Quella in corso è una fase politica nuova ma gli strumenti per interpretarla restano estremamente vecchi. Attardati sono gli intellettuali che si cimentano con i rapporti sociali e la lettura degli eventi ricorrendo a categorie d’antan, ugualmente, indietro restano i capi di Stato, di partito o dei vari movimenti che si preoccupano dei conti, dei voti, dei finanziamenti o degli incarichi, inchiodando militanti molto volenterosi ma per nulla accorti a battaglie di poca o nessuna utilità. Il massimo dell’originalità a cui si arrivati in tutti questi anni di profondi mutamenti è la sentenza sulla fine della dicotomia destra-sinistra ma tale scoperta dell’acqua calda il popolino l’aveva fatta con decenni d’anticipo, allorché affermava l’uguaglianza dei furbi in politica, indipendentemente dal colore della ”pelle”. Altre biforcazioni hanno preso il posto delle precedenti, senza che nella sostanza si sia arrivato a qualcosa di costruttivo, perché si riproduce uno schema collaudato antitetico-polare per distrarre le coscienze.
Il dibattito nazionale e internazionale si focalizza ancora su ideologie del passato scomparse da molto e rianimate solo per mancanza di idee e di programmi. Così, ci sarebbe ancora un pericolo nero o rosso da scongiurare o, persino, una mistura dei due, il famigerato rossobrunismo.
Poi vi è la divaricazione economicistica tra fautori del libero mercato, i liberali e (neo)liberisti, e i sostenitori dell’interventismo statale, i neokyenesiani o post-keynesiani. Ma Stato e mercato sono due campi di azione che si intersecano (c’è lotta e conflitto nel mercato e nello Stato, tra gruppi di agenti economici e politici alleati tra loro contro altri drappelli speculari, per ottenere una preminenza che deve allungarsi in ogni sfera dell’agire collettivo), e non due antagonisti che devono limitarsi tra loro. Da questa divisione principale discendono altre specificazioni che sono minime variazioni sul medesimo tema: globalisti vs antiglobalisti, ottimati vs populisti, o, ancora, finanziaristi vs industrialisti, generando fazioni opposte pronte ad alzare un fumo di questioni secondarie.
Tempo fa La Grassa affrontò il problema delle quattro ideologie, prendendo posizione contro ciascuna di esse. Lo ripropongo sintetizzando i passaggi più importanti di quell’intervento poiché si continua ad inseguire i fantasmi senza arrivare al nocciolo delle problematiche.
Il fascismo non è alle porte e non tornerà mai più perché sono scomparsi i soggetti e le condizioni storiche che favorirono la sua vittoria. Il fascismo fu inizialmente un movimento antiborghese ed ottenne l’appoggio delle masse e dei ceti medio-piccoli. Questa fu la sua fase rivoluzionaria ma non essendo anticapitalistico finì per collegarsi, una volta occupati i gangli del potere, col grande Capitale monopolistico “che infatti se ne servì in definitiva per i suoi scopi, liquidandolo quando fu evidente che esso aveva ormai condotto alla sconfitta di determinati suoi comparti nazionali in lotta, egemonica, con gli altri sul piano mondiale”. Oggi non esiste più una borghesia contro la quale lottare, il capitalismo non è più borghese ma ha una matrice statunitense che lo ha reso qualcosa di profondamente differente dalle origini. La Grassa la chiama la società dei funzionari privati (del Capitale) che ha dimostrato maggiore dinamismo, mantenendo alcuni elementi di contatto ma modificandosi radicalmente rispetto a quella nata precedentemente in Europa (in Inghilterra).
Il comunismo ugualmente non tornerà, prima di tutto perché non è mai arrivato a compimento, almeno restando alla previsione di Marx. Quest’ultimo riteneva il comunismo un parto ormai maturo nel grembo di un capitalismo giunto alla sua ultima contraddizione, quella che determinava l’espulsione dalla base produttiva dei proprietari, ormai ridotti a rentier staccatori di cedole, da parte di un’alleanza di produttori associati (dal primo ingegnere all’ultimo giornaliero). Questa, pertanto, si riappropriava dei mezzi di produzione ricomponendo la scissione tra proprietà e non proprietà degli strumenti di lavoro responsabile dello sfruttamento di classe.
