THE NEW WORLD… CHAOS

Shatterbelts, archi di crisi, zone di conflittualità. È questo il repertorio di definizioni che la geopolitica mette a disposizione degli analisti per dare un nome agli scontri o alle instabilità di vario genere e di varia natura politica, che sono in grado di mettere a soqquadro equilibri regionali precostituiti sino ad influenzare, nella maggior parte dei casi, persino il dibattito e le strategie internazionali delle principali potenze. Solitamente nella storia questa tendenza è sempre stata imputata al fallimento della politica, nella misura in cui questa avrebbe dovuto assicurare la stabilità e l’eliminazione delle condizioni sociali ed economiche potenzialmente in grado di scatenare conflitti interni o inter-etnici. Gli Stati Uniti, invece, sulla scia dell’esempio britannico del XIX secolo, hanno invertito questi termini. Come ricorda Tiberio Graziani, difatti, “gli USA, che si considerano un’isola, imitano la Gran Bretagna: mantengono il predominio utilizzando i contrasti tra gli altri paesi, destabilizzando il mondo” tanto che quella “degli USA si può definire la geopolitica della frammentazione degli spazi o, meglio ancora, la geopolitica del caos1. Non si tratta, dunque, soltanto di un processo di deframmentazione dei tradizionali rapporti terrestri attraverso la riproposizione del sea-power mahaniano (dominio dei mari e controllo dei principali sbocchi navali del pianeta), ma anche di un processo di indebolimento e frammentazione degli spazi altrui, attraverso strategie soft-power (nel caso del condizionamento politico ed economico) o hard-power (nel caso di interventi bellici e/o embargo e restrizioni economiche). Solitamente, gli archi di crisi che Washington sfrutta per i propri scopi non nascono in maniera completamente artificiale, ma, in virtù di una costante ricerca del consenso, fanno leva su divisioni pre-esistenti o su tensioni silenti, quando non latenti, abilmente risvegliate o riportate alla luce, attraverso il lavorio nel dietro le quinte di numerose organizzazioni no-profit, associazioni umanitarie o comitati di sostegno a precisi gruppi politici e/o religiosi, civili o militari. Nella storia recente il caso dei guerriglieri islamo-albanesi dell’UCK resta uno dei più eclatanti, proprio nella misura in cui un commando terroristico, autore di diversi massacri e crimini contro le comunità serbe del Kosovo-Methojia, è stato supportato e sostenuto, addirittura presentato in Occidente come un movimento “eroico” di liberazione. Tale operazione mediatico-propagandistica, del resto, era già riuscita durante l’intervento sovietico in Afghanistan, quando persino la macchina pubblicitaria di Hollywood si era mossa per costruire uno scenario totalmente fittizio, nel quale il tenente John Rambo era chiamato ad aiutare degli “eroici” tagliagole musulmani, pronti, nella realtà, a riportare il Paese nell’oscurantismo e nella sopraffazione del wahabismo, come poi puntualmente accaduto nel 1996, quando ormai, ucciso il presidente Najibullah (abbandonato persino dall’Onu), i Talebani prevalsero sulle componenti di resistenza rivali e ripresero il controllo del Paese. Un governo indigeno legittimo e rivoluzionario, veniva presentato come una “colonia sovietica”, un intervento di aiuto richiesto da quello stesso governo (nel dicembre del 1979) veniva presentato come un’“invasione sovietica”, le numerose scorribande di trafficanti, estremisti religiosi ed irregolari venivano presentate come “atti eroici”. Lo scenario non cambia e segue in modo spaventoso un simile copione ancora oggi, in Libia, dove i “ribelli” della Cirenaica, benché dimostratisi assolutamente minoritari all’interno della popolazione e macchiatisi di crimini efferati, vengono imposti come un esercito di “liberazione” agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. In