SVILUPPO DI UN COMMENTO (di giellegi il 15 sett. 2010)

   Ho messo nel blog questo commento.
 
   <<L'homo oeconomicus non esiste come non esiste il modo di produzione capitalistico allo stato "puro", avulso dalla concreta formazione sociale in cui è "inserito" (termine del tutto inadeguato ovviamente); come non esiste, almeno sulla Terra, il moto in assenza di attrito. E tante altre cose della scienza non esistono. Non ci sarebbe scienza se si pretendesse di restare aderenti alla "concretezza del reale", privi di capacità "astrattive", della cui carenza Marx accusava persino un economista come Ricardo, apparentemente più che "astratto". Certe critiche alla teoria neoclassica sono infatti di una ingenuità antiscientifica disarmante. Come anche certe critiche al riferimento che l'economia ha fatto a Robinson Crusoe. La sola critica valida è quella di Marx, che partiva dall'idea che l'eguaglianza tra possessori di merci è del tutto valida "in superficie", nel mondo degli scambi. "Sotto" o "dietro" (le metafore si sprecano) tale mondo mercantile – l'unico che anche Polanyi abbia considerato poiché non aveva minimamente in testa la teoria del plusvalore – sussiste la differenza tra proprietà e non proprietà dei mezzi produttivi che, accoppiata alla "liberazione" degli individui da legami di dipendenza servile per cui chi non possiede mezzi di produzione vende come merce la sua forza-lavoro, fa si che emerga il plusvalore in quanto forma di valore del pluslavoro, ecc. ecc. E anche la divisione della giornata lavorativa in una parte dedicata al lavoro necessario (a riprodurre il valore della merce forza lavoro) e l'altra alla produzione di pluslavoro/plusvalore quale profitto capitalistico, non esiste nella concretezza empirica, essendo unica la giornata di lavoro. Non sussistono ad es. le corvées di lavoro dell'epoca medievale. Ed altre critiche radicali andrebbero rivolte a personaggi come Polanyi rispetto alla nettissimamente superiore capacità di "astrazione scientifica" di Marx. L'homo oeconomicus non è minimamente invalidato da chiunque sia privo di tale capacità astrattiva e non distingua perciò tra mondo mercantile "di superficie" (il mondo dove per Marx sussiste l'equivalenza nello scambio e l'eguaglianza tra possessori di merci, che sono "liberi" in questo scambio) e mondo della "produzione" dove la giornata lavorativa del venditore della forza lavoro come merce si divide "idealmente" in lavoro necessario e pluslavoro. Lo sfruttamento, insomma, non è visibile a chi non è capace di simile "astrazione". Le critiche alla razionalità neoclassica in base a considerazioni storico-filosofiche o addirittura psicologiche, ecc. sono quanto di più irritante e insulso ci sia. Veramente poi uno s'incazza di fronte a tanta insipienza paludata di pretesa di essere "concreti". Se Galileo avesse proceduto con simile sciatteria da scolastici, addio scienza moderna>>.
 
   Desidero continuare il commento, sia pure succintamente; è quindi meglio scrivere un intervento, onde evitare superficiali obiezioni del tipo: “ma non tutti hanno considerato eguali gli individui in una società capitalistica”. Ci sono quelli “amanti del popolo”, i “buoni del comunismo dei sentimenti umani”, i presunti benefattori dell’Umanità (in generale, nella sua indistinzione collettiva, poiché solitamente si comportano da tangheri verso i singoli individui che la compongono), quelli che piangono per i diseredati, gli immigrati, i “nuovi schiavi”, ecc.
   I critici del capitalismo si rifanno, pur se in versioni molteplici e aggiornate, a vecchie idee del “romanticismo” economico o populista dei primordi del capitalismo. Ci sono formulazioni che sono solo la ripetizione, pur camuffata in tante guise, di quelle di Dühring relative al “capitalista con la spada in pugno”, anche se questo capitalista è oggi sostituito dalle multinazionali o invece dallo Stato in quanto rappresentante (o sostituto) del collettivo dei dominanti. Ovviamente, questo “capitalista” con la spada in pugno può essere il Capitale Finanziario (così eticamente perverso) o lo Stato che effettua il signoraggio e altre banalità che rinviano allo stesso impianto “generale” del pensatore tedesco aspramente criticato da Engels (ma prima ancora da Marx). Ci sono poi le considerazioni sullo sfruttamento coloniale (oggi neocoloniale) che – anche qui con molteplici modificazioni – si rifanno alle tesi di Kautsky (e Hobson) sull’imperialismo quale mera politica della parte più reazionaria dei dominanti capitalistici (mettiamo il cattivo Bush, mentre il buon Obama…..), già ampiamente smontate da Lenin.
