Tavola rotonda sulla Palestina
Il testo che vi propongo, tratto dal numero 105 (autunno 2007) della Revue d’études Palestiniennes, e relativo ad una tavola rotonda organizzata a Ramallah, il primo agosto 2007 e quindi immediatamente dopo i drammatici avvenimenti di Gaza, è estremamente interessante. Quattro noti intellettuali palestinesi, di diverso orientamento, discutono, con grande passione e senza “infingimenti tattici”, del loro paese, della condizione drammatica in cui vive il loro popolo e dei temi che le varie formazioni politiche, in primo luogo al-Fatah e Hamas, affrontano sul presente ma anche sul futuro del loro paese, un paese da più di quaranta anni occupato dall’esercito israeliano e sempre più costellato di colonie affamate di terra e che trovano invece indigesti i palestinesi. Questo senza voler mettere in discussione la nascita dello Stato d’Israele su una terra sempre palestinese!
Buona lettura! Giancarlo Paciello
Hamas padrone di Gaza: e poi?
Tavola rotonda coordinata da Zakariyya Mohammad e Khaled Farraj cui partecipano: Abdul-Sattar Passim, professore di scienze politiche all’Università di Nablus, Raef Zureik. ricercatore presso l’Istituto Von Leer di Gerusalemme, Camille Mansour, preside della facoltà di diritto dell’Università di Birzeit, Georges Giacaman, professore del dipartimento di filosofia dell’Università di Birzeit e Hani al Masri, direttore del centro “Alternative per la comunicazione e la ricerca” (1° agosto 2007)
Q. Come è stato possibile arrivare a dividerci fino a questo punto: Hamas a Gaza, al-Fatah in Cisgiordania, e un odio senza precedenti tra i due movimenti? Quali sono le radici profonde dell’attuale crisi?
ABDUL SATTAR QASSIM: La scena palestinese è caratterizzata da
tempo dalla presenza di clan. Non è la prima volta che ci uccidiamo l’un
l’altro: ricordatevi cosa è successo in Giordania poi in Libano, e quello
che succede ormai, in quelli che vengono chiamati i territori dell’Autorità
palestinese, quando differenti servizi di sicurezza si sono scontrati
militarmente. Si tratta di una deriva che ci riporta alle strutture profonde
delle società arabe, ma che è stata accentuata dalla situazione politica
nata dagli accordi di Oslo.La guerra civile è iscritta in questi accordi, nel coordinamento securitario e “la lotta al terrorismo” che comportano. Quando si pone il problema di « dare la caccia ai terroristi », ciò significa che dei palestinesi devono combattere altri palestinesi. Gli accordi di Oslo ci spingevano a batterci gli uni contro gli altri. Firmandoli, si preparava il terreno degli scontri attuali.
Aggiungo che quegli accordi e i successivi sono decisamente più modesti della questione palestinese. Sono un vestito troppo stretto per noi. Voglio dire che non potevano soddisfare i nostri diritti, giustificare i nostri sacrifici, e che riducevano a poca cosa la storia della Palestina. Ci sono palestinesi che accettano una tale ingiustizia, ma ce ne sono altri che la rifiutano, e i due campi non possono accordarsi.
Le organizzazioni palestinesi hanno incontestabilmente una struttura e una mentalità tribali. Abbiamo costatato tutti che i militanti di ognuna di esse le difendono ciecamente, senza nemmeno conoscerne posizioni e programma. Sono intolleranti, vengono formati a non rispettare gli altri quali che siano, e questo è vero per tutte le organizzazioni senza eccezioni, comprese le più piccole. Con un tale spirito di corpo che le anima, era del tutto prevedibile che avrebbero sparato le une sulle altre.
Infine, mi sembra evidente che dopo la costituzione dell’Autorità palestinese, il tessuto sociale palestinese è stato terribilmente colpito sul piano morale. Noi non eravamo certamente senza difetti, ma si è assistito da allora ad un grave deterioramento della moralità pubblica. Sono state compiute aggressioni contro persone e cose impunemente in pieno giorno, teppisti in armi sono diventati i padroni, vengono sollecitati ad intimidire le persone con le quali si ha qualche controversia. L’esempio di Nablus è il più probante a questo proposito. La forza bruta prevale sulla competenza e la conoscenza. E’ tutto questo che ci ha portati a questo punto.
RAEF ZUREIK: sono d’accordo con le affermazioni di Abdul Sattar Qassim, ma vorrei da parte mia insistere su di un altro punto, l’assenza di un centro decisionale, e cioè che non c’è più né strategia né politica. In questi ultimi tempi, il lavoro politico consisteva o, in negoziati a porte chiuse, o, in operazioni suicide. In entrambi i casi, il popolo era estromesso. Si pensa che agire in segreto in determinati momenti, mobilitando i propri servizi o sacrificandosi da eroi, sia sufficiente per risolvere la questione palestinese. Con questa mancanza di centro, di
strategia, di una bussola, si è finiti nella polarizzazione che conosciamo. Non si tratta di una differenza di punti di vista tra persone che si collocano sullo stesso terreno, e che può di conseguenza trovare una soluzione. Gli accordi di Oslo hanno generato diverse dualità, e in primo luogo la coppia Stato e rivoluzione. L’Autorità, che non è uno Stato, deve esercitare il suo potere in un territorio ancora occupato, dunque dove la rivoluzione non ha ancora realizzato i suoi compiti. In queste condizioni, cosa pensare delle operazioni militari? Fanno avanzare il progetto nazionale palestinese o invece, al contrario, lo ostacolano? Coloro che le ordinano o le eseguono possono essere considerati, a seconda del punto di vista, come eroi o come traditori.
