TUTTO TORNA, MA DIVERSO
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1. Non credo ci sia contraddizione tra i due detti: “la storia è maestra di vita” e “nella storia nulla si ripete”. In effetti, credo che molte situazioni del passato possano servire per pensare il presente e l’immediato futuro; tuttavia, non si deve proiettare pari pari nel futuro ciò che abbiamo appreso in passato e conservato nella nostra memoria (storica). Quanto accadrà nei mesi e anni a venire ci “sorprenderà” sempre, e troppo spesso deluderà infine le nostre aspettative, frustrerà le nostre speranze; tuttavia, la memoria è essenziale per trarre qualche insegnamento dagli eventi che di volta in volta si svolgono.
Fatta questa premessa, cerchiamo di chiarir(ci) le idee in merito alla fase in cui ci si trova oggi; naturalmente quando parlo di chiarir(ci) le idee, mi riferisco soprattutto a quelli che, come me, hanno in passato creduto nella rivoluzione proletaria (o comunista), o quanto meno nella trasformazione della società capitalistica per movimenti ineluttabili intrinseci ad essa, oppure nella costruzione di nuovi rapporti sociali da parte di “soggetti rivoluzionari”, che comunque sarebbero emersi nell’ambito dei flussi dinamici inerenti alla riproduzione del modo di produzione capitalistico.
Pensiamo assai schematicamente il passato, iniziando da molto lontano. La Rivoluzione del 1789 “fallì”, ma solo per quanto concerne le finalità poste soprattutto dai giacobini; comunque non conseguì mai la “liberté, égalité, fraternité”. Essa produsse però cambiamenti storici in effetti definitivi che si rivelarono successivamente in tutta la loro portata; di particolare rilevanza furono i moti del 1848 che misero in evidenza l’avvenuta decantazione, con opposizione antagonistica, di borghesia e proletariato (o classe operaia) all’interno del Terzo Stato, concetto-ripostiglio corrispondente al prima di allora confuso, e non ben demarcato al suo interno, ammasso di ceti sociali diversi dalla nobiltà e dal clero. Nei primi decenni successivi alla fine della fase acuta della rivoluzione francese, i più radicali tra i rivoluzionari (quelli che avevano creduto nel rivolgimento sociale più netto) avvertirono il senso di una sconfitta (e di un tradimento); da queste delusioni nacquero una serie indescrivibile di utopie sociali che in gran parte giocavano un ruolo “romantico” e reazionario. Buonarroti, Sismondi e moltissimi altri (lo stesso Saint-Simon, pur se con maggior lucidità e acume) – li metto così, un bel po’ alla rinfusa – sono pensatori radicali di questa stagione di riflusso. Anche i primi costruttori di nuove (piccole) società, tipo i falansteri o simili (Fourier, Owens, ecc.), appartengono alla stessa nebulosa di teorici (e nello stesso tempo pratici, visto che si dedicarono ad un’opera di ingegneria sociale) di stampo riformatore ma sostanzialmente poco concludenti; non per colpa loro bensì della immaturità della fase storica.
Solo dopo il 1830 iniziarono a precisarsi nuovi processi, mentre si spegnevano ormai gli ultimi flebili sussulti del luddismo: in Slesia nel 1844, e circa un decennio prima in Francia, Belgio e Svizzera; in Inghilterra, dove il movimento era iniziato già negli ultimi decenni del ‘700 e aveva raggiunto l’apice nel 1810-11, il riflusso era già avvenuto da tempo, il movimento contro le macchine si chiuse di fatto nel 1825. Il 1848 fu un punto di svolta, che trovò “preparato” Marx e diede il là – oltre ad un movimento sociale e politico ultrasecolare – a decisive elaborazioni teoriche, vissute come “passaggio dall’utopia alla scienza”, fondate sulla realistica convinzione di aver individuato la dinamica interna della nuova formazione sociale (capitalistica) e le intrinseche tendenze al suo superamento comunistico. Nessuno, nemmeno due volte più geniale di Marx, avrebbe mai potuto scrivere Il Manifesto (elaborato nel 1847 e uscito nel gennaio del 1848) dieci o vent’anni prima. Certi eventi debbono comunque “maturare”, a volte perfino infracidire (in tal caso, la loro teorizzazione nasce già vecchia; ma non è stato questo il caso del marxismo e del comunismo che su di esso si basò).
Nel Manifesto, Marx parlò genericamente della prossima rivoluzione come ergersi del “proletariato (o classe operaia) a nuova classe dominante”, ed egemone, accennando pure alla “dittatura del proletariato”; senza tuttavia precisarne le forme, restando nel vago, in omaggio al rifiuto di offrire “ricette per la cucina dell’avvenire”. Solo dopo la Comune di Parigi, egli sostenne
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che quest’ultima era “la forma finalmente scoperta” di tale dittatura (di classe) in quanto apparato politico corrispondente al modo di produzione di transizione (rivoluzionaria) dal capitalismo al comunismo (passando per il suo primo gradino: il socialismo). Marx, Engels e poi Lenin (in Stato e rivoluzione) trassero da questo fatto la lezione essenziale secondo cui non ci si può inventare anticipatamente (a mo’ di ingegneria sociale) le manifestazioni concrete della rivoluzione e della trasformazione (in tappe successive) della società capitalistica in comunistica. Bisogna attendere le “lezioni della Storia” (cioè gli effettivi movimenti sociali); prima che questi si verifichino, è soltanto possibile indicare – e, oggi va detto esplicitamente, via ipotesi, senza determinismi di sorta – alcune tendenze di fondo, anticipando previsioni generiche, mai invece immaginando con eccessiva precisione (e sicumera) la precipitazione istituzionale dei flussi di lotta e le dinamiche (strutturali) della società, di cui pur si segnalano (ipoteticamente, per l’appunto!) certe direzioni di svolgimento.
La Rivoluzione russa del 1917 pensò bene di rivitalizzare gli insegnamenti della Comune attraverso i Soviet (operai e contadini). Una volta di più, si è trattato di “errori” che la Storia si è incaricata di correggere. In un primo tempo, lo ha fatto, tutto sommato, virtuosamente. Chi avesse voluto continuare sul serio l’esperienza sovietica avrebbe portato il paese al disastro e alla più completa impreparazione (non semplicemente militare, bensì proprio sociale e politica) nello scontro tra potenze sfociato nella II guerra mondiale. Per fortuna, dopo la morte di Lenin, vinse il gruppo dirigente stretto attorno a Stalin che, con “falsa coscienza” (la “costruzione del socialismo”), riuscì nell’intento di creare una grande potenza in grado di partecipare a pieno titolo alla lotta tra le maggiori, uscendone di fatto vincitrice rispetto a tutte le altre assieme agli Stati Uniti; perché Inghilterra e Francia furono vincitrici sulla carta, ma sconfitte nella sostanza: in definitiva, e nei “giusti” tempi storici, non meno della Germania e del Giappone (sull’Italia, poveretta, stendiamo un pietoso velo).
