Toni Iwobi non è lo zio Tom
Povero Toni Iwobi che a dispetto del colore della pelle milita nella Lega, partito “notoriamente” razzista secondo la Sinistra. Mal gliene incolse al parlamentare nigeriano naturalizzato italiano che con la sua scelta politica ha mandato in cortocircuito i pregiudizi dei politicamente corretti i quali ovunque vedono negrieri e membri del Ku Klux Klan. Ci ha pensato il giornalista Corradino Mineo nel post che riporto sotto (non credo si tratti di fake news visto che è lo stesso senatore leghista a riprendere le parole del mezzbusto Rai e a rilanciarle via Twitter) a rimettere le cose a posto, ricordandoci dello Zio Tom. Chi era costui? Era il negro da cortile che diceva al padrone bianco: “stiamo bene oggi signore?” “Siamo malati signore?” Era, insomma, la vittima che si identificava col suo carnefice in cambio di alcuni privilegi mentre il negro da piantagione veniva frustato nei campi. Un traditore che si schierava dalla parte dell’aguzzino contro il suo popolo.
Parlo con cognizione di causa di questi temi perché mi sono laureato col prof. Nico Perrone con una tesi sulla storia dei negri d’america ed in particolare sul movimento delle pantere nere. Darmi dello xenofobo, razzista, fascista (l’unico partito in cui ho militato da ragazzo si chiamava rifondazione comunista) risulterà pertanto particolarmente difficile a lorsignori.
Il nomignolo Zio Tom (che Mineo non fa perché forse non lo conosce pur rimandando gli altri dietro alla lavagna) indicava l’atteggiamento di quei negri che vivevano imitando il comportamento dei loro padroni bianchi. Lo zio Tom è il protagonista del celebre romanzo di D. Beecher-Stowe simbolo dell’obbedienza dei negri. Scriveva Rap Brown: «Il razzismo si conferma sistematicamente quando lo schiavo riesce a liberarsi soltanto imitando il padrone: contraddicendo la sua stessa realtà». (Muori schifoso negro, muori!Longanesi). Brown aveva perfettamente ragione ma stiamo narrando di un contesto di segregazione e sfruttamento ormai remoto. Iwobi è membro di Palazzo Madama non lo schiavo di una tenuta in Alabama prima della guerra civile. Effettivamente, fu quest’ultimo avvenimento storico ad offrire la possibilità ai negri di affrancarsi dalla loro condizione di sottomissione allorché decidevano di arruolarsi con gli unionisti in cambio della libertà, di quaranta acri di terra e due muli. Ciò veniva promesso loro per ripagarli della schiavitù e degli assassinii in massa subiti prima, durante e dopo la guerra civile. Ovviamente, non avranno nulla di tutto ciò nonostante i loro sacrifici per la patria.
Come notate uso sempre e solo i termini negro e negri, e lo faccio per rispetto di una precisa identità così come fu affermata dai vari pensatori originari dell’Africa. La négritude era considerata dagli intellettuali negri un principio identitario finalizzato a rifondare la sociopsicologia culturale e storica della loro etnia. Costoro ritenevano il termine nero offensivo perché rimandava al colore (no colored allowed piazzato davanti bagni, teatri, ecc. ecc.). Poi sono arrivati i radical chic e razzisticamente hanno rovesciato la stessa volontà dei negri che avevano lottato per il loro posto nella civiltà elaborando uno specifico pensiero.
Ancora All’inizio del secolo XX la popolazione nera negli USA era ancora fortemente legata a forme di agricoltura che avevano conservato le stesse caratteristiche di sfruttamento dei tempi dei primi schiavi venuti dall’Africa.
Dopo la guerra civile quel sistema aveva subito una metamorfosi in senso mezzadrile che, in accezioni diverse, continuava a perpetrare la subalternità degli afroamericani ai proprietari terrieri.
Quest’ultimi affittavano i terreni ai neri e fornivano loro l’alloggio in cambio del 40% del raccolto. In realtà, i contratti celavano clausole ben più vessatorie dato che il restante 60%, rivolto a soddisfare le esigenze di sopravvivenza dei lavoratori, era eroso da un sistema di prestiti a tassi usurai e dagli acquisti (obbligatori) da effettuarsi negli empori della piantagione a prezzi esorbitanti. Alla povertà che ne seguiva si aggiunse, nel 1944, l’introduzione delle nuove macchine trebbiatrici capaci di svolgere in un giorno il lavoro di 50 operai. I neri, che contemporaneamente stavano maturando una
coscienza sociale più combattiva e più cogente rispetto alle proprie condizioni di vita, cercarono di conquistare maggiore spazio ma si ritrovarono a fare i conti con situazione produttiva che li rendeva esuberanti.
Lo stimolo alla meccanizzazione agricola del Sud si combinò con la richiesta degli Stati del nord di nuova manodopera da introdurre al lavoro di fabbrica.
In breve tempo, cinque milioni d’afroamericani si spostarono in massa verso il miraggio offerto dalla città (questo processo durò trent’anni e andò avanti fino al 1970). Le direttrici della
migrazione passavano dalle strade della Georgia, dalla Carolina e dalla Virginia per giungere a New York e Boston; dal Mississippi, dal Tennessee, dall’Arkansas e dall’Alabama verso Chicago e Detroit; dal Texas e dalla Louisiana per raggiungere la California. Insomma, la meccanizzazione agricola riuscì a fare quello che il proclama d’emancipazione aveva solo formalmente riconosciuto: liberare i neri dalla schiavitù dei campi. Il prezzo che questi dovettero però pagare fu altissimo e presto si trovarono a fronteggiare un nuovo degrado, quello del lavoro di fabbrica e delle megalopoli urbane (ma il lavoro nei campi è certamente più duro di quello industriale). Senza farla troppo lunga al razzismo de iure si è sempre sostituito un razzismo de facto più raffinato nei metodi ma non meno odioso. Oggi la situazione è migliorata sinceramente ma determinate forme di razzismo si trasformano e sono dure a morire. Per esempio la forma radical chic. Essa parla contro il razzismo ma sotto sotto nasconde una discriminazione elitista che emerge quando la realtà non va secondo la sua ideologia. Considero le frasi di Mineo verso Iwobi di tale fatta. La spocchia e il razzismo sono imparentati, per quel che mi riguarda.