C’è anche la dualità giustizia e rapporti di forza. Gli accordi di Oslo sono stati motivati dai rapporti di forza, come se la giustizia non ne facesse parte. E da allora due discorsi si sono alternati senza mai incrociarsi. Si può dire che gli accordi di Oslo erano un gran passo in avanti nella misura in cui noi eravamo isolati sul piano internazionale e i rapporti di forza pendevano nettamente in favore d’Israele. Ma se si guardano questi accordi dal punto di vista del diritto, non c’è alcun dubbio che sono fondamentalmente ingiusti e inaccettabili. Coloro che mettono al primo posto la giustizia non ci dicono come fare per rendere possibile la soluzione giusta. E coloro che parlano dei rapporti di forza, dimenticano che, per essere possibile, la soluzione deve essere giusta.
Queste dualità hanno polarizzato la società palestinese e Hamas è apparso come il polo legato alla giustizia storica. Si era inoltre costretti a scegliere, in mancanza di un centro decisionale, tra un progetto laico, ma minato dalla corruzione, e un progetto islamico. Hamas si era lanciato in alcune azioni militari che avevano seriamente turbato l’Autorità palestinese. Non c’era altro mezzo per uscire dalla crisi dall’alto se non restituire la parola al popolo e coinvolgerlo di nuovo nella vita politica, cominciando con l’organizzare delle elezioni. Ma quando ci sono state queste elezioni e Hamas le ha vinte, al-Fatah non ne ha tratto le conclusioni che s’imponevano e ha condotto una campagna mediatica contro Hamas, la
qual cosa ha riprodotto la crisi.
CAMILLE MANSOUR: la domanda che ci è stata posta non è molto chiara. Di quale crisi si tratta? Della crisi del sistema politico palestinese, della secessione di Gaza, del fallimento della costituzione di uno Stato palestinese indipendente sui territori occupati nel 1967, dell’incapacità a liberare tutta la Palestina storica? Io vorrei parlare proprio della
separazione tra Gaza e la Cisgiordania dopo gli avvenimenti dello scorso giugno. In quel caso, non ci si può fermare agli accordi di Oslo. Se si vogliono determinare le origini lontane della crisi, bisogna risalire al 1948. Ma se si tratta di individuare le ragioni più immediate, io penso che si tratti innanzi tutto della volontà di condurre una lotta armata in presenza di una direzione visibile, non clandestina, rappresentata dall’Autorità palestinese. E’ impossibile far coesistere una direzione visibile con una lotta armata. Quando la direzione si trovava fuori della Palestina, il problema non si poneva, ma abbiamo visto come è stato trattato Arafat dopo che ha autorizzato operazioni militari mentre era in Cisgiordania, alla testa dell’Autorità. Dopo la morte di Arafat, ci sono state le elezioni presidenziali, poi quelle legislative.
Era inevitabile che ciò avvenisse. Organizzandole, abbiamo di fatto accettato di trasformare il periodo transitorio in un periodo di durata indefinita. Proprio per evitare una simile situazione Yasser Arafat non voleva che ci fossero delle elezioni dopo il 1999. La sua morte ha costretto l’Autorità ad organizzare le elezioni presidenziali, e dopo che queste hanno avuto luogo, è stato necessario continuare il processo con le elezioni legislative che hanno visto contrapposte le due principali forze presenti, al-Fatah e Hamas. Le elezioni hanno decretato una netta vittoria di Hamas che al-Fatah non ha voluto riconoscere. Ora, le due organizzazioni sono armate. Come volete far convivere in seno all’Autorità due organizzazioni armate, in totale disaccordo sul programma politico e sul principio della divisione del potere? Il perdente non voleva una simile divisione, voleva far fallire il vincitore. Ed è stato incoraggiato su questa strada dagli Stati Uniti, dall’Europa, da tutte le forze che contano nel mondo.
Dobbiamo perciò prendere in considerazione tre fattori: la presenza di due gruppi armati, un’assedio imposto dallo straniero, il rifiuto del perdente di accettare la sua sconfitta. Gli accordi de La Mecca non potevano andare a buon fine perché non precisavano i principi di divisione del potere, non nella funzione pubblica, ma al ministero dell’Interno e nei servizi di sicurezza. In questo ambito, la divisione era impraticabile.
Non dimentichiamo, in tutto questo, la cultura politica diffusa e il non-riconoscimento delle regole del gioco democratico. Né i palestinesi, né l’opinione pubblica internazionale hanno rispettato queste regole. E Hamas non ha avuto il tempo di imparare dalla sua esperienza cosa fosse
la politica e il governo, e le forze sociali non hanno potuto determinarsi di conseguenza.