Perdurò tuttavia in Urss (e nel movimento comunista internazionale, almeno in quello di gran lunga maggioritario), anche dopo la guerra mondiale, la “falsa coscienza” di stare perseguendo il socialismo, ormai avviato verso il comunismo; si continuò a credere che la via maestra per giungere a tale obiettivo fosse la proprietà statale dei mezzi produttivi e la pianificazione centralizzata da parte di uno Stato assolutista, contrabbandato per dittatura del proletariato (poi diventata, con un pasticcio incredibile, di tutto il popolo). Infine, si cercò di ripiegare sul “socialismo di mercato”: vero ossimoro che per lungo tempo ha rappresentato l’ultima spiaggia dei “comunisti”, e fino ad ieri di quelli cinesi; solo oggi se ne parla sempre meno anche in quel paese. Il non aver mai chiarito che il proletariato (e tanto meno tutto il popolo) non esercitava alcuna dittatura, ha contribuito a creare, nei paesi socialisti (Urss in testa), un blocco sociale via via conservatore (corrotto ai vertici, snervato da piccoli, minimi, privilegi alla base), che ha condotto all’arresto dello sviluppo, al degrado della struttura sociale, all’abbassamento del tenore di vita (in Urss, nell’epoca brezneviana, diminuì addirittura la media della vita, e non di poco), con l’ingloriosa implosione dell’intero “campo socialista”. Come già per la Rivoluzione francese, tutti gli orfani del sedicente comunismo (in realtà, un ottuso ultrastatalismo) parlarono (continuano a parlare) di fallimento. Ancora una volta, invece, la Storia sta facendo i suoi giochi alle spalle di tutti noi; apparentemente, tuttavia, perché in definitiva sono le nostre interrelate azioni a provocare il movimento storico, del cui reale andamento si è però troppo spesso inconsapevoli.
Non c’è stato il socialismo, non c’è mai stato; e non si vede come possa fallire se non è mai esistito. Oggi, superate le turbolenze legate alla falsa costruzione del socialismo, ed esauriti i tentativi ideologici (che hanno comunque esercitato un’influenza ben reale) di far passare per tale prima il mero statalismo (una versione del lassallismo) poi l’unione (contraddittoria e dunque paralizzante, invalidante) di socialismo e mercato, la Cina (senza tante scosse) e la Russia (dopo un decennio e più di gravi difficoltà e caos) si avviano a ridiventare potenze, sulla base di una serie di apparati simili a quelli capitalistici nella sfera economica (produzione e finanza): cioè l’impresa (in particolare di grandi dimensioni, ma dando sfogo anche alla piccola produzione mercantile) e,
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appunto, il mercato (ivi compreso quello finanziario). Dal punto di vista istituzionale – senza più lo statalismo asfissiante del passato, né la finzione del partito in quanto avanguardia del proletariato (classe operaia) esercitante la sua dittatura (cioè il pieno controllo dello Stato) – esiste in questi paesi un forte accentramento della direzione politica; tuttavia non tale da impedire le notevoli autonomie di cui godono sia date autorità politiche regionali sia dati sistemi imprenditoriali, ecc.
Per il momento, non abbiamo idee chiare su che cosa siano le nuove realtà – indichiamole per il momento come capitalistiche – che stanno crescendo “a est”. Non hanno però niente a che vedere con il socialismo e comunismo. Chi ancora non lo capisce, è meglio lasciarlo bollire nel suo brodo; non perdiamo tempo per favore, sarebbe come voler trascinare un mulo quando ormai si è impiantato testardamente sulle sue zampe. La Storia, in realtà, si è rimessa in moto come dopo la restaurazione post-1815; forse siamo verso il 1830. Non insistiamo troppo sui paralleli storici di questo tipo, ma certamente stanno fiorendo oggi tutte le utopie e le correnti ideologiche “romantiche” della sconfitta del “comunismo”, che a volte si scontrano e a volte confluiscono con quelle dell’ancora precedente sconfitta del nazifascismo. Al contrario di coloro che mettono nello stesso mazzo nazismo e bolscevismo, il sottoscritto mantiene fermo che essi furono nemici acerrimi. Attualmente, si producono però fenomeni in qualche modo ridicoli per la loro irrimediabile vecchiezza. In dati casi, viene ripresa la commedia della lotta tra fascismo e comunismo; e questa è la peggiore delle mancanze di fantasia, ma è pure un tentativo di surrogare la propria impotenza e di celare la totale incomprensione della nuova epoca in gestazione, utilizzando vecchi antagonismi, soltanto utili a qualcuno per credersi ancora capetto di piccole “masse” in lotta fra loro.
Più sensati, o meno insensati, sono quelli che comprendono il carattere puramente ideologico (e di ideologia vecchia e superata; non ineffettuale, però, non affermo questo, si stia attenti!) della vecchia dicotomia destra/sinistra, anche nella versione estrema di queste due correnti (ho già scritto contro le “quattro ideologie”, due di destra e due di sinistra, nel mio libro Contro, Ermes editrice). Solo che questi un po’ meno insensati personaggi tendono spesso ad avvicinarsi fra loro in quanto sconfitti delle passate rivoluzioni dentro e contro il capitale. Sia gli uni che gli altri superano la dicotomia in questione, pensando al “fallimento” di quelle due rivoluzioni, passate alla storia come nazifascismo e comunismo. Lo ripeto: il fallimento è analogo a quello della Rivoluzione francese del 1789; non si sono realizzate le speranze in essa riposte secondo le modalità credute e perseguite, ma si è compiuto comunque un balzo d’epoca, un “mutamento del mondo”, in quanto tutte le coordinate della precedente epoca storica sono state trasformate. Quando ciò accade, si attraversa però una lunga, spesso lunghissima, epoca di gestazione, in cui le strutture dei rapporti sociali sono ambigue, nebulose, non si precisa ancora la futura decantazione, la precipitazione dei processi storici che dovrà condurre a nuove e meglio delineate riconfigurazioni delle strutture in oggetto.
I delusi della rivoluzione (considerata fallita) però non si rassegnano; e come i Buonarroti, come i Sismondi o i Proudhon, come i Fourier o gli Owens, si mettono a “progettare” nuove utopie, nuovi modi di uscire dall’impasse, con la testa sempre rivolta all’indietro, all’epoca del presunto fallimento delle loro speranze (che è fallimento solo per loro, in quanto individui con la testa piena di tanti bei sogni per il futuro della società). Ed essi si aggrappano a quello che trovano. Nel post-1789, si trattava dell’artigiano o del piccolo contadino coltivatore diretto; questi non ci sono in pratica più. Alcuni, in anni passati (piuttosto recenti), hanno però egualmente rispolverato il “piccolo è bello”; altri sono riandati alla vecchia cooperazione (non proprio quella dei Prampolini, ma insomma…..). Altri si buttano sulle forme più “moderne”: quelle del no profit, del volontariato, delle banche etiche, del commercio equosolidale, degli aiuti ai paesi sottosviluppati (dove si prendono bei soldini); altri si “danno” all’ambiente, alla coltivazione macrobiotica; altri ancora alle energie alternative; cui fanno da pendant anche “culture alternative”, e “medicine alternative” (dalla fitoterapia alla omeopatia alla cura psicosomatica, al benessere con i più svariati e cervellotici metodi che non sto ad elencare). Si rivitalizza perfino, che so io, l’astrologia. In ogni caso, si diffonde un cupo spirito antimodernista, contrario alla scienza e alla tecnica.
