, impiegando per entrambe le definizioni, sotto la clausola del ceteris paribus, il rasoio di Occam, si può vedere dove stia il vantaggio conoscitivo della formulazione althusseriana rispetto alla formulazione di Germinarlo.

 

3.3 Riguardo al terzo criterio di analisi, (coerenza e congruenza dell’impiego del termine Stato), vorrei prendere in esame un punto preciso del testo, ricollegandomi ed articolando esemplificativamente anche quanto ho sostenuto sopra al 3.1. Il punto è quello relativo all’obiettivo dell’impiego della teoria lagrassiana del conflitto strategico per dimostrare la ‘persistente vitalità dello Stato’, quale indicatore delle potenzialità della teoria lagrassiana stessa. Se analogo esito si potesse ottenere anche mediante la formulazione marxiana, allora ne risulterebbe inficiata la dimostrazione circa le potenzialità aggiuntive dell’ipotesi lagrassiana rispetto a quella marxiana, relativamente allo Stato (questo, ovviamente, ma è meglio esplicitarlo, non riguarda l’ipotesi lagrassiana, ma come ne viene affermato il suo valore secondo il testo di Germinarlo). Il tutto si gioca a partire da quali ‘requisiti’ (funzioni) statali si ipotizzi di accertare o meno l’esistenza (‘persistenza’). Enucleiamo tali requisiti dal testo germinariano:

 

“I capitalismi stessi, gli agenti delle varie formazioni, hanno bisogno di essere normati, sostenuti, indirizzati formalmente ed informalmente nei rapporti interni, nella competizione interna e in quella esterna, inseriti in una base sociale sufficientemente solida che le dinamiche capitalistiche stesse contribuiscono continuamente a sconvolgere. Tutti requisiti che svelano finalmente che il conflitto politico, con il capitalismo, pervade la stessa funzione economica. Tali requisiti richiedono inoltre l’esistenza” [di che cosa?]  “di una struttura particolare deputata ad alcune specifiche e particolari attività politiche le quali, però, hanno uno spettro e finalità di azioni diverse e più ampie e offrono una rappresentazione tendenzialmente organica degli obbiettivi e delle finalità di azione: lo Stato.”

Le funzioni (‘requisiti’) che connoterebbero l’attività statale sarebbero quindi: la normazione, il sostegno e l’indirizzo per il capitale ed i suoi agenti: l’accertamento della loro persistenza può quindi venire assunto come indice della persistenza della ‘vitalità’ dello Stato.

 

In prima istanza, si può (di)mostrare che, se anche il concetto di Stato in Marx fosse solo quello derivabile dall’ipotesi della formazione del lavoratore collettivo cooperativo, tale concetto marxiano di Stato sarebbe dotato di capacità esplicativa sufficiente per le funzioni (i ‘requisiti’) richiesti dal nostro Autore (normazione, sostegno, indirizzo). Seguendo le implicazioni del ragionamento di Germinario, se lo Stato è connotato dai tre requisiti, e se la dimostrazione della sua persistente vitalità non si riuscisse a produrre tramite la teoria marxiana dello Stato, allora occorrerebbe impiegare ipotesi derivate da una teoria esplicativamente più capace, quella lagrassiana. Ma se si dimostra che quei requisiti sono già presenti nella teoria marxiana, allora la teoria marxiana è necessaria e sufficiente allo scopo, e di conseguenza quella lagrassiana risulta non necessaria a quello scopo. Si prenda quale esempio paradigmatico, il libro primo de ‘Il capitale’, nella sezione ‘La produzione del plusvalore assoluto’, nel capitolo dove tratta ‘La giornata lavorativa’. Marx parte dalla premessa che “il capitale nel suo sregolato istinto a valorizzare se stesso”(74), non contenga quindi intrinsecamente di per sé una qualche regolazione. Di conseguenza “nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si espone alla lotta per i limiti della giornata lavorativa”(75). Marx ritenendo altresì che “nella lotta puramente economica il capitale è più forte.”(76), sostenne che detta conflittualità “non è mai stata regolata altrimenti che per intervento legislativo”(77). Tale regolazione, nella forma giuridica di legge, registra gli alternanti andamenti della conflittualità tra proprietari della sola forza-lavoro e proprietari dei mezzi di produzione, perché Marx sapeva che “Fra diritti eguali decide la forza.”(78) (fatto salvo che questa conflittualità è sempre interna alla riproduzione dei rapporti—e ruoli, le marxiane ‘maschere di carattere’—sociali del ‘modo di produzione capitalistico’). Per questo sempre nel capitolo ‘La giornata lavorativa’, a seconda della situazione (di ‘superficie’) di prevalenza (sempre) temporanea nei rapporti di forza tra gli agenti sociali della produzione, si trovano dizioni quali “Leggi coercitive per il prolungamento della giornata lavorativa”(79), nel caso sia favorevole agli uni (proprietari dei mezzi di produzione), oppure, nel caso opposto, “Limitazione obbligatoria per legge del tempo di lavoro.”(80). In questo secondo caso, Marx pensa l’intervento legislativo come una ‘protezione’ in quanto rappresenta “una legge di Stato, una barriera sociale potentissima”(81). Queste stesse indicazioni le potremmo ritenere valide, riguardo alla rilevanza della forma giuridica statualmente sancita, anche nel caso esprimessero un contenuto favorevole agli altri agenti sociali della produzione capitalistica, cioè i ‘capitalisti’.  Pur se non direttamente pertinente con quanto ho cercato di dimostrare, non voglio esimermi dal citare la folgorante conclusione marxiana dell’intera vicenda: “Al pomposo catalogo dei «diritti inalienabili dell’uomo» subentra la modesta Magna Charta di una giornata lavorativa limitata dalla legge”(82)