GEORGES GIACAMAN: Io condivido l’analisi di Camille Mansour e l’approfondirei insistendo in maniera più concreta su alcuni dettagli. Per quanto riguarda il primo punto, che non è direttamente legato agli ultimi avvenimenti, è del tutto chiaro che un’autorità nazionale non può coesistere con una resistenza armata. Arafat ne ha fatto l’esperienza, con le Brigate al-Aqsa, tentando di barcamenarsi, ma Israele non glielo ha permesso né lo permetterà mai in futuro. Ma non è stato questo a provocare gli ultimi avvenimenti. Ci sono state le elezioni legislative nel gennaio 2006 che Hamas ha vinto per due ragioni: la prima è la corruzione che si era propagata su larga scala in seno all’Autorità, la seconda è il fallimento di quello che al-Fatah chiama il progetto nazionale, in altre parole la soluzione dei due Stati. Se si fossero fatti dei passi avanti e fosse nato uno Stato palestinese degno di questo nome, i risultati delle elezioni forse non sarebbero stati gli stessi. In ogni modo, io penso, come Camille Mansour, che la crisi dipende da due fattori, uno esterno ed uno interno. Il primo, è l’accerchiamento politico ed economico e l’intervento scoperto, americano ed israeliano nei nostri affari, proprio come avviene in Libano. A questo proposito, parlare di processo democratico nel nostro paese senza prendere in considerazione il fattore esterno non significa assolutamente niente. La seconda ragione, quella interna, della crisi, è il rifiuto di cedere il potere da parte di certi ambienti influenti all’interno dell’Autorità palestinese. Chi vive a Gaza o a Ramallah lo sa: questi ambienti hanno cercato di opporsi al primo governo di Hamas, non soltanto in parlamento, cosa normale del resto, ma anche nei ministeri e nelle amministrazioni. L’esempio più significativo è stato il rifiuto da parte di un servizio di sicurezza di obbedire agli ordini del ministro dell’Interno, Sai Siyam, la qual cosa ha portato alla creazione della Forza esecutiva, dipendente da Hamas. Avevamo dunque a che fare con due servizi di sicurezza, contrapposti l’uno all’altro e che disponevano entrambi di armamenti. Ci sono stati contrasti tra loro, che sono andati poco a poco aggravandosi. Per questo io non mi sono mai sorpreso degli avvenimenti dello scorso giugno, annunciati da questi contrasti.
Per tornare alla coppia Autorità/azione armata, vorrei ricordare che Hamas, in virtù degli accordi del Cairo (marzo 2005), aveva accettato di
calmare le acque, e non era la prima volta. Nel 2003, quando Mahmoud Abbas era Primo ministro, Hamas aveva acconsentito a sospendere le sue attività militari. Mahmoud Abbas cercava di integrarla nel sistema politico e Hamas ha mantenuto nel complesso la parola. Il principale ostacolo era l’accerchiamento, prima e dopo le elezioni. E questo si è prolungato anche nel periodo in cui Hamas ha tentato di formare un governo di unità nazionale, e si dice che alcuni ambienti palestinesi abbiano fatto sapere agli americani di non essere contrari. Questi due fattori, interno ed esterno, si sono fusi fino a portarci all’attuale situazione. Hamas ha probabilmente avuto torto nel formare da solo il suo primo governo. Sarebbe stato più prudente profittare della sua maggioranza parlamentare per controllare il governo e attuare il suo piano anti-corruzione. E’ al contrario finito nel gioco di al-Fatah e si è adoperato ad infiltrarsi nella funzione pubblica.
Ciò di cui non si parla in questa storia, è il contenuto di quello che viene chiamato “progetto nazionale palestinese”. Ci tornerò se lo vorrete, e affronterò anche il problema dell’islam politico alla luce dell’esperienza di Hamas.
HANI AL-MASRI: comincerò col citare una frase, sia pure in modo approssimativo, di Mushtaq Khan in un congresso a Beirut: “Se potessimo costruire sotto occupazione uno Stato palestinese, realizzare una crescita sostanziale, vivere in un sistema politico democratico, perché dovremmo rivendicare la fine dell’occupazione? Se così fosse, l’occupazione sarebbe una grazia del cielo !”
Il nostro problema è questo: il progetto nazionale palestinese è scomparso mentre noi ci sforzavamo di raggiungere un obiettivo irrealizzabile. Si è tentato di costruire un’Autorità nazionale come una tappa sulla strada dello Stato, e tutto questo si è concluso con un doloroso fallimento. Un fallimento in tutti gli ambiti: la crescita, la resistenza, la cultura, i valori morali, e la ragione è dovuta al fatto che dal preside
nte dell’Autorità al più modesto impiegato, tutti vivevano in un paese occupato.
Dopo il fallimento di Camp David, non c’era più zona A e zona B. L’esercito israeliano non ha più tenuto conto degli accordi presi sull’autonomia ed è intervenuto dappertutto in Cisgiordania e a Gaza. Il processo di Oslo è finito in un impasse, ed è questo cocente fallimento che i suoi promotori hanno pagato alle elezioni legislative e ultimamente
a Gaza. Ci si poteva aspettare che chi si dichiarava ostile al processo di Oslo facesse una proposta alternativa, capace di mobilitare di nuovo il popolo palestinese per raggiungere i suoi obiettivi nazionali, ma non lo hanno fatto. Al contrario, la forza in ascesa, Hamas, ha accettato il gioco dei suoi avversari e ha cercato di affrontarli sul loro terreno. Hamas si è adattato agli accordi di Oslo e ha accettato che il presidente dell’Autorità si facesse carico dei negoziati, compresi quelli che riguardavano lo statuto definitivo dei territori occupati. Ha anche accettato l’idea di uno Stato nelle frontiere del 4 giugno 1967. Dunque, non sono più gli accordi di Oslo a determinare l’opposizione radicale tra Hamas e al-Fatah. In seno a quest’ultima, la contestazione di quegli accordi è più virulenta. Si pensi al progetto presentato da Ahmad Youssef, il consigliere di Ismail Haniyye, ed elaborato in un paese europeo: è al di qua del programma nazionale basato sul diritto all’autodeterminazione, la costituzione di uno Stato indipendente nelle frontiere del 1967 e la giusta soluzione del problema dei rifugiati in conformità con la risoluzione 194 delle Nazioni Unite. Hamas è anche disposto ad accettare una soluzione transitoria riguardante una parte dei territori occupati, per poter arrivare ad una tregua.