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Insomma c’è di tutto, pur di cercare scorciatoie in un’epoca non ancora decantatasi, non ancora precipitata in nuove forme dei rapporti sociali, in nuovi schieramenti che si possano individuare con quello schematismo che è in ogni caso necessario in un’opera di teorizzazione sulla formazione sociale. Perché il maggior nemico della conoscenza teorica è la sempre sbandierata – quando si hanno le idee molto confuse – complessità. E’ lecito rifarsi a quest’ultima, ma con la consapevolezza che vi ricorriamo – così come ai concetti-ripostiglio – quando non siamo in grado, per ragioni oggettive di immaturità dell’epoca, di formulare teorie sufficientemente semplici come quelle del modo di produzione e del valore nel pensiero di Marx. La scienza non può inseguire, se non in queste fasi di transizione, la complessità; deve innanzitutto perseguire la produzione di uno schizzo (ipotetico) del reale; successivamente introdurrà magari nuove variabili.
Siamo di nuovo al nodo: utopia-scienza. Non volendo rassegnarsi al fatto che certi processi non hanno ancora indicato i caratteri specifici della nuova strutturazione sociale in formazione, certuni si mettono a utilizzare quello che c’è; il che sarebbe corretto se lo si ritenesse solo come un compito temporaneo, di fase, se si intendessero le teorizzazioni che vengono proposte come semplici ipotesi in un periodo di transizione ad una nuova epoca del sistema sociale. Invece no, si vogliono già approntare le “ricette per la cucina dell’avvenire”; ogni piccola “bolla” che viene a galla nel tumultuare della fanghiglia viene presa per la reale nuova strutturazione della società, e la si proietta nel più lontano futuro prendendo cantonate portentose. Ogni volta, coloro che così pensano e agiscono sbagliano previsioni, ma non importa: senza alcuna autocritica, senza avvertire i propri seguaci che quanto si è sostenuto essere la “novità assoluta” pochissimi anni fa si è rivelato una bufala, simili nefasti personaggi (veri “cattivi maestri”) escogitano ulteriori “novità assolute” o nuove versioni (s)corrette di quella precedente, che diverranno a breve altre bufale. E così per sempre!
2. Mi tolgo lo sfizio di partire da ancor più lontano. E’ ragionevole pensare che, in un Universo che abbiamo scoperto essere di grandezza inimmaginabile, siano esistite in passato, esistano al presente e sorgeranno in futuro (anche se con notevole rarità, direi eccezionalità) forme di vita in altri pianeti di altre stelle in altre galassie; ed è ragionevole pensare che alcune di queste evolvano con qualche somiglianza di quanto avvenuto sulla Terra, in cui è infine spuntata la società degli uomini. E’ un pensiero ragionevole, anche se non si riesce a capire come potremmo raggiungere la sicurezza (o quasi) della sua veridicità. E’ ancor più ragionevole pensare che le forme di vita (anche di livello “superiore”), eventualmente nate (o che nasceranno) altrove, siano giunte (o giungeranno) alla loro fine come qualsiasi altro processo in svolgimento in ogni dove. Quindi, è difficile dubitare che la vita sulla Terra finirà in un futuro imprecisato; e che la vita associata umana – un “breve attimo” rispetto all’esistenza della Terra, ma anche a quella delle altre forme vitali (in specie le più primitive) – sparirà assai probabilmente prima delle altre, proprio perché più “complessa” e dunque assai più delicata ed esposta ad eventi radicali.
Si suppone, però, che un qualsiasi organismo abbia sempre la tendenza a escogitare tutti i mezzi possibili per sopravvivere, e per conseguire il massimo benessere in quelle date circostanze e in quella data situazione ambientale. Tanto più questo appare valido per l’uomo dotato di “ragione”. Nel contempo, sembra piuttosto evidente che quest’ultima tende continuamente a rompere gli equilibri detti naturali, del resto instabili e mutevoli pur se secondo cicli di diversa durata: da quelli delle ere cosmiche a quelli delle ere geologiche fino ai brevi istanti della decadenza di certi elementi atomici. In ogni caso, detto molto all’ingrosso, gli animali sono in grado di vivere, entro ampi limiti temporali, in quello che, rapportato ai nostri tempi e ritmi, appare un “equilibrio” in relazione all’ambiente in cui “alloggiano” (ma, non appena si verificano eventi catastrofici, essi periscono così come periscono nelle stesse situazioni cospicue masse umane a basso grado di sviluppo e di progresso scientifico-tecnico). L’uomo non può non rompere tale (supposto) equilibrio e, man mano che si accumulano le conoscenze derivanti dal nostro modo di pensare e lavorare, si accentua lo squilibrio, che ovviamente investe pure le altre specie animali.
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E’ evidentemente lecito fare tutto il possibile per convivere il più a lungo possibile con i vari squilibri che la nostra attività provoca (pur se in molti casi non è facile, se non per i parolai, sceverare quanta parte dello squilibrio dipende da noi, quanto invece da eventi legati ai ritmi cosmici o a quelli geologici; o, ancor più, al loro casuale accadere). Nessuna persona sensata sosterrà che si deve fatalisticamente lasciare tutto al caso, senza tentare di prevedere e valutare quanto avverrà domani o un po’ più in là, onde far ricorso ai rimedi che si è in grado di scoprire e porre in atto. Fa parte della nostra “ragione” anche il precorrere gli eventi, cercando di evitare o contrastare quelli dannosi (tanto più se letali); tentativo non disgiunto però dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, e non sottovalutando nemmeno la “relativa autonomia” del pensiero che insegue la conoscenza anche per puro amore d’essa. L’uomo ha voluto volare (come gli uccelli) pur magari non pensando a quale utilità ne poteva ricavare (se avesse perseguito soltanto questa, dopo una serie di tentativi “alla Icaro” avrebbe lasciato correre); l’uomo ha sempre voluto superare “le colonne d’Ercole”, senza sapere che cosa avrebbe trovato al di là d’esse. Appare strano che alcuni “filosofi dell’Uomo” chiedano a quest’ultimo di limitare le sue pretese, di ritirarsi in un ambiente più ristretto, di rinunciare a salire su una vetta quando questa già si vede; e mentre si scala un monte di altezza in(de)finita, la “prossima vetta” è sempre “in vista”.
E’ del tutto comprensibile che non si tenti di volare, di scalare vette, di superare i successivi limiti, senza nello stesso tempo valutare i rischi di quanto si sta facendo ed escogitare vie di uscita nell’eventualità del fallimento o di difficoltà nel superamento di dati ostacoli, ecc. Non metto in dubbio perciò l’utilità di soppesare attentamente anche i rischi ambientali, il possibile collasso del sistema naturale che regge la vita umana. Sia chiaro che Marx (in ciò riprendendo Adam Smith e, ancor prima di questi, William Petty) ha ripetuto qualche decina di volte che la Natura è la “madre” e il Lavoro il “padre” della ricchezza prodotta dall’uomo, intesa come somma di valori d’uso atti a soddisfare i bisogni che progressivamente si formano e complicano nel corso dello sviluppo della società, con i suoi passaggi da una formazione sociale ad una successiva. Del resto, proprio per salvaguardare il sistema ambientale in cui si vive, occorre più scienza e tecnica, non meno; altrimenti, catastrofi del tutto naturali ci cancellano dalla superficie terrestre.