Si sono visti qui, chiaramente in azione, già nell’esposizione marxiana, tutti e tre i requisiti (normazione, sostegno, indirizzo) che connotano in modo specifico (esclusivo) lo Stato, secondo Germinario. Se i requisiti connotanti lo Stato, fossero solo questi, e, per converso, lo Stato fosse quello, allora la soluzione marxiana sarebbe esaustiva, e ne risulterebbe (di)mostrato che non ci sarebbe bisogno di altro. Ma, come ho già detto al punto 1.1.2, la teoria marxiana dello Stato rimane tutta interna proprio quello che La Grassa ha definito ‘primo disvelamento’ marxiano: “la ‘scoperta’ decisiva di Marx (il primo disvelamento per l’appunto): la diseguaglianza reale celata dall’uguaglianza formale dello scambio di merci tra i loro possessori posti su un piede di parità. Parità strettamente connessa all’occultamento della differenza specifica tra le merci mezzi di produzione (…) e la merce forza lavoro insita nella corporeità umana.”(83)

In conseguenza di ciò, le potenzialità della teoria lagrassiana—riguardo alla problematica dello Stato—, nel percorso logico di Germinario, rimangono appunto potenziali, cioè non impiegate ed impiegabili per la pars construens. Questa inconseguenza, dimostra anche il fallimento rispetto all’obiettivo che l’autore stesso si è dato ed ha dichiarato. In realtà il terreno su cui (di)mostrare le potenzialità dell’elaborazione lagrassiana riguardo la problematica dello Stato, è già, dato e non occorre inventare niente a tal proposito. Infatti, di seguito a quanto appena citato sopra, La Grassa aggiunge subito dopo, che “La scoperta marxiana è necessaria ma non sufficiente.”(84) Perché, pur rappresentando quella che Althusser definì “l’immensa rivoluzione teorica di Marx”(85), è ormai ora di riconoscerne anche i limiti, dato in tale ottica—la centralità dei rapporti sociali di produzione— “viene così occultato il luogo del vero predominio che è quello in cui si combattono i conflitti per la supremazia”(86). Dalla individuazione e presa d’atto di questa insufficienza teorica, La Grassa è partito per giungere a sostenere che occorre procedere allo “svelamento del luogo decisivo che assicura il predominio sociale a date ‘classi’ (minoritarie), intese quali gruppi sociali non unitari e compatti, quindi non nel significato loro attribuito da Marx.”(87) Questo implica una nuova ‘immensa rivoluzione teorica’, che coinvolge nel suo dispiegarsi anche la problematica dello Stato: “Il soggetto dell’analisi—quello che prende il posto del livello della merce: non più profondo di questo sia chiaro—deve divenire il conflitto strategico tra agenti capitalistici per conquistare l’egemonia complessiva, e aggiungiamo per gli ‘idealisti’, non semplicemente culturale, ma ‘corazzata di coercizione’, cioè usandone la forza, o minacciandone l’uso a seconda delle contingenze.”(88)