   Lo stesso Polanyi – sempre eccessivamente osannato da chi non ha mai saputo nulla di Marx salvo che di pochi frammenti dei Grundrisse (i sessantottini non furono mai marxisti, bensì “grundrissisti”, come mise bene in luce con umorismo Aurelio Macchioro) – non ha una concezione corretta del modo di produzione capitalistico, che non è il capitalismo tout court; è il suo “nocciolo strutturale interno”. Le sue leggi sono assimilabili a quelle del moto in assenza di attrito (e di gravità che è una forma di attrito), un moto che non esiste nella realtà concreta, empirica, ma cui nessuno scienziato serio rinuncia se non in presenza di concezioni diverse dello stesso fenomeno, visto sempre nella sua “purezza” per via di “astrazione” (scientifica, non quella del senso comune, che implica l’essere totalmente fuori della realtà, immersi nell’immaginario, nel fantasticare; che non sono “follia”, ma hanno tutt’altro scopo e funzione nella vita della società).
   Non è un caso che nell’autore appena citato, la società mercantile vera e propria è durata per pochissimi decenni verso metà ottocento: da quando furono tolti gli ultimi intralci ad una veramente libera vendita del “lavoro” (merce forza lavoro) fino alla formazione del mercato oligopolistico e delle associazioni sindacali, che contrattano a nome dei lavoratori individuali. Se ne dovrebbe concludere che l’ultima “cosa” divenuta merce nella transizione al capitalismo è la forza lavoro salariata, che poi, dopo pochi decenni, viene di nuovo venduta in regime “non libero” per la formazione dei sindacati.
   Marx invece – proprio per merito delle sue capacità di astrazione scientifica – sostiene correttamente che la forza lavoro è la prima a divenire, generalmente, merce durante l’accumulazione originaria, che è essenzialmente un processo di riproduzione di dati rapporti, non certo un fenomeno quantitativo di accumulo di ricchezza, poiché “il capitale è un rapporto e non una cosa”. Solo quando la forza lavoro diventa merce (non importa se ci sono ancora “attriti” nel suo movimento di scambio), si generalizza la forma di merce di ogni prodotto lavorativo umano; e anche questa forma di merce generalizzatasi c
aratterizza il capitalismo indipendentemente dai vari regimi di mercato della scienza economica tradizionale. Anche nell’oligopolio, la merce è sempre merce, malgrado che nel suo movimento di scambio (attraverso cui si formano i prezzi) vi sia l’“attrito” monopolistico. Quindi, bando alle banalità intorno alle leggi (emanate dallo Stato), che alterano il libero scambio della forza lavoro; a lungo favorendo il capitale – nella transizione dalla formazione sociale precedente – e poi consentendo ai lavoratori di associarsi per stabilire nuove metodologie di contrattazione. Basta con la confusione tra generalizzazione capitalistica della forma di merce e regimi di mercato (concorrenza “libera”, concorrenza imperfetta e monopolistica, oligopolio o monopolio, ecc.).

   Il capitalismo è capitalismo perché vi è “in superficie” un mondo in cui si confrontano liberamente possessori di merci (diverse fra loro); ed in cui, quindi, lo scambio avviene, mediamente, secondo equivalenti, valutati in base al loro “costo” (tempo) di lavoro. Marx sa benissimo che ci sono tutti gli “attriti” sopra considerati, che solo raramente il mercato funziona secondo le regole individuate per “astrazione”. Anzi sa che, normalmente, oltre agli attriti già visti, bisogna considerare la scaltrezza, l’inganno, la forza, anche quella “con la spada in pugno”. Marx ha una precisa concezione dello Stato, perfino rudimentale, in cui quest’ultimo è strumento di dominio della classe capitalistica nel suo complesso (o di un suo gruppo che ha preso il potere in quella data fase storica). Si leggano i suoi scritti detti “politici”; non si troveranno riferimenti diretti alla teoria esposta ne Il Capitale (perché questa è l’opera imperitura di Marx, quella di un vero “salto qualitativo” nella scienza della società), bensì considerazioni puntuali sulla congiuntura politica dell’epoca, con i suoi particolari rapporti di forza tra le classi (e all’interno di queste), i mutamenti e rivolgimenti di tali rapporti, ecc.