Certi ambientalisti cercano invece di sollevare l’ostilità dei dominati nei confronti della scienza e della tecnica, trattate come fonti di sciagure; ad essi rispondono, nel solito “gioco degli specchi”, quelli che in scienza e tecnica, in se stesse considerate, vedono il principale mezzo di salvezza. Nell’un caso come nell’altro, si evita di porre i reali problemi che tecnica e scienza, utilizzate capitalisticamente, possono creare; non però sempre e in ogni caso. E’ del resto sintomatico che anche la ricaduta degli atteggiamenti catastrofisti è l’avvio di nuove produzioni, ma soprattutto di nuove metodologie produttive, creando così nuovi settori che, approfittando dei timori infusi alle suddette “masse”, sono estremamente profittevoli per chi vi investe ampie quote di capitale; tanto profittevoli da consentire, appunto, di remunerare lautamente gli ideologi che lanciano gli allarmi e diffondono timori [facciamo un banale esempio: nell’ultima finanziaria, poco prima della sua caduta, il Governo aveva stanziato ben due milioni di dollari per il progetto anti-OGM portato avanti da Capanna con tante belle conferenze in giro per l’Italia, per le quali sono richiesti appetitosi cachet e cui partecipano le inebetite masse dei “piccolo-borghesi” di sinistra, pronte a pendere dalle labbra di simili maîtres à penser, predicatori di immani disastri per l’umanità (ma ottima fonte di pingui “bottini” per loro). Ci sanno fare, costoro, non c’è dubbio; diamo loro il merito di una bella furbizia, sanno quanti tonti ci sono in giro, in specie dopo il ‘68]. Il lato negativo della questione non è però tanto quello di consentire lauti profitti ai capitalisti “ambientalisti”, “macrobiotici”, “etici”, e via dicendo; e ai loro corifei intellettuali. E’ invece la terribile diseducazione politica che si induce così nei dominati, approfittando di quel grosso miscuglio sociale – unificato nel concetto-ripostiglio “ceti medi” – tipico dei paesi capitalistici “occidentali” (le società dei funzionari del capitale), in cui allignano i cultori del “politicamente corretto”, estremamente sensibili a tutti i discorsi dei catastrofisti.
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Il nostro problema cruciale è quello di spostare l’attenzione verso la politica. Non sono pochi quelli che, pur senza essere specificamente religiosi, credono alla possibilità di unire tutti “gli uomini di buona volontà” (a qualsiasi classe e ceto appartengano) per affrontare i problemi della conservazione dell’habitat più confacente alla vita della società nel suo complesso, senza distinguerne le stratificazioni e segmentazioni. La scelta decisiva, per uno di formazione marxista come me, è: che cosa poniamo al primo posto? La difesa dell’ambiente (lasciamo adesso stare con quali mezzi, sui quali vorrei si pronunciassero soprattutto gli esperti e non i filosofi tuttologi) oppure gli squilibri sempre più acuti e drammatici di carattere sociale e politico?
Con chi è soprattutto interessato alla prima questione – e non mi lascio fuorviare dalle dichiarazioni di intenti, bensì mi attengo alle argomentazioni effettivamente svolte – ogni discussione è a mio avviso chiusa; ritengo un errore prendere come interlocutori quelli che ritengo imbonitori, imbroglioni, mantenuti dai dominanti per distogliere l’attenzione dalla politica relativa alla società. Perché chi sostiene una politica principalmente indirizzata alla salvaguardia dell’ambiente è un chiaro avversario, uno che “ciurla nel manico”. La politica è invece, nella sua “essenza” (cioè come tendenza di fondo, anche se talvolta solo potenziale), scontro di idee e di pratiche che tendono a fare gli interessi di gruppi sociali contrapposti.
I dominanti, nell’esercitare la loro egemonia, sono abilissimi – si tratta di una abilità di sistema; non esiste evidentemente una mente diabolica che organizza l’insieme delle diatribe svianti – nel presentare false o comunque obnubilanti contrapposizioni: destra e sinistra, fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo, laicismo e clericalismo, ateismo e religiosità, sviluppo e decrescita, difesa dell’ambiente e suo degrado, potere distruttivo o invece salvifico della scienza e della tecnica, e così continuando all’infinito. Il magico “gioco degli specchi” è un’arte in cui i dominanti sono praticamente imbattibili. Bisogna uscirne. Secondo me, il marxismo insegnava ad uscirne; e ritengo sempre valido quell’insegnamento. Solo che va aggiornato, e non con semplici imbellettature e piccoli ritocchi. Occorre una certa radicalità. Tuttavia, ritengo tuttora valida l’alternativa che fu posta a metà ottocento: utopia o scienza? Adesso, è invalsa l’abitudine di tacciare di positivismo (o di scientismo, termine ulteriormente peggiorativo) ogni pretesa di criticare le utopie e di dichiararsi a favore della scienza. Invece, pur con i dovuti aggiustamenti – soprattutto abbandonando i determinismi di qualsiasi specie, la convinzione di “riprodurre il reale nel cammino del pensiero”, e accettando invece l’idea che la realtà è ricostruita tramite insiemi di ipotesi più o meno ben coordinate e sempre fallibili – si ripropone oggi l’alternativa tra la chiacchiera utopica e il riconcentrarsi sulla fase attuale della formazione capitalistica globale (e di quelle particolari che la compongono in un sistema di relazioni) con atteggiamento di tipo scientifico.
Personalmente, accetto la concezione secondo la quale ogni scienza è sempre intrisa di ideologia, di sistemi di valori che indirizzano lo sguardo alla realtà secondo dati angoli di osservazione. E anche questa è una metafora monca; perché l’ideologia non è soltanto punto di vista, ma anche velo, alone, coltre di nebbia che distorce il reale, crea a volte perfino allucinazioni pur assai realistiche. Ogni teoria ha dentro di sé una ideologia, è intrecciata con essa; impossibile individuare la linea di demarcazione tra l’una e l’altra. Affermava Schumpeter: l’ideologia è come l’attrito dell’aria, frena il movimento, fa perdere velocità; tuttavia, l’attrito consente anche di levarsi in volo. Quindi, ben venga l’ideologia. Eppure, ci sono ideologie che, ad un certo punto, ossificano la teoria, la rendono una credenza quasi religiosa; oppure appesantiscono talmente l’aeromobile che questo non può levarsi in volo; o invece l’alleggeriscono talmente che non lo rendono più manovrabile. E’ nello scontro che si avrà infine la “prova” di quale punto di vista, di quale annebbiamento o distorsione della realtà, è comunque più consono a favorire una pratica utile; si tratta però di capire anche per chi è utile e se consegue o meno dati risultati.