 

Infine, a proposito della coerenza linguistica del testo di Germinario, faccio notare che, dopo aver impiegato prevalentemente la dizione di ‘Stato’ senza nessuna aggettivazione, compaiono improvvisamente e senza nessun seguito esplicativo, dizioni quali “Stato Democratico Rappresentativo”, “Stato Poliarchico”, “Stato Profondo”… Ancor più degno di nota è l’impiego (una sola volta) dell’espressione “Stato moderno”, che presuppone l’esistenza di un concetto di Stato ‘in generale’, di cui si danno poi manifestazioni storiche riconducibili a tipi diversi di società. Ma qui valgono gli stessi argomenti da me utilizzati per l’analoga impostazione, riguardo l’intervento di Longo.

 

Conclusioni

 

Giunti al termine della disamina dei due scritti, credo di poter ragionevolmente esprimere una valutazione sintetica conclusiva, sulla falsariga delle parole di Maria Turchetto: “Nel procedere scientifico è senz’altro necessario, a volte, riconsiderare tutto: ma questo non può significare ripartire da zero, cancellando quelle acquisizioni e quegli avanzamenti critici che costituiscono, nella teoria, punti di non ritorno.”(89) La mancata ponderazione di ciò, pone in una situazione (in ambito teorico) in cui “I nuovi significati di cui termini e concetti si caricano col procedere delle scienze si sedimentano nella cultura, lasciano tracce nel linguaggio comune: se taciuti, non danno luogo ad una assenza, ma ad una cattiva presenza.”(90). Questo, unitamente “alla questione del rispetto dovuto alle scienze storico-sociali. Il ‘rispetto’ in campo scientifico, è fatto di correttezza e di cautela”(91), mentre i due nostri autori “violano, su questo piano, regole elementari.”(92), mi porta a formulare un giudizio di completa inconsistenza dei due testi rispetto alla problematica dello Stato, e di conseguenza anche riguardo alla verifica delle potenzialità euristiche dell’ipotesi lagrassiana del conflitto strategico rispetto a tale problematica.

 

Ritengo che per avanzare effettivamente circa la problematica teorica dello Stato, rifacendoci al titolo di un volume lagrassiano, occorra prendere ‘L’altra strada’ e questo, come recita, il sottotitolo ‘Per uscire dall’impasse teorica’(93). Per fare questo, a mio avviso, si deve abbandonare la strada presa da entrambi i contributi che ho esaminato, che è tra l’altro intrisa di quello che La Grassa ha chiamato “empirismo sociologico spicciolo”(94). Parafando il Marx della ‘Critica al programma di Gotha’, secondo il quale “componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna”(95), possiamo vedere come analogo esito si dà “componendo migliaia di volte la parola”  la parola Stato con il concetto di conflitto strategico. Il conflitto strategico viene evocato come un mantra, ma mai si delinea una stringenza concettuale tra tale ipotesi e le implicazioni possibili per una teoria dello Stato, a partire dalle connotazioni del medesimo, che non siano già state avanzate da La Grassa stesso. Si deve seguire il procedimento lagrassiano a proposito dell’ipotesi centrale in Marx, della coerentizzazione, partendo dalle acquisizioni lagrassiane da essa derivanti e da essa deducibili, con un lento incedere a proposito del concetto di Stato in Marx. Solo dopo, ed a seguito di esso, si può e si deve procedere. Saltare questo passaggio fondamentale, comporta solo esiti ripropositivi e quindi regressivi. Per chi proviene e deriva dalla matrice marxiana e suo variegato seguito ‘marxista’, il punto di riferimento, non è dato dal chiedersi in modo fuorviante alla Bobbio, se in Marx esista o non esista una teoria dello Stato (96), ma interrogarsi circa la posizione di Marx rispetto alla problematica dello Stato. Precisamente, riguardo a come questa problematica si era andata sedimentando sul piano teorico da Machiavelli (che Marx studiò) (97) in poi, e come se l’era trovata di fronte nella sua contingenza storica. In questo caso gli interrogativi necessari, pur se ormai assolutamente non sufficienti, perché occorre andare oltre, diventano quindi: quale sia ed in che cosa consti la teoria marxiana dello Stato e se Marx operi rispetto alla problematica dello Stato uno spostamento radicale, come nel caso della ‘critica dell’economia politica’, oppure, pur attrezzando un proprio punto di vista differente, rimane interno a quella problematica così com’era.(98)  Bisogna prendere sul serio l’avvertimento lagrassiano: “il problema dello Stato, trattato oggi come sui fosse alle ‘scuole elementari’. Dobbiamo ancora dare l’ ‘esame di ammissione alle medie’.”(99) Quindi, si dovrebbe procedere dai limiti—che vanno individuati ed esplicitati—della ‘definizione’ marxiana dello Stato, che si deve però enucleare, e da qui articolare un discorso, coerente con la definizione che si è fatta emergere: in codesto modo ci si porrà nelle condizioni di rendere effettuale la verifica delle potenzialità dell’ipotesi del conflitto strategico rispetto alla problematica dello Stato ed alle corrispondenti soluzioni marxiane.