   Nell’analisi della congiuntura, egli si orienta anche in base alla sua teoria, ma non si fa imbragare in essa, non ripete schemi scolastici (e i dualismi tipici della stessa); egli segue, pur con necessarie semplificazioni, lo svolgimento degli avvenimenti, interpreta i “fatti”, ben sapendo comunque che si tratta di “fatti” e che la loro interpretazione mira a costruire mappe di orientamento, estremamente mutevoli anche in brevi periodi. Non si può però costruire la teoria sulla base della mera “storia di questi fatti”; e, nel contempo, non ha senso costruirla senza tenere conto di questi ultimi e andandosene completamente per i “fatti propri”. Costruire una teoria è difficile proprio perché bisogna “astrarre” dai “fatti” e tuttavia tenerli in piena considerazione; da qui la definizione di determinata affibbiata a questa astrazione per distinguerla dal semplice “uscire dal mondo”, dal viverne uno di puramente fantastico e senza addentellato alcuno con quello in cui il “teorico” vive  da scienziato; se vive in altro modo – e certamente un uomo vive nel mondo in molti modi, non soltanto prevalentemente secondo quelli scientifici – è lecito seguire altri orientamenti di pensiero e d’azione. Non è però minimamente ammissibile e tollerabile la confusione tra le differenti modalità, tra questi diversi orientamenti.
   Dietro o sotto la superficie del mondo dello scambio mercantile – dove dietro, sotto, superficie, sono termini metaforici – esiste quello della produzione e riproduzione della basi materiali della vita (in società). In poche parole, gli individui producono queste basi riproducendo contestualmente la forma storica dei loro rapporti sociali. E qui “storica” non significa racconto e interpretazione di eventi (di “fatti”), ma semplicemente la forma dei rapporti che legano tra loro questi individui mentre producono le cose necessarie alla loro vita, forma di cui il pensiero, in base a date impostazioni scientifiche (mediante “astrazioni determinate”), suppone il mutamento per “grandi epoche” del vivere sociale. Marx, partendo dal vastissimo studio dell’economia politica del suo tempo, quella classica in particolare – senza la quale sarebbe rimasto un modesto rifacitore di “filosofie sociali” – fondò la sua interpretazione, demistificante l’apparente (formale) eguaglianza vigente nella società “borghese”, sulle differenze tra “classi” di individui in riferimento alla proprietà (sostanziale, cioè come potere di disporre, di controllare l’uso) delle condizioni oggettive della produzione: terra, mezzi o strumenti lavorativi, oggetti di lavoro o materie prime.
   In base a questa “proprietà” (da non confondere con il suo mero regime “giuridico-borghese”) individuò lo “sfruttamento”, che segnala semplicemente il fatto della divisione, ideale, della giornata lavorativa – di chi vende merce forza lavoro in quanto unica sua “proprietà”, cioè possesso di una qualità insita nella corporeità umana – in due parti: quella che riproduce la sussistenza (storico-sociale) del lavoratore (valore della merce forza lavoro da lui venduta) e quella che dà il profitto (plusvalore, che è pluslavoro) al capitalista. Adesso certo non mi metto a discettare su tutte le conseguenze che Marx derivò da questa decisiva, fondamentale, “scoperta”, con la costruzione di un complesso e certo mirabile sistema teorico. Nemmeno sto a ricordare le centinaia di pagine che ho scritto da quasi vent’anni a questa parte per spostare il punto focale, l’asse centrale, attorno a cui pensare e costruire la complessità del sistema sociale capitalistico; asse che per Marx è la proprietà dei mezzi produttivi mentre per me è invece rappresentato dal conflitto tra strategie.
   Non posso in poche righe sintetizzare l’immane opera di Marx né le mie più modeste riflessioni sul “fallimento” della prospettiva socialista e comunista, da cui ho tratto impulso ad una rivisitazione di quella teoria. M’interessa solo mettere in rilievo come lo sfruttamento del lavoro, quale base fondamentale del predominio di certi gruppi (minoritari) su altri raggruppamenti (maggioritari) della società, non sia minimamente dovuto ad un qualsiasi “attrito”: né all’inganno, né alla furbizia, né alla forza (la “spada in pugno”) e via dicendo. Si potrebbe vivere, esattamente come pensava Candide, nel “migliore dei mondi possibile”. Si potrebbe benissimo credere alla più totale libertà di scambio di merci, di pensieri, di decisioni politiche. Sarebbe possibile immaginare che veramente la totalità della popolazione venga correttamente informata e coinvolta nelle decisioni da prendere a maggioranza (“democratica”). Nulla osta al supporre e immaginare le meraviglie di un mondo di perfetta eguaglianza in tutto salvo che su un punto. Basta semplicemente una diseguaglianza – quella nel possesso o potere di controllo dei mezzi produttivi – e tutta l’impalcatura del “mondo perfetto&rdquo
; crolla.