Una situazione complicata (non semplicemente complessa), dunque, in cui è difficile scegliere gli obiettivi polemici più rilevanti per un avanzamento teorico (o quel che si pensa tale). Tuttavia, una scelta va fatta; impossibile discutere con tutti, talvolta è necessario concentrarsi su ben precise
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direzioni di ricerca scelte non a casaccio. Del resto, qualche sintomo esiste per sceverare il grano dal loglio, per liberare una ricerca scientifica da ideologie ossificate e alimentarla con nuove visioni tonificanti. Innanzitutto, è ormai esperienza comune che nessuna teoria resiste all’usura del tempo, in nessun campo della conoscenza scientifica, ma in modo particolare nelle scienze sociali. Inoltre, per quanto i “fatti” vengano letti sempre attraverso lo schermo delle ipotesi teoriche (a loro volta intrise di ideologie), viene sempre il momento in cui si nota una abissale discrepanza tra quanto era stato previsto in base ad una data teoria e quanto ormai, pur con tutto il nostro carico di valori e di “distorsioni”, non possiamo non constatare. Le nostre pratiche si fanno sempre più ineffettuali, “sentiamo” che non mordono più la realtà (qualunque essa sia), passano anzi a distanza definitivamente stellare da essa. Vediamo teorie – le cui indicazioni pratiche erano state seguite, pur magari ignorando questa loro origine, da imponenti masse umane – ridotte a immutabili principi dottrinali predicati da piccoli gruppi in continua scissione e lotta fra loro, sempre più rissosi e rancorosi; autentiche religioni prive di un Dio ma settarie e ancor più esclusive dei più rigidi fondamentalismi.
Ad un certo punto appaiono in tutta la loro evidenza la vecchiezza e sclerotizzazione di teorie pur un tempo valide e capaci di dare impulso a ricerche innovative, caratterizzate in senso espansivo, mentre sono invece ora perfettamente conchiuse in se stesse, piante ormai secche coltivate da “monaci” incartapecoriti che impediscono ogni ulteriore concimazione, ogni nuova irrigazione; veri necrofili, adoratori di tutto ciò che odora di morte e putrefazione. E’ allora giunto il momento di abbandonare queste “dottrine” e i loro “sacerdoti”, di non discutere nemmeno più con simili imbalsamatori che vorrebbero costringerci a maratone verbali sul modo migliore di conservare la salma delle vecchie teorie e prassi.
Tuttavia, non è nemmeno possibile pensare alla fondazione e allo sviluppo di nuove teorie sulla società quando i tempi, come ho già più volte ricordato, non sono maturi; o comunque quando una nuova epoca è al massimo in preparazione. Vorrei essere chiaro in proposito. Ho già sostenuto che la teoria di Marx è stata resa possibile da quell’insieme di tumultuosi processi sociali, di condensazione in raggruppamenti contrapposti, verificatisi nell’ambito del precedente Terzo Stato, un miscuglio per lungo tempo caotico e i cui componenti di base erano tutt’altro che ben delineati. Ho anche affermato, con analogia storica di larga massima, che solo un nuovo 1848 potrebbe chiarire una situazione a tutt’oggi non proprio nettamente definita in merito alla struttura sociale dell’attuale formazione capitalistica; sia per ciò che concerne quella globale o mondiale sia per quanto riguarda quelle particolari che compongono, interrelandosi fra loro, quest’ultima. Tuttavia, nulla ci garantisce in assoluto che debba verificarsi – sia pure in forme profondamente diverse – un processo di condensazione, di coagulazione, paragonabile a quello degli anni precedenti il 1848. E’ semplicemente un’ipotesi, che ritengo sensata e plausibile, ma sulla quale non mi sentirei di giurare. Mi sembra probabile, nulla più che questo.
L’unica certezza da me nutrita concerne l’irragionevolezza di una precisa indicazione dei conflitti antagonistici, tra dominanti e dominati, nell’attuale fase della formazione capitalistica; già parlare di capitalismo per tutte le formazioni particolari oggi esistenti è in qualche modo una forzatura, pur se possiamo tener fermo che le modalità preminenti, nell’ambito produttivo della società a livello mondiale, sono quelle denominate da lunga pezza impresa e mercato. Mi sembra però ancora un po’ poco per lanciarsi in teorie generali che intendano illuminare ogni angolo della terra, ogni partizione di una formazione mondiale in fase di ebollizione e di riconfigurazione secondo direttrici che andranno solo molto lentamente consolidandosi nel corso dei prossimi decenni (e il cui consolidamento appare probabile, non assolutamente certo). Quello che abbiamo chiamato comunismo – in particolare la sua prassi ultrasecolare – è stato uno dei fattori della mobile e incerta articolazione assunta dall’interrelazione fra vari raggruppamenti sociali nel mondo e in ogni sua partizione “regionale”, “d’area”. Ho già ricordato come tale fattore, senz’altro rilevante, non abbia però condotto nella direzione che i comunisti si erano prefissi; lo sviluppo storico-sociale ha seguito, come sempre, una sua particolare strada ancora per larghi versi “non conosciuta” (pur
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se “già nota”); e che tale rimarrà se ci si ostina a volerla individuare e conoscere mediante teorie ormai obsolete e insistendo in una scervellata pratica d’altri tempi. “Musica e suonatori” dovrebbero essere definitivamente cambiati al più presto. Altrimenti, stiamo fermi che ci facciamo più bella figura.
3. Per quanto ho detto fin qui, insisto da un bel po’ di tempo che non ci si deve lanciare in teorizzazioni generali, relative ad una sorta di formazione capitalistica a-spaziale e a-temporale. La forma mentis di certi marxisti, e non solo di questi, ha sempre favorito l’ “eternizzazione” delle caratteristiche individuate nel presente e nell’immediato passato; diciamo pure nella più recente fase storica di quella data società. Anzi, molti marxisti (in ciò favoriti da alcune affermazioni di Marx, sia chiaro; del tutto comprensibili però nel contesto storico-culturale in cui questi visse) hanno commesso due errori fondamentali. Innanzitutto, credere che la teoria “riproduca il concreto nel cammino del pensiero”; tesi sostenuta appunto dal fondatore, il quale invitò comunque a non confondere la realtà (il “concreto reale”) con il “concreto di pensiero”. Spesso invece i marxisti (peggiori) hanno addirittura preso ciò che pensavano per la realtà pura e semplice (basti pensare a tutti i chiesastici, ai fedeli delle piccole sette marxiste presenti ancora oggi: i bordighisti, i cultori del “materialismo dialettico” e “storico” con le sue ineluttabili leggi). Tuttavia, non mi sembra più sufficiente mantenere la realtà ben salda al di fuori del pensiero; è necessario ammettere che quest’ultimo non ri-produce il reale.
