Tarzan vs Robinson (di G. La Grassa, Piazza Editore, 12 euro, pagine 200). Disponibile in libreria e su Amazon
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Tarzan vs Robinson. Il rapporto sociale come conflitto e squilibrio
24 giu. 2016
di Gianfranco La Grassa
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A giorni dovrebbe essere pure ristampato perché la prima edizione (non so quante copie stampate) è esaurita.
Dall’introduzione di G. Petrosillo
Karl Marx chiamava robinsonate quegli esempi, epistemologicamente artificiosi e inutilmente romanzati, dai quali gli economisti della sua epoca prendevano le mosse per giustificare alcune loro teoresi sull’evoluzione della vita associata e sulle regole ad essa immanenti. “Il singolo ed isolato pescatore e cacciatore”, per esempio, da cui Smith e Ricardo inferiscono le leggi sociali dell’economia moderna “appartengono a quelle invenzioni prive di fantasia, che sono le robinsonate del XVIII secolo…”.
Robinson Crusoe, il personaggio del romanzo di Defoe, naufragato su un’isola deserta, ricostruisce istintivamente, (probabilmente) sulle spiagge di Agua Buena (arcipelago cileno), in quasi perfetta “individualitudine” (mi si passi il neologismo), eccetto che per la compagnia di un indigeno da lui chiamato Venerdì (proprio come quello che manca a molti economisti), quei rapporti sociali di cui era socialmente creatura, prima di andare alla deriva e toccare quello sconosciuto lembo di terra.
Per i padri della triste scienza però non è determinate il bagaglio di conoscenze che Robinson si porta dietro in questo naufragio, insieme ad una parte dell’oggettistica della civiltà da cui proviene (orologio, libro mastro, penna e calamaio), tutti elementi che lo rendono un perfetto rappresentante della borghesia inglese del ‘700, con delle strutture mentali ed organizzative già formate. Ciò che conta per essi è che, pur in una situazione d’isolamento, il superstite rimetta in moto, spontaneamente, i meccanismi della società capitalistica, deducendone perciò che i suoi principi debbano crescere in armonia con la natura o spuntare dalla terra come i tarocchi sull’albero dei tarocchi.
Questo farà dire a Marx, nella Miseria della filosofia, che “gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Così di storia ce n’è stata, ma non ce n’è più”.
Ma più corretto e coerente, scrive, invece, La Grassa, nel suo saggio, sarebbe stato, per l’economica dominante, partire da ben altro caso letterario, al fine di capire fino in fondo come si evolve il comportamento di un uomo privo di socialità e cultura in un ambiente non insediato da suoi simili. E se come punto zero si prendesse un soggetto alla Tarzan, il quale, seppur umano, non ha mai avuto contatti con la sua specie vivendo, da quando era in fasce, nel bel mezzo della giungla, quali caratteristiche sarebbero emerse? Certamente, non quelle del cittadino inglese sradicato dal suo contesto all’ora del thè che tiene la contabilità di se stesso anche su un atollo.
Effettivamente, sostiene La Grassa, sarebbe stato uno spasso vedere come se la sarebbero cavata i marginalisti alla Walras (non a caso un altro che inseguiva il mito dell’equilibrio generale in economia) o alla Menger e Jevons, anziché con il mito di Robinson, con quello di Tarzan, l’uomo scimmia in cui non vi è il ‘primato della domanda’ ma quello della forza combinata all’astuzia in un ambiente non civilizzato.
Il protagonista della storia di Burroughs è un uomo che non ha mai avuto esperienza degli altri uomini, dei rapporti sociali, delle regole di convivenza e delle leggi economiche del suo tempo. È l’individuo isolato, nel vero senso della parola, che persegue il suo interesse, la mera sopravvivenza, secondo una natura davvero primordiale, tra pericoli e insidie, che non è quella artificiosa dalla quale gli economisti fanno discendere i frutti marci dell’ideologia capitalistica.
In questo senso ha ragione Marx quando afferma che: “gli economisti dominanti hanno un bel dire che quello del capitale è un sistema naturale, laddove le forme sociali in cui [si] produce e che appaiono rapporti dati, naturali, sono il costante prodotto – e solo per questo il costante presupposto – di questo modo di produzione specificamente sociale”.
Robinson, invece, è già un “concentrato sociale”, come piace alla mitologia che si fonda sull’homo oeconomicus, la prova provata che il capitalismo non crollerà mai perché il suo meccanismo di riproducibilità sistemica non è una strada casuale imboccata dall’umanità in un certo punto della sua storia ma è addirittura insito nel DNA stesso della specie umana, presa nella sua singolarità (Robinson) e collettività (in quanto aggregato di molti Robinson). Insomma, fatti non foste a vivere come bruti ma per scambiare merci ed accumulare capitali.
Questo è quel che si dice raccontar(si) stupide favolette. La Grassa ridicolizza questo modo di argomentare e rimette Robinson (e gli economisti) coi piedi per terra. Quello di Tarzan potrebbe, invece, essere un buon inizio per capire come abbiamo cominciato e come siamo cambiati, qual è la sostanza dei rapporti sociali di cui diveniamo il prodotto (maschere di rapporti sociali) e come, a volte, possiamo anche ergerci al di sopra di essi (anche se spessissimo al di sotto):
“Quello di Tarzan è dunque il vero ‘salto’ in uno spazio diverso, con un senso della temporalità diverso. E allora seguiamolo, ma solo per cenni, nella sua crescita. Per certi versi egli usa l’istinto animale (quello detto tale, non so se propriamente; non sono in grado di deciderlo). Quando insegue una preda – in genere pure lui, come ogni altro animale, per nutrirsi – procede avvertendo da dove tira il vento e posizionandosi in modo che il suo odore non arrivi ad essa, altrimenti quella fugge a gambe levate. Inoltre, spesso non tocca terra; procede per aria passando di albero in albero utilizzando le liane. Sa però tendere le trappole, sa attendere un tempo considerevole affinché maturino condizioni più favorevoli. Considera assai meglio i rispettivi rapporti di forza; affronta la prima volta la tigre in modo ‘ingenuo’, ne viene ferito e a momenti ci rimette la pelle, ma impara bene la lezione e poi si ritrae sempre da scontri troppo diretti fin quando questa non è invecchiata. A quel punto è lei che non tiene conto del suo indebolirsi e Tarzan, usando anche dello strumento coltello trovato anni prima nella capanna, la uccide. Insomma, fa uso dell’‘istinto’, ma anche di un pensiero che si articola in modo nettamente più complesso rispetto agli altri animali”.