 

Per chiudere, a me pare che i due autori, dato l’obiettivo che si erano intenzionalmente posti, si sono poi venuti a trovare di fronte al celeberrimo imperativo marxiano ‘Hic Rodhus, hic salta’(100), senza però riuscire a compiere con successo il marxiano “salto mortale della merce”(101) ma hanno effettuato un salto che giunge nel luogo descritto dal titolo (nella traduzione italiana) del romanzo della Harper ‘Il buio oltre la siepe’ (102)… Al di là delle intenzioni soggettive, l’esito di contributi come questi è quello di alzare ulteriore polvere, su quelle macerie (teoriche) che l’impostazione lagrassiana vorrebbe contribuite a rimuovere, per poi poter procedere oltre.  Forse i Nostri avrebbero dovuto aver presente il suggerimento di  Wittgenstein ”Su ciò, di cui non si può dire, si deve tacere”(103).

 

NOTE

 

(1) La mia analisi è riferita ai testi dei due autori pubblicati nel blog, per le parti relative allo Stato. Per la precisione: per l’intervento di Longo la mia analisi si riferisce ai seguenti  paragrafi: Premessa,1.Cosa non sarà, 2.Allora perché lo Stato, 3.Chi è lo Stato, 4.Potere e dominio, 6.Potere di parte e dominio dell’insieme, 8.Volontà di armonia.    Per l’intervento di Germinario, la mia analisi si riferisce ai seguenti  paragrafi: Prologo, Come don Chisciotte. Uno spreco immane di energie, Il ritorno dello Stato (dalla finestra), Articolazione dello stato e azione degli agenti strategici.

(2) Althusser,‘Per Marx.’, Mimesis edizioni pag. 33

(3) Althusser,‘Per Marx.’, Mimesis edizioni pag. 64

(4) Callinicos ,‘Il Marxismo di Althusser’, Dedalo edizioni pag. 48

(5) Althusser, ‘Freud e Lacan’, Editori Riuniti pag. 126

(6) Myrdal, ‘L’obiettività delle scienze sociali’, Einaudi pag. 3

(7) Bourdieu, ‘Il mestiere di scienziato’, Feltrinelli editore pag. 81

(8) La Grassa, ‘Minime riflessioni. Discutendo di epistemologia ovvero dello statuto e del metodo delle scienze.’, in Praxis, n° 34 del 2003 pag. 21

(9) La Grassa. ‘Navigazione a vista.’ Mimesis editore pag. 137

(10) Weber, ‘La sociologia della religione’, Edizioni di Comunità, pag. 9; cfr. anche “lo Stato razionale è sorto solo in Occidente”, Weber, ‘Storia economica’, Donzelli editore pag. 236, Weber (a cura di  Di Giorgi), ‘Scienza come vocazione e altri testi di etica e scienza sociale’, Franco Angeli editore pag.107