La realtà non ha vero ordine, se non quando è trattata in modo schematico in base a sistemi di ipotesi che sono griglie interpretative a maglie più o meno larghe. Noi non possiamo agire nel mondo senza attribuirgli questo ordine, senza semplificare in organici quadri teorici la “complessità” del reale; tanto è vero che alcuni cercano di paralizzare ogni azione, adducendo come scusa proprio tale complessità e sostenendo che qualsiasi azione compiuta senza tener conto di tutte le variabili d’essa è destinata a fallire. L’in-azione e la contemplazione sono sovente lo sbocco dell’esaltazione della complessità. In realtà, la maggior parte di noi non segue i cantori dell’inazione. Solo che alcuni passano all’estremo opposto: credono che i loro abbozzi semplificati siano la realtà e, quando questa mostra di non piegarsi alla prassi dettata dalle loro teorie, si ostinano egualmente a crederle esatte e ad agire in base ad esse; e quanto più falliscono, tanto più si chiudono a riccio nelle loro piccole chiesuole, attribuendo il reiterato insuccesso a qualche “peccatore” (altrimenti appellato traditore), per cui ogni setta ne figlia altre in un processo che ha come suo limite il minimo gruppetto “carbonaro”, spesso pericoloso e da isolare.
Penso sia inevitabile l’ammissione della necessità di agire in base a schemi, tuttavia puramente ipotetici e rappresentanti la realtà osservata secondo una determinata angolazione e con occhiali muniti di lenti appannate e deformanti, i cui “difetti di costruzione” sono irrimediabilmente implicati dalle ideologie o sistemi di valori, ecc. Dobbiamo perciò ripercorrere senza sosta il duplice cammino dalla teoria alla prassi e viceversa, con periodiche revisioni degli apparati conoscitivi costruiti; per dati periodi (di lunghezza mai predeterminata) mediante graduali e progressivi aggiustamenti e spostamenti d’angolazione, poi – praticamente sempre – con salti bruschi in una nuova dimensione teorica in un breve volger di tempo (in fondo è quanto sosteneva Kuhn). Dobbiamo inoltre tener conto che siamo obbligati a formulare ipotesi previsive – relative a quell’ignoto che è il futuro – in base a quelle interpretative tramite cui presumiamo di aver “conosciuto” il già noto, cioè il passato. In molti casi, e anche per lunghi periodi di tempo, tutto magari funziona (abbastanza) bene; basti pensare, come semplice esempio, alla formulazione di “leggi” secondo cui, in base all’esperienza passata (e relativa ai “grandi numeri”), siamo in grado di prevedere che in un determinato intervallo temporale x si verificherà, mediamente, un dato numero y di eventi di un certo tipo (classificati in base ad alcuni loro caratteri considerati principali per gli scopi che perseguiamo).
Si arriva però più o meno sempre alla resa dei conti e ci si trova allora di fronte alla sorpresa di eventi inattesi, di situazioni che non sono affatto quelle da noi volute e in funzione del
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raggiungimento delle quali abbiamo agito, credendo magari, per un buon periodo di tempo, di aver imboccato la via giusta al fine di ottenere particolari risultati (mettiamo il socialismo e comunismo, così per dire). Ho già affermato più sopra che la Storia ci stupisce sempre, non prende la strada che noi – con tutto il carico dei nostri pensieri intrisi di desideri, passioni, e per di più deformati, obnubilati, dalle ideologie – intendevamo percorrere ed eravamo convinti di stare percorrendo; anzi spesso crediamo di essere già giunti alla meta, o almeno vicinissimi ad essa, e …. improvvisamente questa si dilegua quale miraggio.
Eviterei però la banalità, secondo cui l’attività conoscitiva concernente la società ha uno statuto del tutto particolare giacché il soggetto conoscente agirebbe sull’oggetto della conoscenza e dunque lo modificherebbe mediante la stessa attività conoscitiva; per cui alcuni hanno anche sostenuto che la problematica è simile a quella esistente nella meccanica quantistica, dove l’osservatore altera le condizioni d’esistenza dell’osservato mediante la stessa operazione dell’osservare. Non entro nella discussione di questo ramo della scienza fisica, dal cui indeterminismo specifico (e controllato scientificamente) i soliti filosofi “approssimativi” hanno tratto, per analogia, la conclusione di una fondamentale indeterminazione dell’agire umano (sul semplicismo e l’improntitudine di certi filosofi mi pare sufficiente ciò che scrissero alcuni anni fa i fisici Sokal e Bricmont). Personalmente, mi interessa rilevare che non c’è alcun “soggetto collettivo” nella Storia che, agendo su un certo oggetto sociale, lo trasforma con la sua azione, essendo così perpetuamente costretto ad inseguire la conoscenza dello stesso alla guisa di un pescatore che tenti di afferrare con le mani un pesce viscido e sgusciante.
Il problema mi sembra diverso. Dalle azioni di milioni di individui – pur uniti in gruppi di collaborazione, in conflitto più o meno acuto con altri gruppi, con periodici ma continui mutamenti dei gruppi collaboranti (e delle forme di collaborazione) e di quelli in conflitto (e delle forme del conflitto), dato che le alleanze si fanno e si disfano, i nemici di ieri sono gli amici di oggi e viceversa, ecc. ecc. – nasce una realtà caotica e mutevole che assume via via, quando è passata, certe caratteristiche “conosciute” mediante le lenti teoriche di cui già si è detto, con i loro necessari schematismi, le loro ideologie distorcenti e annebbianti. Sulla base delle ipotesi (interpretative) riferentisi al passato, già accaduto, pensiamo (ed agiamo di conseguenza) un futuro che è aperto a n possibilità di svolgimento. Quello da noi conosciuto non è un oggetto concretamente reale, che l’azione su di esso compiuta al fine di conoscerlo trasformerebbe in continuazione, mettendo dunque in mora la teoria in base alla quale lo avevamo indagato operando su di esso. Sembra trattarsi più semplicemente di un oggetto già posto alle nostre spalle, che la nostra conoscenza mediante ipotesi fissa quale “realtà” (ma è sempre una realtà supposta), dalla quale pretendiamo di trarre previsioni certe (e schematiche) su un oggetto futuro solo possibile, aperto alla probabilità di un ventaglio di eventi, all’aleatorietà del loro verificarsi o comunque del loro accadere proprio secondo le modalità previste, ecc.
Quando noi ci volgiamo al passato per trarne lumi, questo è ormai già trascorso e consegnato ad una sua qualche realtà; noi ci sforziamo di “conoscerla” in base a sistemi di ipotesi interpretative, costruendo un qualcosa che va di fatto a sostituirla, spesso però con l’indebita convinzione di averla invece semplicemente riprodotta. Questo insieme di eventi, già ormai accaduto e solo ipoteticamente (ri)costruito, viene assunto come fonte di determinati insegnamenti per il futuro, che è invece là davanti a noi nella sua più completa disponibilità, e di cui ancora non abbiamo usufruito. Non siamo in grado di agire diversamente. Solo il passato è a nostra disposizione per insegnarci qualcosa. E noi ci rivolgiamo ad esso secondo le modalità più utili alla nostra azione: lo ordiniamo secondo dati schemi in base a certe supposizioni, e da qui traiamo la previsione di future dinamiche implicate dalle specifiche strutturazioni della società; che è invece priva di una effettiva, reale, struttura, poiché quest’ultima è semplicemente pensata e costruita (in)seguendo un principio d’ordine, indispensabile ad apprestare le strategie d’azione che crediamo adatte a conseguire gli scopi desiderati. In genere, però, il futuro ci riserba delle sorprese, che sono spesso per noi
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delusioni. Da queste dobbiamo trovare alimento e forza per correzioni di rotta, a volte brusche e radicali.