   Il mondo non è mai perfetto, lo sapeva anche Marx; tuttavia solo il debole pensatore, che non sa “astrarre”, si semplifica i compiti della critica considerandolo pieno di sopraffazioni, di menzogne, di violenza, ecc. Marx – che era scienziato e non un chiacchierone di quelli di cui è ancora pregno il “piccolo mondo antico” dei “terribili” oppositori anticapitalistici – era pienamente conscio che la sua critica sarebbe stata indebolita dal mero considerare le “imperfezioni” del mondo, l’“attrito” cui sono sempre sottoposte le “leggi di movimento” nella società del capitale. Sarebbe stato allora possibile agli ideologi di quest’ultimo – esattamente come fanno ancora adesso – affermare: ma il mondo, si sa, non è perfetto, questo è tuttavia il “meno peggiore” che abbiamo a disposizione; in fondo siamo in presenza di una buona mobilità sociale “in verticale”, non sussistono più le caste, nemmeno più le incrostazioni del vecchio capitalismo borghese (inglese ed europeo in genere), oggi vige il capitalismo all’americana, quello di questa giovane nazione piena di energie e in cui si premia il merito. Voi, venditori di “lavoro” (di merce forza lavoro, in realtà) potete aiutarci a migliorare questa società, magari con la “concertazione”. L’importante è che non venga sovvertito l’impianto proprietario, che assegna il “giusto premio” all’impegno e all’ingegno.
   Con la scienza di Marx (non con le trombonate filosofiche di gente che di Marx non ha mai capito un bel nulla) queste “serenate” non servono, nemmeno sfiorano i problemi che egli aveva posto. Per questo, egli concede – pur sapendo benissimo che così non è e non sarà mai, e mostrando in piena luce questa sua consapevolezza negli scritti politici, dove si deve parlare del mondo con la sua effettiva “ganga”, con i suoi “attriti” – che tutto sia al massimo della “perfezione” nel mondo dello scambio (di merci e di decisioni politiche, di libera circolazione delle idee, ecc.); ma anche nel processo lavorativo, in se stesso considerato, immaginando che ci sia perfetto equilibrio nel contrattare l’organizzazione del lavoro, i tempi e ritmi dello stesso, con “ampie consultazioni” dei lavoratori (salariati), e via dicendo. E’ sufficiente ricordare quella “piccola” disparità relativa al potere di controllo dei mezzi produttivi; anche questa non visibile a occhio nudo, non imposta con la forza o l’inganno, solo regolata dal regime giuridico capitalistico della proprietà. Tutti, rispettandolo, possono divenire proprietari; sia chiaro, sempre nel mondo perfetto, quello senza “attrito”, che non esiste nella realtà in cui si vive concretamente.
   Non importa, lo scienziato suppone che invece sia proprio così; suppone perciò che tutti possano divenire, se vi è capacità, proprietari (controllori) dei mezzi produttivi. Quando lo sono diventati, però, saranno cambiati gli individui (con nome e cognome) proprietari, non è mutata la “legge” che fa della proprietà la condizione della produzione, in cui la minoranza dei proprietari (controllori) dei mezzi produttivi ottiene il plusvalore (pluslavoro) di chi vende la propria capacità lavorativa in forma di merce, che ha il prezzo denominato salario. Questa concessione dello scienziato agli apologeti del capitalismo impressiona il chiacchierone che non capisce nulla né di Marx né di scienza. Egli definisce utopista Marx. E’ un perfetto ignorante. Allora è utopista anche Galileo che pensa alla legge del “moto rettilineo uniforme” in assenza di attrito (e gravità). Quando questi presuntuosi avranno smesso di parlare a vanvera, sarà sempre troppo tardi.
   Significa allora che dobbiamo tornare a ripetere Marx pari pari? Sarebbe come tornare a ripetere Galileo o anche Newton dopo Einstein. Evidentemente non deve essere così. E riporto ancora una volta la bella frase di Max Weber sulla scienza e gli scienziati ( La scienza come professione):
 
   “Ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo dieci, venti, cinquanta anni è invecchiato. E’ questo il destino, o meglio, è questo il significato del lavoro scientifico, il quale, rispetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in senso assolutamente specifico: ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed essere ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza”.