(11) Per un’impostazione alternativa che ritiene che il fenomeno Stato sia sempre esistito, ma ne varino le forme: Bussi,‘Evoluzione storica dei tipi di Stato’, Giuffrè editore

(12) Shennan, ‘Le origini dello Stato moderno in Europa (1450-1725)’, Mulino editore pag. 7

(13) Reinhard, ‘Storia dello Stato mo derno’, Mulino editore pag. 14

(14) Portinaro, ‘Breviario di politica.’, Morcelliana editore pag. 79

(15) Bontempelli, ‘Storia e coscienza storica’, Trevisini editore pag. 67

(16)  Riporto qui la datazione convenzionale della stesura dell’opera, nella consapevolezza dell’esistenza di due ipotesi alternative: per la data di composizione sopra riportata, si veda ‘Inglese, ‘Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie.’, Carocci editore; per la posizione radicalmente diversa si veda Martelli, ‘Saggio sul Principe’, Salerno editore.

(17) Machiavelli, ‘De principatibus’, Edizione nazionale delle opere, Salerno editore pag. 63

(18) Cerroni, ‘Stato’, in ‘Politica e società’ vol. 2°, La Nuova Italia pag. 868

(19) Bassani,Galli, Livorsi, ‘Da Platone a Rawls. Lineamenti di storia del pensiero politico’, Giappichelli p. 56

(20) Dall’Olio, ‘Storia moderna’, Carocci pag. 115

(21) Gramsci, Quaderni da carcere, Quaderno 17 (IV) § (27) Einaudi editore, pag. 1928-1929

(22) Viroli, ‘La redenzione dell’Italia. Saggio sul ‘Principe’ di Machiavelli, Laterza

(23) Gramsci, Quaderno 8 (XXVIII) § (21), in ‘Quaderni dal carcere’, Einaudi editore pag. 952

(24) Marx,’Il manifesto filosofico della scuola storica del diritto’, pag. 207, in Marx – Engels, Opere Complete, vol. 1 [Marx, 1835-1843], Editori Riuniti

(25) Marx Engels opere vol. 1° pag. 154   SGR Marx K. 1842, Supplemento alla Gazzetta Renana, 14 luglio, n°

195, in Scritti politici giovanili, Torino: Einaudi, 1950.

(26) Marx, ‘Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione.’, in : Marx-Engels, Opere vol. III 1843-1844, Editori Riuniti, , 1976, pag. 196-197.

(27) Marx – Engels, Opere Complete, vol. 4, [1844-1845], Editori Riuniti, pag. 658

(28) Mosolov,’I quaderni di Kreuznach: gli studi storici del giovane Marx nella genesi della concezione materialistica della storia’, in Critica marxista, n. 2, 1973, pp. 159-179.

(29) Trincia, Finelli, ‘Critica del soggetto e aporie dell’alienazione_Saggi sulla filosofia del giovane Marx.’, Franco Angeli editore

(30) Marx, ‘Critica del diritto statuale hegeliano’, (a cura di Trincia, Finelli), Edizioni dell’Ateneo pag. 194-195

(31) Parinetto, Sichirollo, ‘Marx e Shylock : Kant, Hegel, Marx e il mondo ebraico : con una nuova traduzione di Marx ‘La questione ebraica’, ‘Unicopli edizioni pag. 128-129 Il brano compreso nella parentesi quadra è questo: “Hamilton interpreta questo fatto dal punto di vista politico ineccepibile: “La gran massa l’ha vinta contro i proprietari e i finanzieri” La proprietà privata non è idealmente tolta,, quando il non-possidente è diventato legislatore del possidente? Il censo è la forma politica estrema di riconoscimento della proprietà privata.”