Non ci si deve mai sognare, quindi, di predire eventi futuri come se si stesse leggendo in una sfera di cristallo. Tuttavia, il nostro modo di esprimerci – se non vogliamo appesantire il linguaggio con continui condizionali, con i forse, i ma, i più svariati dubbi, ecc. – ci conduce spesso a manifestare una solo apparente sicurezza. Si può avvertire chi ci legge o ci ascolta per una o due volte che così non è; poi, spetta all’intelligenza del lettore o dell’ascoltatore comprendere il nostro modo di esprimerci. Mi auguro quindi di non dover ripetere all’infinito che ogni previsione che faccio in merito al futuro ha un aspetto di scommessa. Non certo fatta a casaccio o per spirito di pura avventura; evidentemente, ci sono elementi di valutazione, però in genere sempre tratti dalla fase presente o da quelle precedenti. Di conseguenza, non dovrebbe sussistere alcuna pretesa di costruire un quadro teorico che valga in generale per la società nel suo complesso.
Nemmeno i grandi del marxismo si sono tuttavia comportati con simile prudenza. Marx ha studiato – e giustamente perché in quel tempo l’Inghilterra era in effetti il miglior “laboratorio” per le sue indagini – soprattutto il caso inglese e ha creduto di trarne le caratteristiche del modo di produzione capitalistico, della sua struttura e della sua dinamica intrinseche, valide in generale, in quanto struttura e dinamica di ogni società capitalistica che si sarebbe andata sviluppando nel mondo, unificandolo e omogeneizzandolo. Lenin (e altri) ha creduto di stare analizzando il capitalismo arrivato ormai definitivamente allo stadio della monopolizzazione. Lasciamo perdere se parlava di ultimo stadio nel senso di quello che ormai precede la trasformazione rivoluzionaria del capitalismo (per me è evidente che è così) o se lo intendeva come ultimo in ordine di tempo (alcuni marxisti hanno tentato di imbrogliare le carte in tal senso per non ammettere che un marxista possa sbagliarsi). Questione essenziale è invece che la caratteristica principale e decisiva della formazione capitalistica mondiale non era e non è la centralizzazione monopolistica; si è trattato di un grave errore di valutazione in base al quale ancor oggi i marxisti sono obbligati ad insistere su tale processo, cadendo nel ripetitivo perché questa centralizzazione appare come un fenomeno univoco e lineare, che non finisce mai; diciamo, in un certo senso, di carattere asintotico. Mi dispiace ma questo “modellino” è usurato e non spiega più nulla.
In realtà, le caratteristiche più consone a capire – per sommi capi e in sintesi (e senz’altro con qualche distorsione) – l’odierna struttura capitalistica è la ricorsività delle fasi di mono e policentrismo, nonché lo sviluppo ineguale dei vari capitalismi in lotta nella formazione globale e quello dei vari gruppi dominanti in lotta nell’ambito delle formazioni particolari, ecc. Non tenendo conto di tale fatto, ad esempio, negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, alcuni marxisti (o marxisteggianti) – una volta esaurito definitivamente il ciclo coloniale di Francia e Inghilterra, con la sconfitta della prima a Dien-bien-phu (1955) e di entrambe nell’impresa di Suez (nel 1956) quando dovettero piegarsi al diktat congiunto di Usa e Urss di cessare le ostilità contro Nasser – teorizzarono una sorta di ultraimperialismo nel “campo capitalistico” con al vertice le imprese multinazionali a comando statunitense (in un mondo certo “bipolare” per l’esistenza del campo presunto socialista); e, ancora una volta, considerarono tale strutturazione del sistema quale ormai definitivo assestamento del capitalismo in generale.
Non ho alcuna intenzione di ripetere errori del genere. Insisto dunque su una teoria di fase, del tutto provvisoria; un semplice schema ipotetico di cui vi è bisogno per dare un minimo di ordine al caotico fluire degli eventi e stabilire delle mappe di orientamento per l’azione. Ricordando che agire non è soltanto “fare politica”, dedicarsi alla prassi più bruta e cieca; azione è anche la pratica teorica, che tenta di indirizzare lo sguardo verso orizzonti plausibili e realistici, posti in una dimensione temporale accettabile.
4. Come ho sopra affermato, non sembra affatto che ci si trovi in una fase storica in cui sono avvenute precipitazioni, condensazioni, tali da consentire ipotesi più precise – inserite in un quadro teorico semplice e sufficientemente ben delineato – in riferimento alla strutturazione sociale della
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formazione globale (diciamo: la sua configurazione geopolitica) e delle varie (almeno le principali) formazioni particolari, ricostruendo al loro interno quella che un tempo veniva definita divisione in classi. E’ dunque necessario procedere per indicazioni chiarificatrici di larga massima, almeno per cominciare a sgombrare il campo da un vistoso cumulo di detriti che si è ormai accumulato in tanti anni (decenni) di dogmatica insistenza su vecchi schemi, cui si è contrapposta una sociologia e una economia a spizzico, meramente tecnico-empiristiche nel senso deteriore del termine.
Intanto, per quanto riguarda le lenti teoriche da inforcare, è necessario abbandonare la pretesa che il marxismo possa ancora permetterci una visione sufficientemente credibile dell’attuale fase. Tuttavia, finora si è solo cercato di sostituirlo con teorie pregne di vecchie ideologie che cantano le lodi del mercato o sostengono la riformabilità del capitalismo. Oppure si sono avuti sedicenti innovatori sociali, estremamente arretrati rispetto alle formulazioni più vitali e significative di Marx, da essi sfruttate a volte in modo completamente distorto. Si è dunque costretti, con somma fatica, a dover spesso riaffermare, con un minimo di rigore filologico, ciò che disse tale pensatore rivoluzionario, onde non consentire la semplice riverniciatura di antiche utopie o il sostanziale ripristino delle mistificazioni ideologiche che egli svelò e mise spesso alla berlina. La degenerazione ideologica odierna – promossa dagli intellettuali (“piccolo-borghesi” si diceva un tempo) che hanno devastato la cultura rivoluzionaria nel 1968 e 1977 – è a dir poco paurosa. Il tempo perso a contrastare una simile involuzione è effettivamente enorme e ostacola il cammino in avanti, che sarebbe invece necessario proseguire con gran lena; d’altra parte, non si può procedere spediti se una serie di pensatori reazionari – oppure fu rivoluzionari, ma provenienti dalle fila delle vecchie ideologie “radicali”, figlie degenerate delle superate e ormai involutesi rivoluzioni dentro e contro il capitale (detto più esplicitamente: nazifascismo e comunismo) – continuano ad occupare il campo in un perverso “gioco degli specchi” alimentato, per mille vie anche indirette, da settori delle classi dominanti.