rapida carrellata, dal Tibet al Myanmar, dalla Cecenia allo Xinjiang, dalla Georgia a Taiwan, sono numerosi gli archi di crisi su cui gli Stati Uniti continuano a sovrapporre la loro vanga, con lo scopo di intensificare l’instabilità all’interno dei territori della Russia e della Cina, o nei loro “esteri vicini”. Particolare attenzione merita anche il caso della Mongolia, allorquando George W. Bush e Condoleezza Rice, avviarono la politica del “terzo vicino” tra il 2005 e il 2006, al fine di inserire Ulanbaatar all’interno di un programma di cooperazione e partenariato atlantico. Quel tentativo, così spudorato e privo di riserve, proprio in uno Stato tradizionalmente coinvolto sul piano internazionale nel ristretto ed unico ambito delle relazioni tra Mosca e Pechino, ha aumentato il livello di ingerenza di Washington nell’annoso tentativo di contenimento e penetrazione all’interno dello scenario eurasiatico. Autentici criminali, mercenari ed opposizioni pilotate vengono opzionati ed inquadrati politicamente: son questi i casi del terrorista Osama Bin Laden alias Tim Osman, del criminale ceceno Chemil Baseyev (sostenuto dal Partito Radicale ed elogiato persino in Italia dallo stesso Pannella), del vergognoso ed ignobile mandato di esecuzione di Nicolae ed Elena Ceausesecu, del fanatico cattolico Lech Walesa, responsabile di insubordinazioni industriali e disordini di piazza in Polonia negli anni Ottanta, del presidente del Kosovo Thaci, accusato di narco-traffico e traffico internazionale di organi umani, del criminale sovversivo ed anarchico Liu Xiaobo, già pronunciatosi a favore di un “nuovo colonialismo” ai danni della Cina ma premiato col Nobel per la Pace, del Dalai Lama, un folle e un sovversivo sostenitore del neo-feudalesimo, dei secessionisti sud-sudanesi e darfouriani, sponsorizzati per anni al fine di spezzettare un Sudan troppo “amico” di Pechino, o del terrorismo curdo, più volte impiegato per “convincere” la Turchia da che parte stare, o per destabilizzare le regioni settentrionali dell’Iraq, soprattutto durante l’ultima guerra del Golfo del 2003. Sarà un caso ma praticamente tutti i personaggi e le sigle che, a vario titolo e in vari modi, contribuiscono alla destabilizzazione di Paesi e governi più o meno esplicitamente ostili a Washington, vengono premiati, sponsorizzati e presentati in versione eroica agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Gli Stati Uniti ed il capitalismo da essi incarnato simboleggiano dunque una società del disordine più che dell’ordine rigoroso, od almeno una società fondata su una distorta idea di ordine politico e geopolitico, intesto quale mantenimento e permanenza di caos, impoverimento e instabilità in vaste aree del pianeta, comprese le realtà urbane delle metropoli interne, dove criminalità, droga, disagio sociale e prostituzione sono caratteristiche ormai ineludibili, come un rapporto della FBI relativo al solo 2007 dimostrava già tre anni fa, registrando medie spaventose: un omicidio ogni 30 minuti (14,831 omicidi nell’intero 2007), uno stupro ogni 6, una rapina ogni minuto ed un’aggressione ogni 36 secondi, per un totale di circa 1,4 milioni di crimini violenti. La gestione del caos sembra l’unica arma utilizzabile dalla politica statunitense anche nei confronti della finanza, dove le recessioni provocate dalle bolle speculative degli ultimi anni continuano a passare indisturbate, senza che praticamente nessun responsabile sia assicurato alla giustizia, lasciando interi settori dell’economia reale annichiliti da swap e hedge funds. Al di là di un po’ di musica, un po’ di tecnologia e di qualche buon film d’annata, non è ancora chiaro cosa questo Paese possa insegnare al mondo.

1 La Voce della Russia, Chi crea gli archi di crisi in Eurasia? Il direttore Graziani a “La Voce della Russia”, 17 giugno 2010