(32) Marradi ‘Concetti e metodo per la ricerca sociale’ , La Giuntina pag. 9-10

(33) Marradi ‘Concetti e metodo per la ricerca sociale’ , La Giuntina pag. 10, Così continua il ragionamento di Marradi in proposito:  “Ciò significa che il modo di ritagliare l’esperienza cambia in base all’utilità che quel concetto ha per un certo individuo, gruppo, società. Ciò perché la formazione dei concetti dipende dalla rilevanza che una determinata esperienza ha per ciascun individuo, gruppo o società. Se la maniera di operare il ritaglio fosse dettata dalle proprietà intrinseche degli oggetti allora tutti gli individui, gruppi e società di ogni tempo e luogo esprimerebbero i concetti utilizzando gli stessi termini. Anche il trascorrere del tempo può cambiare il significato di un concetto La storia, ad esempio, insegna perfettamente come i concetti siano destinati a mutare nel tempo acquisendo, a seconda dei momenti, connotazioni positive o negative.” Pag. 10

(34) La Grassa, ‘La realtà è ‘assenza’ (in squilibrio incessante)’, Conflitti&Strategie editore, pag. 12 –13. Si tenga assolutamente presente che nell’architettura dell’impostazione lagrassiana “Lo squilibrio (incessante e caratterizzato da vari ritmi temporali) è l’ipotesi formulata nell’intento di ritornare ad una causa oggettiva da cui, nella sostanza, dipenda l’intersoggettività del conflitto tra strategie per la supremazia.”  pag. 9

(35) La Grassa, ‘La realtà è “assenza” (in squilibrio incessante)’, Conflitti&Strategie editore, pag. 13

(36) Althusser, ‘Per Marx’, Editori Riuniti pag. 143

(37) Bruschi.’Conoscenza e metodo. Introduzione alla metodologia delle scienze sociali’, Bruno Mondadori editore, pag. 141

(38)  Bodin, ‘I sei libri dello Stato’, Libro I° , UTET edizioni, pag. (Bodin, “Dello Stato”, I, cap. 1)

(39) Bodin, ‘I sei libri dello Stato’, Libro I°, UTET edizioni, pag. (Bodin, ‘Dello Stato’, I, cap. 1)

(40) Koenisgsberger, Mosse, ‘L’Europa del Cinquecento’, Laterza editore pag. 379

(41) Badie, ‘Un mondo senza sovranità. Gli stati tra astuzia e responsabilità’, Asterios editore pag. 24

(42) Badie, ‘Un mondo senza sovranità. Gli stati tra astuzia e responsabilità’, Asterios editore pag. 26

(43) Galli, ‘Manuale di storia del pensiero politico’, Mulino editore pag. 167

(44) Marx, ‘Per la critica dell’economia politica’, Editori Riuniti pag. 6

(45) Marx, ‘L’ideologia tedesca’, Marx – Engels , ‘Opere complete’, vol° V, Editori riuniti pag. 76

(46) Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti pag. 152

(47) Marx, ‘Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte’, Editori Riuniti pag. 121

(48) Farina, ‘Metodologia. Avviamento alla tecnica del lavoro scientifico.’, Las-Roma editore pag. 148

(49) La Grassa, ‘Scritti di metodo e dintorni’, Edizioni Unicopli, pag. 209-210

(50) Nella prima edizione del 1589 l’incipit che era invece “Ragione di Stato si è notizia de mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio.” Botero, ‘Della ragion di Stato’ (a cura di Chiara Continisio), Donzelli editore pag. 7

(51) Botero, ‘Della ragion di Stato’, Einaudi editore pag. 11

(52) Botero, ‘Della ragion di Stato’, Einaudi editore pag. 23

(53) Descendre, ‘La penna della Controriforma’, in ‘Atlante della letteratura italiana’, vol. II, ‘Dalla Controriforma alla Restaurazione’, (a cura di Luzzatto e Pedullà), Einaudi,  pag. 253