E’ evidente che nessuna organizzazione è stata capace di elaborare un progetto ed una strategia credibili. Al-Fatah parla ancora di negoziati ma noi sappiamo che Israele se ne serve per guadagnare tempo, indebolirci ancora di più e spingerci ad accettare l’inaccettabile. Per Israele non c’è un problema né di legalità internazionale né d’iniziativa araba di pace. Negozia soltanto per verificare se siamo diventati abbastanza maturi, a forza di ricevere colpi, per sottometterci alla sua volontà. Nel frattempo, l’accerchiamento continua, e così la colonizzazione, le incursioni e i bombardamenti. Da parte di Hamas, si vede bene che “la resistenza” che preconizza non ha prospettive strategiche. Le operazioni-suicide, che io non approvo e che nuocciono alla causa palestinese, hanno senza dubbio colpito Israele sul piano economico e della sicurezza. Ma una volta vinte le elezioni, Hamas si è deciso a fermarle, unitamente a qualsiasi altra azione militare, se si eccettua il lancio sporadico di missili. La “resistenza” è così diventata una semplice tattica destinata a rinforzare la posizione di Hamas all’interno del sistema politico palestinese. Non si colloca in una visione strategica del conflitto.
Esiste una terza corrente, che oscilla tra al-Fatah e Hamas, che non ha trovato ancora le sue caratteristiche. Preconizza nelle sue conferenze una
“resistenza popolare” che fatica a far passare dallo stadio di teoria a quello della pratica. La nostra difficoltà principale deriva dall’assenza di un centro decisionale.
Ce n’era uno, che si chiamava Yasser Arafat. Era un riferimento, anche per coloro che non erano d’accordo con lui, anche per Hamas. Arafat ha sbagliato molto, ma aveva un vero progetto. E quando è morto, probabilmente avvelenato, la nuova direzione ha accettato l’idea che avevamo perduto e che occorreva pagarne il prezzo, e dunque di cercare di adattarsi alla politica americano-israeliana. Ora, i palestinesi rifiutano la liquidazione della loro causa e sono determinati a raggiungere i loro obiettivi nazionali quali che siano i sacrifici che questa lotta richiederà. E’ per questo motivo che hanno dato la maggioranza a Hamas — non certamente per il suo programma economico e sociale. Ma Hamas li ha delusi perché si è adattata, poco a poco, al quadro definito dagli accordi di Oslo.
Q. Passiamo al secondo punto: quali sono, secondo voi, le conseguenze politiche e giuridiche di quanto è avvenuto a Gaza?
GEORGES GIACAMAN: sul piano politico, questi avvenimenti hanno evidentemente provocato una profonda frattura. Ora abbiamo due governi che, entrambi, si dichiarano legittimi. Il solo legame tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania è costituito dal Consiglio legislativo.Vale a dire che se ci s’intestardisce a organizzare nuove elezioni, cosa che non sembra essere il caso, si determinerebbe una frattura totale tra le due regioni.
Sul piano giuridico, il dibattito tra le due parti non porterà a nulla poiché la Costituzione non prevede un caso simile. Una costituzione non può ragionevolmente precisare le regole da seguire in caso di guerra civile, o se più della metà dei deputati viene arrestata! Presuppone che esista un processo politico, che si passi da una tappa ad un’altra per mezzo di negoziati, che non ci sia lotta armata, che la situazione economica e politica del paese sia stabile… Richiamandosi alla Costituzione, le due parti cercano di giustificare le loro posizioni politiche con argomentazioni giuridiche.
Quanto a sapere come evolveranno le cose, mi sembra che Mahmoud Abbas cerchi di ottenere un successo politico significativo attraverso i negoziati. Se ci riesce, uscirà vincitore dalla prova. In caso contrariasi
assisterà ad un rilancio della lotta armata in Cisgiordania, e il governo da lui nominato non potrà farci niente.
CAMILLE MANSOUR: è evidente che la prima conseguenza di questi avvenimenti è la separazione politica tra Gaza e la Cisgiordania, che si traduce con l’esistenza di un governo in ciascuna delle due regioni. Prima esisteva un’unica autorità e organizzazioni politiche che cooperavano tra di loro, cosa che garantiva l’unità delle due regioni – anche se si costatava dopo Oslo che i loro rapporti economici e i legami sociali tra i loro abitanti perdevano progressivamente di intensità. Tuttavia, non tutto è perduto. La presidenza è sempre riconosciuta a Gaza, malgrado le critiche rivolte a Mahmoud Abbas, e la stessa cosa vale per la Costituzione. Il Coniglio legislativo esiste sempre sul piano giuridico, se non nella realtà, e l’apparato giudiziario resta unito benché il ministero pubblico non lo sia più. I giudici di Gaza pensano che il Consiglio Superiore di giustizia sia quello che risiede a Ramallah.