 
   Uno scienziato serio non si arroga il diritto di insegnare ai filosofi che cosa e come devono pensare. Sa che si tratta di una grande area del pensiero che ha suoi propri “oggetti”. Anche i filosofi seri si comportano egualmente verso gli scienziati. Ci sono però in giro alcuni buffoni, che pretendono di dare lezioni agli scienziati e usano la loro penna rossa e blu per individuare quelli che non sono errori, ma consapevoli “astrazioni determinate”. L’astrazione di Marx voleva appunto non concedere all’ideologo del capitale alcuna linea di fuga, adducendo le inevitabili, irrimediabili, “imperfezioni” del mondo così com’esso concretamente è. Lo sapeva anche Marx; chi non lo conosce, e tanto meno è in grado di capirlo, smetta di cianciare e cerchi di fare bene il suo lavoro invece di sparare scemenze, che facilitano il lavoro degli ideologi dei dominanti nel porre in luce i presunti “utopismi” di Marx.
   Da scienziato, e immaginando correttamente per via di astrazione lo schema fondamentale del modo di produzione capitalistico, Marx ha prodotto una critica dell’assetto capitalistico, che resta una pietra miliare nell’individuazione del “feticismo” del mondo mercantile, che non va interpretato da meri filosofi, ma come apparenza (reale) del mondo visto in superficie, cioè analizzando soltanto il livello dello scambio di merci. Andando alla produzione – non come semplice processo di lavoro, con la sua tecnologia e organizzazione, ancora una volta “liberamente” contrattabili (dove la libertà è sempre quella dell’astratto mondo “perfetto”, senza “attriti”, che certo non appartiene all’esperienza concreta) – si arriva ad un’altra conoscenza, la conoscenza di una società in cui non è eliminabile lo sfruttamento se non mutando il regime capitalistico della proprietà.
   Marx non avanzò però solo questa critica – che resta ferma e salda ancor oggi – poiché formulò anche previsioni circa la dinamica del modo di produzione capitalistico in quanto diretta al superamento di quest’ultimo con affermazione di un nuovo modo di produrre di tipo comunista, con un regime proprietario ad esso adeguato; adeguato cioè alla riproduzione dei diversi rapporti sociali affermatisi. Qui si inserisce la possibile, per me anzi necessaria, critica a Marx, perché dopo 150 anni non si può continuare a sostenere che bisogna attendere ancora, che alla fine “Godot arriverà”. Non è così, lo si può se non dimostrare quanto meno mostrare
, segnalare. Vi sono nell’analisi di Marx alcune incomprensioni relative all’asse centrale della formazione sociale capitalistica che rinvia a “qualcosa” di più fondamentale della proprietà; “qualcosa” che alla fine potrebbe forse, certo con ulteriore e più precisa elaborazione, spiegare ancor meglio di quest’ultima dove risieda il fondamento ultimo del potere di controllo e disposizione esercitato dagli strateghi del capitale sulle condizioni oggettive della produzione.

   Questo è un altro discorso, da me iniziato da almeno 15 anni (e forse più). Per sviluppare questo nuovo discorso, è tuttavia necessario, prima di tutto, capire Marx, afferrare il punto di non ritorno fissato dalla sua scienza. Si deve andare in avanti non tornare ai veri utopismi di gentucola che ha ormai perso un qualsiasi orientamento perché abituata a chiacchierare, non a controllare rigorosamente l’esposizione del proprio pensiero. E’ bello sbrigliare la fantasia – cosa credete che non lo sappia; sono irritato che i compiti della scienza mi limitino in altri campi, più segreti, dove anch’io spazio saltuariamente – ma è tutt’altro orientamento di pensiero. Non si tratta di un pensiero avulso dalla realtà quand’anche massimamente immaginario – basti pensare ad “Alice”, al “Barone di Munchausen”, agli “zombi” o ai “vampiri”, al “Mostro di Frankestein” o a “King Kong”, e ad altri ancora; i più moderni non li conosco, quindi lascio ai più giovani citarli – ma si tratta di qualcosa di diverso, che non va confuso e pasticciato con la “grigia” scienza. Invece, tra i presunti ideologi anticapitalisti, i pasticcioni sono la norma; e vanno trattati per quello che sono.
   Ripartiamo, finalmente, dal rigore che fu dei “nostri padri”; lasciamo che i chiacchieroni sputino le loro “sapienzialità”. E ricordiamoci che l’erudizione non ha nulla a che vedere con l’intelligenza del mondo in cui viviamo. L’erudito è come un prestigiatore: fa tanti giochi con la sua cultura per imbrigliare e rendere ottuso il pensiero di chi magari potrebbe dare un contributo alla conoscenza del mondo in cui siamo “capitati a vivere”. Finiamola di prestare ascolto ai prestigiatori! Occorre rigore (perfino nel “racconto fantastico”), non il caotico rutilare di luci per ipnotizzare i più “deboli”.