(54) A proposito di tale aggettivo qualificante lo Stato nella definizione boteriana, segnalo anche questa ulteriore riflessione: “L’aggettivo «fermo» non è causale: egli scorge infatti lucidamente la minaccia che attenta le fondamenta dei regimi dell’epoca, e cioè la divisione religiosa prodotta dal diffondersi della Riforma. Il lavoro di segretario a fianco di Carlo Borromeo a Milano, gli anni trascorsi in Curia a Roma al seguito del cardinale Federico Borromeo (di cui era stato precettore) e soprattutto la missione diplomatica in Francia, compiuta per conto di Carlo Emanuele I di Savoia nel 1585, lo avevano reso consapevole del clima di guerra civile che ormai si respirava in Europa. In un mondo lacerato, in cui un sovrano come Enrico III di Valois moriva assassinato per le sue scelte politiche e religiose (e ve n’è traccia nella riflessione di Botero laddove dice che il principe il quale «avendo lo stato diviso in due fazioni più per l’una che per l’altra si dichiara», facendosi «capo di parte», abbandona la sua funzione); dove a Parigi insorta – nel 1588 – trionfavano le barricate cattoliche, e in cui l’armata spagnola, supposta «invincibile», si frantumava davanti a quelle coste inglesi che avrebbe dovuto invadere, l’ossessione di Botero per la conservazione e la stabilità era all’epoca ampiamente condivisa. Ma c’è di più: egli cerca con tenacia, sulla scorta di Machiavelli, una lettura oggettiva e veritiera della politica, una visione di come essa è realmente e non di come dovrebbe essere.” Benigno, ‘Botero, alla dissimulazione non giova l’ira’, ‘Il manifesto’ 08 maggio 2016

(55) ‘La scena della gloria: drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola’, (a cura di Cascetta, Carpani), Vita e Pensiero editore p. 708-709

(56) Campesi , ‘Genealogia della pubblica sicurezza: teoria e storia del moderno dispositivo poliziesco’, Ombre corte editore  pag. 74

(57) Schmitt, ‘La dittatura’ Edizioni Settimo sigillo pag.

(58) Marx, , Introduzione del 1857, in ‘Per la critica dell’economia politica.’ Editori Riuniti pag. 196-197

(59) Marx, , Introduzione del 1857, in ‘Per la critica dell’economia politica.’ Editori Riuniti pag. 197

(60) Rosdolsky, ‘Genesi e struttura del ‘Capitale’ di Marx’, Laterza editore, pag. 33

(61) Marx – Engels Opere complete  XXXI Tomo I, Il Capitale., La città del sole editore, pag. 825

(62) Weber, La politica come professione’, Armando editore, pag. 32-33

(63) ‘Dizionario di politica’ (diretto da Bobbio, Matteucci, Pasquino) TEA edizioni; ‘Politica: vocabolario’ (a cura di Ornaghi) Jaca Book; ‘Enciclopedia del pensiero politico’ (a cura di Galli) Laterza; Gallino ,‘Dizionario di sociologia’ TEA edizioni, Boudon ,‘Dizionario sociologia’ Armando edizioni, solo per indicarne i principali.

(64) Ricciuti ,‘Marx oltre il marxismo. Tentativo di ricostruzione critica di un pensiero’, Franco Angeli editore, p. 102-103

(65) A proposito di equazioni ed incognite, mi sovviene qui Lettera  di Engels a Bloch del 1890 “È un’azione reciproca tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo piú facile che risolvere una semplice equazione di primo grado.” https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1890/9/21-bloch.htm

(66)  http://www.etimo.it/?term=definire

(67) Gabrielli,’Grande Dizionario Hoepli Italiano’.’Hoepli

(68) I termini ‘semplicità e chiarezza’, a parte che sottendono un’adeguata cognizione del ‘lessico gramsciano’(cfr. ad esempio ‘Le parole di Gramsci_Per un lessico dei Quaderni del carcere’, (A cura di Frosini e Liguori) Carocci editore), sono riferiti alla struttura logica della formulazione gramsciana.

(69) Gramsci, ‘Quaderni dal carcere’, Quaderno 6 (VIII), 1930-32: Miscellanea § 88.,  Einaudi editore pag. 763-764

(70) Non avendo personalmente cognizione fondata in materia, mi affido alla studiosa di storia antica Eva Cantarella: “A partire all’incirca dalla metà dell’Ottocento, viene periodicamente riproposta un’ipotesi storiografica secondo la quale dietro la storia dei gruppi patriarcali sarebbe possibile intravvedere una lunghissima preistoria, nel corso della quale l’organizzazione familiare e sociale sarebbe stata dominata dalle donne. Il patriarcato, in altre parole, sarebbe stato preceduto dal matriarcato.” Voce ‘Matriarcato’, in ‘Enciclopedia delle scienze sociali’, Istituto Enciclopedia Italiana Treccani editore.