La ricaduta politica principale deriva dall’atteggiamento di Israele e degli Stati Uniti che hanno applaudito l’evento. Ha fatto seguito un’iniziativa del presidente Bush che ha parlato di una conferenza internazionale in autunno. Mahmoud Abbas non può più, anche se lo desidera, far ricorso a mediazioni arabe per riallacciare i rapporti con Hamas. Non lo può più perché gli israeliani e gli americani glielo vietano, dopo gli avvenimenti di Gaza. Salvo in caso di un cambiamento radicale, come quello di cui ha parlato Georges Giacaman, e cioè di un’importante apertura politica. Che, per quanto mi riguarda, io non mi aspetto nel prossimo avvenire.
Per tornare all’aspetto giuridico, io penso che la Costituzione non sia morta nonostante che non venga rispettata integralmente.
Lo stato d’emergenza è stato decretato, come si sa, ed è terminato nell’arco dei trenta giorni previsto dalla legge, e questo è u
n buon segno. E’ possibile che le cose vadano diversamente a Gaza, ma qui, in Cisgiordania, la Costituzione conserva la sua legittimità. La si fa valere anche se qualcuno cerca talvolta di aggirarla.
RAEF ZUREIK: poiché non sono un buon conoscitore della Costituzione, parlerò di quella zona nebbiosa dove la politica viene ridotta al diritto, e la logica della rivoluzione a quella dello Stato. In un sol colpo, si è cominciato a far riferimento, sia all’OLP sia al diritto,
mentre non si tratta necessariamente di riferimenti comuni alle due parti. Qualsiasi sistema politico ha bisogno, per esistere, del consenso su un certo numero di principi, e i conflitti vengono regolati facendo riferimento a detti principi. Nella nostra situazione, abbiamo bisogno di una volontà politica e di interpretazioni giuridiche per salvare quello che può essere salvato con accordi politici. Nessuno concorda con il comportamento di Hamas a Gaza, ed è indispensabile che Hamas ci rifletta e faccia macchina indietro. Però, io mi preoccupo sentendo le dichiarazioni di al-Fatah e di Mahmoud Abbas. Io mi chiedo se vogliono veramente che Hamas si scusi pubblicamente o invece imporgli condizioni inaccettabili per giustificare il loro rifiuto di riallacciare i rapporti. L’Autorità non ha in pratica nessuna carta in mano. Dipende ormai dagli Stati Uniti e da Israele.
ABDUL SATTAR QASSIM: io dissento dalla maggior parte delle analisi che ho ascoltato. In primo luogo, Raef Zureik ha parlato di “operazioni suicide”. Perché non utilizzare un’espressione più neutra, e dire di “persone che si fanno esplodere”? Si è parlato anche di “progetto nazionale”. Cosa è esattamente? Qual è il contenuto di questo progetto? Se è quello di Yasser Arafat, non si tratta di un vero progetto. La stessa cosa vale per quello del Fronte popolare. In ogni caso, non c’è un solo “progetto nazionale”, ma più d’uno. Quanto a Ahmad Youssef, che è stato citato, gli ho posto io stesso la domanda per sapere se ha veramente espresso le idee che gli vengono attribuite, e mi ha giurato che non c’è nulla di vero. Si tratta di un testo elaborato da europei e di cui è stato semplicemente il destinatario.
Raef Zureik ha evidenziato il problema delle dualità. Indubbiamente esistono, ma i termini di ciascuna di esse non sono necessariamente in opposizione. Hamas appartiene politicamente alla famiglia dei Fratelli musulmani, che non sono jihadisti ma riformisti, disposti al negoziato. Perché non si sono accontentati di controllare il potere legislativo? Io sono tra coloro che hanno consigliato ai dirigenti di Hamas di non presentarsi alle elezioni e di sostenere invece candidati indipendenti. E dopo la vittoria elettorale, ho suggerito loro di non formare il governo, e che lo facessero altri di cui avevano fiducia. La seduzione del potere è stata più forte, e si sono ritrovati in una situazione inestricabile, di fronte ad un’amministrazione totalmente in disordine. Da quel momento, la loro politica è consistita, non nell’agire ma nel reagire. Abbiamo proposto loro di prendere iniziative audaci sul piano economico e finanziario, ad
esempio di favorire l’industria locale, ma questo era per loro incomprensibile.
Io non penso che la questione di fondo consista nell’essere pro o contro gli accordi di Oslo. Ciò che è in discussione è la pratica volontariamente corruttrice di Yasser Arafat. Io l’ho osservata dal 1970 ed ho visto come, proprio con questa pratica, ha messo contro i palestinesi, i giordani, poi i libanesi, poi i tunisini, come ha spinto palestinesi contro palestinesi. Noi siamo preda di una profonda crisi morale, ed è questa la causa principale di ciò che accade in Palestina. Il rancore e l’odio che minano la società palestinese sono stati alimentati da Arafat. E’ stato lui a portarci dove siamo, con la corruzione, il favoritismo, il clientelismo, la compiacenza verso le canaglie. Perché dovrei dimenticare oggi tutto questo?
Io ho l’impressione che dopo gli avvenimenti di Gaza, e sotto la loro pressione, le cose siano un po’ migliorate sul piano della sicurezza. E’ il caso di Nablus dove l’Autorità ha preso delle misure per ristabilire l’ordine. Resta il fatto che la legge in Palestina non viene applicata se si eccettuano ambiti marginali. Arafat ha agevolato i favoritismi, e i suoi eredi hanno percorso la stessa strada. E’ ora che tutto questo cessi e di imporre a tutti il rispetto della legge. Gli accademici e gli intellettuali non svolgono il loro ruolo nella società, e qualsiasi gruppo armato ha più influenza di tutte le nostre università.
