TERRORISMO A' LA CARTE a cura di G.P.

Dall'attentato alle Twin Towers del 2001 il mondo ha vissuto con l'incubo del terrorismo. In nome della lotta a quest'ultimo si sono giustificate guerre preventive, occupazioni di terre lontane, distruzioni generalizzate, attacchi ad obiettivi militari che puntualmente hanno causato danni collaterali con migliaia di civili trucidati perché scambiati per ribelli e l'abbattimento di normali abitazioni prese per casematte della guerriglia.

La parola terrorismo è diventata sinonimo di islamismo, jihadismo, alqaedismo, oltranzismo religioso, scontro di civiltà, battaglia tra mondi, con i cattivi, irrimediabilmente cattivi, che colpiscono a tradimento imbottendosi di esplosivo ed i buoni, indefettibilmente buoni, ai quali basta un pulsante per far fuori a distanza migliaia di barbari non adusi alla libertà, alla democrazia e al rispetto dei diritti civili. Questo è il discorso predominante che ha autorizzato la rabbiosa reazione occidentale alla minaccia settaria afghana, iraniana, libanese, irachena, pakistana ecc. ecc. Ma questi elementi identificativi del nemico, sempre indiscutibili quando riguardano l'Occidente, diventano più laschi e variamente interpretabili se toccano nazioni non riconducibili nell'alveo della fantomatica modernità globalizzata. Come la Russia. Qualche giorno fa un attentatore si è fatto esplodere all'aeroporto internazionale di Domedovo causando 30 morti e 150 feriti. La solidarietà delle “società progredite” è arrivata però condizionata da tanti "se "e tanti "ma". “Ma Mosca utilizza il pugno duro nei confronti di queste Repubbliche senza comprenderne le istanze sociali, politiche ed economiche”, “se il Cremlino avesse inglobato nella sua agenda l'esigenza autonomistica di questi governi della confederazione l'esasperazione separatista avrebbe potuto essere neutralizzata e sottratta all'influenza islamica ecc. ecc.” Insomma, i russi se le cercano mentre noi siamo sempre vittime innocenti dell'incomprensibile odio altrui. Qualcuno si è spinto persino più in là attribuendo la crescente instabilità di questi mesi ad una lotta all'interno dello Stato russo tra Putin e Medvedev. Per lo scrittore Nicolj Lilin dietro gli attentati ci sarebbe lo stesso Premier  il quale teme ora un rafforzamento dell'attuale Presidente dimostratosi più in linea con i cardini democratici di Usa e Ue. Secondo Sergio Romano, invece, l'esplosione di Mosca colpisce Putin perchè ne smentisce la capacità di garantire la sicurezza e l'efficienza dell'azione governativa su temi così sentiti dalla pubblica opinione. Non è un complimento per uno che è stato agente del KGB, cioè membro di una centrale d'intelligence tra le meglio organizzate del pianeta. Si vuol, dunque, riprodurre il dualismo tra le  più  alte cariche dello Stato per dare l'immagine di una nazione ancora immatura, divisa al suo interno, che come tale non può candidarsi a polo di forza regionale e a  partner affidabile dei propri vicini e della comunità internazionale. Tuttavia, l'ipotesi più plausibile non viene ovviamente nemmeno presa in considerazione dai media mainstream. Una Russia instabile avvantaggia gli Usa e limita l'azione multipolare di un temibile concorrente nell'area eurasiatica. Nulla di più facile che i ceceni ottengano appoggio logistico, fondi e armamenti da Washington. E' già accaduto in passato con l'Afghanistan ed, in forme diverse, anche negli anni recenti con le rivoluzioni colorate in Georgia, Ucraina, Kirghizistan ecc. ecc. Quest'ultime sono state tutte finanziate, con varie modalità, da organizzazioni vicine all'establishment dello Zio Sam. Anche quanto sta accadendo in Tunisia, Albania, Egitto e Libano facilita l'espansione del malcontento in altre zone mai del tutto pacificate e sempre pronte ad infiammarsi se l'occasione si dimostra propizia. Su queste situazioni calde s'innestano gli interessi di quelle potenze che intendono sottrarre terreno ai diretti competitors geopolitici o puntellare la propria sfera d'influenza. Le cosiddette rivolte del pane esprimono un reale disagio sociale ma sono già visibili i tentativi di dirottarne gli esiti entro paramatri di “ragionevolezza” occidentale. Ieri la Clinton ha espressamente chiesto a Mubarak e al governo egiziano di lasciare aperti i canali di Facebook e Twitter per fare passare i messaggi degli oppositori. Rammentiamo ancora che la rete è già servita per coordinare le azioni di gruppi e soggetti eterodiretti e addestrati dagli Usa nelle rivoluzioni colorate dei precedenti periodi. L'articolo di Marcello Foa, esperto di questioni estere de Il Giornale, che riporto sotto descrive bene questi aspetti anche se, ribadisco il concetto, gli Usa questa volta sono stati colti di sorpresa e stanno cercando di riparare ex-post ad eventi che sono sfuggiti di mano anche a loro.

Tunisia, Egitto: a cosa mira Obama davvero di Marcello Foa

Dunque, l’effetto domino si sta avverando. La rivolta è esplosa in Tunisia, ha contagiato l’Albania e ora si manifesta in Egitto, dove almeno 15mila manifestanti hanno osato manifestare contro Mubarak. La stampa internazionale ha salutato la ribellione con commenti entusiastici, evidenziando il risveglio della coscienza civile araba. Può darsi che abbiano ragione. Però, come ho già scritto su questo blog, sono scettico sulla spontaneità di queste manifestazioni, che invece mi sembrano incoraggiate da qualcuno e ben organizzate. Ricordate la Rivoluzione rosa in Georgia? E quella arancione in Ucraina? E la contro rivoluzione russofona sempre in Ucraina? Oggi c’è la prova: le prime furono organizzate da società Pr americane, la seconda da Mosca. Quel che mi colpisce in queste ore è il comportamento dell’Amministrazione Obama. Nonostante Ben Ali fosse considerato un alleato fedele, Washington non ha spesso una parola in sua difesa e quando le proteste di piazze sono diventate violente non sono risuonate, nella comunità internazionale, le parole di condanna, né la preoccupazione del Dipartimento di Stato per un possibile contagioe fondamentalista. Anzi, a rivoluzione conclusa, Obama ha salutato “il coraggio e la dignità del popolo tunisino”. nel frattempo erano usciti i file di Wikileaks, come sempre provvidenziali, nei quali risultava che l’ambasciata americana confidenzialmente negli anni passati aveva criticato aspramente Ben Ali. Quando si dice le coincidenze… Ora con l’Egitto Washington sembra ricalcare il copione tunisino. Negli ultimi giorni erano emersi segnali inquietanti sul Cairo, ma Washington non ha fatto una piega. Ora la folla occupa il centro del Cairo. E Washington tace. Forse perchè l’anziano e malato Mubarak, al pari di Ben Alì, non è più considerato indispensabile dall’Amministrazione Obama? Questa, sì, sarebbe una svolta.