(71) Per questa linea interpretativa rimando al volume già segnalato alla Nota 11

(72) Althusser,’Lo Stato e suoi apparati’, Editori Riuniti pag. 78

(73) Althusser,’Ideologia ed apparati ideologici di Stato. Note per una ricerca.’ In ‘Freud e Lacan’, Editori Riuniti pag. 75

(74) Marx, ‘Il Capitale’, Libro I, Città del sole edizioni pag. 288

(75) Marx, ‘Il Capitale’, Libro I, Città del sole edizioni pag. 255

(76) Marx, ‘Salario, prezzo e profitto’, (conferenza del 1865) Editori Riuniti pag. 108-109

(77) Marx, ‘Salario, prezzo e profitto’, (conferenza del 1865), Editori Riuniti pag. 108-109

(78) Marx, ‘Il Capitale’, Libro I, Utet edizioni pag. 340

(79) Marx, ‘Il Capitale’, Libro I, Città del sole edizioni pag. 287

(80) Marx, ‘Il Capitale’, Libro I, Utet edizioni, pag. 389; inoltre “La fissazione di una giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta plurisecolare fra capitalista e salariato. Ma la storia di questa lotta mostra due correnti opposte. Si confrontino per esempio la legislazione inglese sulle fabbriche ai giorni nostri e gli statuti dei lavoratori dal XIV secolo fino alla metà del XVIII ed oltre. La moderna legge sulle fabbriche riduce d’imperio la giornata lavorativa, quegli statuti cercano di allungarla d’imperio.” pag. 381

(81) Marx, ‘Il Capitale’, Libro I, Città del sole edizioni pag. 328

(82) Marx, ‘Il Capitale’, Libro I, Città del sole edizioni, pag. 328

(83) La Grassa, ‘Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi’, Besa editrice, pag. 41

(84) La Grassa, ‘Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi’, Besa editrice, pag. 41

(85) Althusser ‘Leggere il Capitale’, Mimesis editore, pag. 253

(86) La Grassa, ‘Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi’, Besa editrice, pag. 52

(87) La Grassa, ‘Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi’, Besa editrice, pag. 59

(88) La Grassa, ‘Due passi in Marx. Per uscirne infine’, Il Poligrafo editore, pag. 131

(89) Turchetto, ‘Nuove alleanze e cattive compagnie.’, in ‘Metamorfosi’ n° 4 del 1987, Franco Angeli editore, pag. 187

(90) Turchetto, ‘Nuove alleanze e cattive compagnie.’, in ‘Metamorfosi’ n° 4 del 1987, Franco Angeli editore, pag. 188

(91) Turchetto, ‘Nuove alleanze e cattive compagnie.’, in ‘Metamorfosi’ n° 4 del 1987, Franco Angeli editore, pag. 182

(92) Turchetto, ‘Nuove alleanze e cattive compagnie.’, in ‘Metamorfosi’ n° 4 del 1987, Franco Angeli editore, pag. 182

(93) La Grassa,‘L’altra strada.Per  uscire dall’impasse teorica.’ Mimesis

(94) La Grassa, http://www.conflittiestrategie.it/considerazioni-sparse-di-un-comunista-non-dormiente, 08.10.2016;

(95) Marx, ‘Critica al Programma di Gotha (Kritik des Gothaer Programmus), Massari editore, pag. 75

(96) Bobbio, ‘Quale socialismo? : discussione di un’alternativa.’ Einaudi editore

(97) Prawer, ‘La biblioteca di Marx’, Garzanti editore pag. 61

(98) Non si prende qui in considerazione l’esistenza di successive e non sovrapponibili se non parzialmente, elaborazioni circa lo Stato da parte di Marx.

(99) La Grassa, ‘Navigazione a vista’, Mimesis editore pag. 79

(100) Marx, ‘Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte’, Editori Riuniti pag. 52

(101) Marx, ‘Per la critica dell’economia politica’, Editori Riuniti pag. 69

(102) Harper, Il buio oltre la siepe’, Loesher editore

(103) Wittgenstein ,Trattato logico-filosofico’ Einaudi pag. 82