HANI AL-MASRI: io credo che gli avvenimenti di Gaza abbiano portato alla causa palestinese il colpo più terribile tra quelli subiti da decenni. Noi non riusciremo a rimettere in piedi l’unità nazionale per molto tempo, perché potremo sempre di meno decidere per noi stessi. L’iniziativa di Bush e il cambiato atteggiamento di Olmert sono molto significativi a questo proposito. Poco tempo fa, quest’ultimo rifiutava di concepire uno sbocco politico, anche se in termini ambigui. Ora, Olmert e
Mahmoud Abbas fanno dichiarazioni quasi identiche. Gli
israeliani e gli americani cercano di trarre profitto dalla nostra
divisione, per far pagare la fattura sia a Mahmoud Abbas sia a
Hamas. Perché attualmente quest’organizzazione, per
sopravvivere e cioè per ottenere un aiuto umanitario per la
popolazione di Gaza, è costretta a dar prova di buona condotta rinunciando a lanciare missili, fornendo un aiuto per liberare il soldato Shallit, mettendo fine al contrabbando di armi, ecc. E le cose si aggraveranno. Disgraziatamente, né la popolazione, né le organizzazioni esistenti sembrano rendersi conto del pericolo, quello cioè della liquidazione della causa palestinese da parte di palestinesi. Se i liquidatori in passato non avevano il coraggio di mostrarsi, oggi si pavoneggiano apertamente.
Sul piano giuridico, anche se sono d’accordo su molti punti con Camille Mansour, penso che non sia sano che il presidente dell’Autorità disponga, come avviene adesso, di tutti i poteri. E’ contrario alla Costituzione. Anche se lo stato d’emergenza è legale, la maggior parte dei giuristi concordano nel dire che il governo non lo è. E poi, quando ci si rimette all’OLP, sapendo chiaramente che non è operativa, ciò vuol dire che si affida l’ affaire al Presidente. Ci sono su questa questione delle lacune nella Costituzione, ed è stato al-Fatah a volerla così e che si oppone ad ogni emendamento.
Q. Nelle condizioni estremamente difficili, quali sono le nostre, a che punto siamo per quanto riguarda la creazione di uno Stato palestinese indipendente? Questo progetto è ancora realizzabile ?Altrimenti, quale potrà essere la soluzione alternativa?
CAMILLE MANSOUR: si riparla molto in questo momento dell’idea di uno Stato democratico relativo a tutta la Palestina mandataria. Io ci tengo a mettere in guardia contro l’adozione di quest’idea come programma politico. Essa ci farebbe perdere tutto il nostro credito presso l’ONU, sia nel Consiglio di sicurezza sia nell’Assemblea generale, e priverebbe così il popolo palestinese di una rappresentanza a livello internazionale. Uno “Stato democratico” presuppone che i palestinesi abbiano liberato integralmente la Palestina, “dal fiume al mare”. Come si può proporre seriamente una simile soluzione quando la situazione peggiora sempre più ? Il nostro progetto deve restare la creazione
di uno Stato palestinese indipendente sui territori occupati nel 1967: la
Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerusalemme-Est. Che questa o quell’organizzazione opti per uno “Stato democratico” è un problema suo. Ma noi dobbiamo, in quanto movimento nazionale, attenerci al progetto di insediare lo Stato nei territori occupati nel 1967, né più, né meno, come lo ha precisato Hani al-Masri.
L’ho detto, io non mi aspetto che i negoziati in corso sbocchino in un accordo. L’anno prossimo è anno di elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Arriveremo forse a degli accomodamenti israelo-palestinesi, ma certamente non ad accordo in buona e dovuta forma, firmato dalle due parti. Il ritiro dalla striscia di Gaza è avvenuto per una decisione unilaterale. Altri ritiri potrebbero verificarsi invece in Cisgiordania, sulla base di un accordo preliminare. Un accordo e non una “dichiarazione di principi”. Penso che nessun dirigente palestinese sia in grado di ottenere una dichiarazione di princìpi suscettibile di essere accettata dal popolo.
RAEF ZUREIK: La soluzione dei due Stati è ancora possibile ? Sì e no. Sì, se c’è una volontà internazionale fermamente espressa e una pressione conseguente su Israele. Esiste questa volontà attualmente? No, evidentemente. E non è ragionevolmente prevedibile un capovolgimento dei rapporti di forza, o un cambiamento della politica americana, o dello stato dell’opinione pubblica in Israele, che imporrebbero una simile soluzione.
Camille Mansour ha ragione quando dice che non si può passare da un minuto all’altro dalla rivendicazionedi uno Stato in Cisgiordania e Gaza a quella di uno “Stato democratico”. Non dimentichiamo che l’OLP si è impegnato in questo senso davanti alle istanze internazionali e alle associazioni di solidarietà con la nostra causa. E poi, se ci avventurassimo per questa strada, quale atteggiamento dovremmo adottare nei confronti delle colonie? Dovremmo smettere di considerarle come zone occupate? E come conciliare una tale virata con il nostro continuo riferimento alla legalità internazionale? In compenso e, contrariamente a Camille Mansour, io ritengo che la sconfitta che abbiamo subito non c’impedisca di progettare un’uscita verso l’alto. Non è forse quello che è successo in Sudafrica? La soluzione di un unico Stato si è imposta perché le altre opzioni erano apparse impraticabili. Il giorno in cui i palestinesi abbandoneranno il sogno o l’illusione della soluzione dei due Stati, essi avranno nel frattempo capito che la Palestina nel suo
insieme è abitata da due popoli e, di conseguenza, che la sola soluzione restante è quella di creare uno Stato, uno solo, per questi due popoli.