Su queste basi teoriche non sono mai esistiti paesi comunisti. Si sono concretizzati tentativi alternativi che effettivamente hanno dato vita ad un tipo di rapporti sociali non assimilabili a quelli del capitalismo ma alla lunga essi si sono rivelati fallimentari. Questi esperimenti hanno però anche prodotto grandi potenze, come Russia e Cina, che attualmente insidiano il primato occidentale ed impediscono al mondo di sottostare ad un’unica area prepotente.
Il neoliberismo crede che tutto debba essere lasciato al mercato, con decisa riduzione dell’intervento dello Stato in economia, perché i suoi meccanismi intrinseci sono in grado di auto correggere gli squilibri portando benessere a tutta la civiltà. Questa è una posizione ferale per due ordini di ragioni. Presuppone che la razionalità strumentale risolva ogni ambito umano (ignorando che i saperi strategici precedono e indirizzano le scelte economiche, e non solo quelle), occulta il ruolo svolto dai paesi più avanzati militarmente e tecnologicamente nel dettare le regole che influenzano i mercati. Anzi, la potenza permette persino di truccare le regole a proprio favore.
Il neokeynesismo, invece, punta sullo Stato per contemperare gli interessi generali contro i diktat del mercato selvaggio. Ma compito precipuo dello Stato non è l’assistenza e il mutuo soccorso, se non in particolari circostanze e per ristretti settori. Inoltre, non è sempre detto che l’azione pubblica sia garanzia di maggiore giustizia sociale mentre quella privata sempre e solo sottrazione o furto di pochi sui molti. Scrive, infatti, La Grassa: “I neoliberisti appaiono più consci dei compiti repressivi e coercitivi assegnati ai più decisivi e caratterizzanti apparati dello Stato, sia in funzione interna che sul piano internazionale, pur se raccontano “al popolo” le solite menzogne sulle meraviglie della smithiana “mano invisibile” e della ricardiana “teoria dei costi comparati” nel commercio internazionale. I pretesi “keynesiani sociali” non sono nemmeno consapevoli di nascondere i suddetti compiti precipui dello Stato (e dunque partecipano allegramente e irresponsabilmente ai governi di “sinistra”); hanno il loro cervello fissato soltanto sulle funzioni dette sociali, senza nemmeno rendersi conto che queste ultime avevano spazio di intervento nell’epoca monocentrica del capitalismo “occidentale”, di fronte al quale si ergeva un “socialismo” imballato in cui era in gestazione una formazione capitalistica di tipo nuovo, sbocciata infatti dopo il crollo dell’ “involucro” statalista”.
Ciò che sta avvenendo nel presente periodo ci impone di lasciar perdere le carcasse di questi pensieri putrefatti che non ci dicono molto sugli sviluppi a venire. “Non si tratta ovviamente di pretendere l’eliminazione dell’ideologia (come sostiene l’intellettuale imbroglione nell’interesse dei dominanti, propagandando così la peggiore di tutte le ideologie), bensì solo di superare le vecchie ideologie: della destra, della sinistra, dei “rossi” e dei “bruni”. Saremo ancora entro nuove ideologie, adatte ai nuovi tempi, di imminente policentrismo e di mutamenti interni alle formazioni particolari che complicano, moltiplicano, i gruppi sociali e non creano per nulla “soggetti” unitari e compatti in nessun comparto sociale; la compattezza e l’unione delle forze in campo essendo un portato dell’azione politica in condizioni date (ma mutevoli in tempi e spazi diversi della formazione sociale) e non di oggettive ed intrinseche dinamiche di quest’ultima (considerata per di più in generale, senza spazio né tempo). Le nuove generazioni debbono dunque liberarsi, a mio avviso, delle “quattro ideologie” sopra indicate e accedere a nuovi “angoli di visuale”, a nuove impostazioni che consentano di indagare le strutture e dinamiche essenziali della formazione capitalistica (la globale e le particolari) nella fase attuale (non in generale) secondo la combinazione – sotto il “cappello” della predominanza del sapere e dell’agire strategici – delle analisi di “geopolitica” e “di classe”, cioè unendo la considerazione dell’articolazione sempre più complicata di (gruppi di) dominanti e dominati nelle formazioni capitalistiche particolari a quella intorno alla configurazione dei rapporti tra queste ultime sul piano mondiale; prendendo atto che si può oggi forse prevedere con maggior sicurezza, rispetto anche solo ad un anno fa, l’entrata non lontana in una nuova fase di policentrismo (di neoimperialismo). Questo il compito assegnato a chi vuol pensare il futuro”.
Buona lettura
CONTRO LE “QUATTRO IDEOLOGIE”
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