Il diritto all’autodeterminazione cesserebbe in questo caso di essere un diritto alla separazione per diventare un diritto all’integrazione. Io credo che sia necessario discutere seriamente di questa prospettiva affinché i palestinesi non si intrappolino nell’idea di non avere più alcun margine di manovra e che il futuro si deciderà nelle due prossime settimane, esattamente come vogliono Bush e Olmert.
ABDUL SATTAR QASSIM: il progetto di Stato palestinese non è che una tappa nella lunga serie di concessioni fatte dalla direzione palestinese. Il nostro torto è di aver elaborato progetti e preso iniziative. Dobbiamo limitarci a reclamare tutti i nostri diritti, anche se sappiamo che non li otterremo integralmente. Fare delle proposte restringe il nostro campo di manovra e finisce per chiuderci in un angolo molto piccolo. Uno Stato palestinese degno di questo nome, e cioè che abbia un esercito, frontiere aperte con i paesi arabi, relazioni diplomatiche non restrittive, è una chimera. Con i negoziati in corso, giungeremo eventualmente ad una piccola entità destinata a garantire la sicurezza d’Israele. Con questo, ci sarà permesso di mangiare e di bere, di viaggiare e di mandare i nostri figli a scuola. Questi non sono veri negoziati, noi non negoziamo, noi mendichiamo.
HANI AL-MASRI: avere uno Stato è un obiettivo ancora realizzabile, difficilissimo senza dubbio, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti, e prima di questi con la colonizzazione, il muro, le strade d’aggiramento, i checkpoint, ma non direi che questa opzione è definitivamente tramontata. Lo sarà, tuttavia, se non modificheremo il nostro comportamento. Io concordo con Abdul Sattar Qassim quando ipotizza la possibilità circa la creazione di un’entità che chiameremo Stato, ma che non avrà le prerogative di un vero Stato. L’Autorità in quanto tale sarà chiamata Stato, e sarà anche costretta ad un numero maggiore di impegni rispetto al passato. Israele potrà per esempio, intervenire militarmente nelle città palestinesi, ogni volta che lo vorrà.
La situazione obiettiva, regionale e internazionale, non è mai stata così propizia per l’insediamento di uno Stato palestinese. L’egemonia americana è contestata dappertutto ed è già stata messa sotto scacco in Irak, in Iran, in Libano. Il mondo intero concorda nel ritenere che lo Stato palestinese costituisca la chiave di stabilizzazione dell’insieme del Medio
Oriente, cosa che il famoso rapporto Baker-Hamilton, che riflette l’opinione pubblica americana, sottolinea a sua volta. Il problema è che noi, non siamo pronti. Noi mendichiamo, di fatto, e anche se il mondo è con noi, non avremo niente finché continueremo a scalzare le nostre posizioni e a dilapidare le nostre carte migliori.
GEORGES GIACAMAN: In questo problema, si possono distinguere tre livelli: ciò che è prevedibile a partire dai dati di cui disponiamo, il programma politico accettabile sul piano regionale ed internazionale, indipendentemente dalla possibilità o no di realizzarlo, l’opzione “lo Stato democratico” e in che misura sia desiderabile e realistica.
Benché sia molto rischioso prevedere le prossime evoluzioni, io vorrei affrontare il primo livello cominciando con il ricordare le ragioni del ritiro israeliano dalla striscia di Gaza. Questo ritiro è stato deciso, da una parte, perché non c’era più un processo politico, dall’altra perché Israele non poteva mettere fine all’intifada senza una repressione massiccia che avrebbe fatto decine di migliaia di vittime – e un crimine di guerra di tali proporzioni non se lo poteva permettere. Ora, Israele si trova di fronte ad una sfida temibile: come garantirsi la sicurezza in Cisgiordania o più precisamente, chi è in grado di farlo? Quando i dirigenti israeliani affermano che Mahmoud Abbas è debole, vogliono dire con questo che non dispone dei mezzi per svolgere questa funzione. La sola forza che ispira loro fiducia è la Giordania. E’ questa la ragione per cui penso che potrebbe essere avviato un nuovo processo politico per rispondere al bisogno israeliano di sicurezza sul lungo termine. Tanto più che Olmert in Israele e Bush negli Stati Uniti sono alla ricerca di un qualche risultato per dare nuovo lustro al loro blasone. D’altra parte, si sa che Mahmoud Abbas, scottato dal fallimento del processo di Oslo, insiste da anni sulla necessità di giungere ad un accordo, non sulle modalità da seguire, ma sull’obiettivo da raggiungere. Ora, sembrerebbe che vengano condotti attualmente negoziati in questo senso in via non ufficiale. Quale sarà il loro sbocco? Nessuno può saperlo, ma per le ragioni appena espresse, non è impossibile che venga lanciato un nuovo processo politico, che arrivi alla costituzione di uno Stato palestinese con frontiere provvisorie, poi ad una confederazione giordano-palestinese. I giordani sono chiari su questo
: loro discuteranno di questa prospettiva soltanto dopo l’insediamento di uno Stato palestinese.
Per quanto riguarda la soluzione dei due Stati, nell’accezione palestinese ed araba, sembrerebbe attualmente irraggiungibile ma è
ufficialmente la sola parola d’ordine corrente tra le istanze regionali ed internazionali. Secondo i sondaggi, continua anche a godere dei favori della popolazione palestinese. E anche se si discute nei circoli di intellettuali dell’altra opzione, e cioè “lo Stato democratico”, nessun partito politico, che io sappia, la adottata ufficialmente. Infine, c’è un’idea evocata spesso da alcuni scrittori e che non è mai stata studiata con attenzione: lo scioglimento dell’Autorità palestinese. Ma sarebbero in molti ad opporsi, perché i loro interessi personali verrebbero lesi qualora l’Autorità scomparisse.
RAEF ZUREIK: il progetto dei due Stati è stato accantonato dalla destra americana e dai “centristi” israeliani e si è così trasformato da un progetto di liberazione nazionale del popolo palestinese in un accomodamento destinato a soccorrere Israele. Quest’ultimo ha interesse a chiamare Stato l’entità che ci proporrà perché gli permetterà di liberarsi dei problemi complessi che l’occupazione pone. Ci dirà: voi avete uno Stato, non avete che da regolare voi stessi i vostri problemi. E poi farà carico all’Autorità di tutte le responsabilità che, secondo il diritto internazionale, sono tipiche di uno Stato. In breve, si tratterà di uno Stato che non ha le prerogative di uno Stato, perché non è sovrano, ma che deve assumersi gli obblighi di uno Stato come gli altri. E’ una trappola. Israele rivolge contro di noi la nostra parola d’ordine, dopo averla svuotata del suo contenuto.
ABDUL SATTAR QASSIM: la questione dello Stato, da cui dipende l’avvenire del popolo palestinese, non può essere messa da parte alla leggera. La decisione richiede un consenso. Attualmente, la nostra causa è marginalizzata e Israele non è disposto ad esaminare una soluzione ragionevole. Tutta la sua attenzione, e quella degli americani, è attratta da Hezbollah, la Siria e l’Iran – senza dimenticare l’Afghanistan e i disordini in Pakistan. A loro interessa, per il momento, di darci una dose di tranquillanti. Cosa dobbiamo fare in queste condizioni sfavorevoli? Io credo che noi non abbiamo bisogno né del presidente né del Primo ministro né del governo, ma molto semplicemente di un consiglio amministrativo costituito da persone competenti ed indipendenti e che abbiano per compito quello di gestire gli affari quotidiani. Una specie di consiglio municipale a misura di Cisgiordania e striscia di Gaza. Che due organizzazioni, il Fronte popolare e la Jihad islamica, si riuniscano e
propongano i nomi dei membri di questo consiglio, una dozzina, tutti indipendenti. Perché proprio queste due organizzazioni? Perché la prima fa parte dell’OLP, e non la seconda, che appartiene al movimento islamico. Ovviamente, tutto ciò deve essere fatto con l’avallo di al-Fatah e di Hamas. Dopo di che, occorrerà rifondare l’OLP, con un nuovo statuto, e soltanto all’OLP toccherà il compito di rappresentare il popolo palestinese sul piano politico.
HANI AL-MASRI: all’inizio della sua tournée in Medio Oriente, Condoleeza Rice ha dichiarato di essere favorevole all’insediamento di uno Stato palestinese prima della fine dei negoziati. Vuole dunque uno Stato provvisorio, e questa volta qui, disgraziatamente, potrebbe riuscirci. Il conflitto inter-palestinese ha fornito l’occasione ad alcuni personaggi di lasciarsi andare, se abbiamo capito bene e per i tempi che corrono, a proposte inedite. In un’intervista a Maariv, Mahmoud Abbas ha parlato di una dichiarazione di principi e di un lungo processo. E non ha smesso di richiamarsi alla road map, alla visione di Bush e all’iniziativa araba di pace, il che si tradurrà per forza in una dichiarazione di principi. Questo vuol dire esattamente mettere fine all’occupazione del 1967, dar vita ad uno Stato palestinese nei territori occupati, prevedere degli accordi ulteriori sullo scambio di territori e il tracciato delle frontiere? Ogni frase può essere interpretata in modi diversi. Noi sappiamo che Israele vorrebbe porre fine all’occupazione, non della terra, ma degli abitanti. Uno Stato provvisorio realizzerebbe proprio questo, e poi si resusciterà l’opzione giordana e l’opzione egiziana. E ciò spiega le perplessità degli egiziani di fronte agli avvenimenti di Gaza. Hanno temuto che gli riammollassero (interpretazione gergale del verbo francese reforger, di cui mi assumo la responsabilità, NdT) Gaza!
GEORGES GIACAMAN: il Primo ministro giordano ha dichiarato un anno e mezzo fa, che il suo paese non discuterà della confederazione se non dopo l’instaurazione dello Stato palestinese. Ciò significa che la Giordania non è contraria al principio di una confederazione. E’ un’opzione strategica che piacerebbe a parecchi protagonisti, in particolare ad Israele, preoccupato per la sicurezza sul suo lato orientale e che conta sui giordani per garantirsela, e in nessun caso sui palestinesi.
Le considerazioni di Hani al-Masri su Mahmoud Abbas meritano una riflessione. Abbas è tenuto sotto pressione per tenerlo lontano da Hamas ma ha bisogno di un’apertura politica per rinforzare la sua posizione. Per
questo, deve tenere duro. Israele, gli Stati Uniti, la Giordania non possono andare dalla parte palestinese per legittimare un qualsiasi accordo politico. E’ questo il motivo per cui io sostengo che lo Stato palestinese è ancora possibile. Dipende ampiamente dalla nostra determinazione imporlo.