Teniamo dunque presente quanto è difficile procedere al ripensamento teorico in una mefitica situazione come quella oggi esistente. L’attuale ceto intellettuale, nell’occidente capitalistico, è costituito almeno al 90% da tirapiedi e intrallazzatori della “cultura”, dov’è difficile distinguere chi è semplicemente narcisista (innamorato del proprio ombelico) dall’autentico agente ideologico organico alle classi dominanti (pur quando apparentemente ultrarivoluzionario, in realtà sostanzialmente reazionario). Entrambi i tipi confluiscono nell’alveo della distruzione di un pensiero realmente critico, quello rivolto in avanti, che vorrebbe affidare alla lotta politica razionale – e non alla predicazione di pessimistiche futurologie da stregoni del malocchio (ambientalisti e decrescisti) o di sfacciati ottimismi populistici (i no global, i moltitudinari e simili) – la decisione circa le sorti dell’evoluzione sociale: quella geopolitica e quella concernente la struttura dei rapporti tra raggruppamenti vari.
Dobbiamo procedere fissando innanzitutto quelle che sembrano le coordinate principali dell’attuale fase storica, ben sapendo che le ipotesi formulate assumono, proiettate in futuro, il carattere di scommesse; si tratta tuttavia di farle mantenendo un atteggiamento improntato al realismo. Mai come oggi è indispensabile non essere tromboni che suonano la carica di improbabili rivolte delle masse, o prevedono futuri luminosi per la ripresa della lotta dei comunisti. Stabiliamo invece alcuni punti fermi, che non debbono più essere rimessi in discussione se non dopo averli reiteratamente sottoposti a “prova” e all’esame accurato delle condizioni che ne fanno precisamente punti fermi.
Ritengo si debba infine riconoscere che il movimento comunista ha basato la sua esperienza storica – producendo con la sua azione rivoluzionaria risultati del tutto diversi da quelli voluti, e nei quali si è continuato a credere troppo a lungo a causa di una ideologia che ne aveva completamente distorto il reale significato storico – su previsioni tratte dalla teoria marxista, rivelatesi completamente errate. Ritengo di aver già ampiamente mostrato nella mia opera, soprattutto degli ultimi 12 anni, l’ambivalenza della teoria di Marx: i suoi contributi sommamente positivi allo smascheramento dell’ideologia dell’apparente eguaglianza tra gli individui – nella sola sfera
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mercantile – e il suo essere prigioniera di un’altra mistificazione ideologica (su cui non mi diffondo qui, poiché l’ho messa in luce più volte). Egli, inoltre, ha formulato la teoria del modo di produzione capitalistico in generale sulla base dell’analisi del capitalismo inglese: quello più avanzato nel periodo in cui visse, ma anche quello che dominava allora il mondo (un predominio comunque già in fase di declino quando Marx morì nel 1883). I marxisti successivi hanno tenuto conto del mutamento d’epoca intervenuto, con i loro preziosi dibattiti sull’imperialismo, ma non hanno compreso che la teoria avrebbe allora dovuto subire radicali aggiustamenti, integrando il discorso dello sfruttamento (estrazione di pluslavoro in forma di valore) con quello delle diverse fasi attraversate dal capitalismo(i) nella sua evoluzione storica, che ha comportato articolazioni diverse delle varie formazioni particolari nell’ambito di quella globale o mondiale.
Invece, poiché ci si è fissati solo sulla rivoluzione comunista da compiere – in quanto supposta ineluttabile, inscritta nei meccanismi stessi delle trasformazioni sociali intrinseche allo sviluppo del modo di produzione capitalistico – non ci si è accorti delle profonde implicazioni della nuova fase imperialistica pur colte con grande acume da Lenin: la classe operaia (che non è il marxiano lavoratore collettivo produttivo; si vedano per favore i passi di Marx inseriti nel sito) diventa non rivoluzionaria e tradunionistica (capace di lotte dure ma solo sindacali) man mano che si sviluppa la formazione capitalistica; i fenomeni rivoluzionari si manifestano nei leniniani “anelli deboli” che, in definitiva, sono paesi a basso grado di sviluppo capitalistico o addirittura sottoposti a mero regime (neo)coloniale; per cui risulta evidente che, malgrado certi disperati tentativi condotti ad esempio con la rivoluzione culturale cinese, ha infine vinto (e non poteva non vincere) in tali paesi la linea dello sviluppo accelerato delle forze produttive che ha ricondotto – smentendo fra l’altro clamorosamente la tesi secondo cui nel capitalismo le forze produttive entrano ad un certo punto in putrefazione ed “esigono” la rivoluzione socialista e comunista – in direzione delle forme capitalistiche del mercato e dell’impresa, dimostratesi finora, pur attraverso le più catastrofiche crisi e arresti, le più consone a promuovere uno sviluppo tendenzialmente impetuoso (cioè come trend risultante da ampi cicli congiunturali caratterizzati da ondulazioni sinusoidali spesso molto accentuate).
Nel lungo periodo (mezzo secolo), in cui il sistema mondiale è rimasto cristallizzato a causa del bipolarismo (ideologicamente pensato come confronto/scontro tra capitalismo e socialismo), il primo campo è stato caratterizzato da una notevole stabilità e da alti ritmi di sviluppo in una situazione di articolazione interna tra le sue varie formazioni particolari che poteva ricordare le tesi ultraimperialistiche. La piena centralità statunitense è stata positiva per l’intero campo e ha condotto ad un suo sviluppo pressoché complessivo con moderate ondulazioni congiunturali (i cui momenti bassi sono stati denominati recessioni invece che crisi). In omaggio all’ormai predominante keynesismo (un Keynes che mi sembra sia stato tirato da tutte le parti, ma su questo si pronuncino, se sono ancora in grado di pensare in modo critico, quelli che si sono impegnati per decenni su tale autore, perché serietà impone che non si parli troppo di ciò che non si è studiato a fondo), si è enfatizzato il lato della domanda nel contrastare gli aspetti più gravi delle recessioni. Si è anche sostenuto a piene mani che la stessa débacle del 1929 era stata combattuta e piegata con la spesa pubblica durante il New Deal.
Solo con ritardo, si è cominciato da più parti a far notare che il sistema capitalistico, malgrado le politiche economiche improntate al keynesismo, perfino ante litteram, non si era risollevato dalla stagnazione per tutti gli anni ’30 e che solo la guerra mondiale conseguì tale risultato; fatto particolarmente evidente per quanto riguarda gli Usa, che non hanno subito immani distruzioni sul proprio territorio, ma comunque valido anche per gli altri paesi capitalistici, una volta riavviata la “ricostruzione”. Tutto è stato però ancora visto in termini di impulso impresso allo sviluppo dalla domanda (complessiva: consumi più investimenti), enfatizzando in modo particolare quella bellica, così “positiva” da consentire che i beni – la cui produzione rilancia l’aumento dei redditi – vengano “consumati” in guerra senza quindi ingolfare i mercati di sbocco dei prodotti; nello stesso tempo, essi sono utilizzati per “opportune” distruzioni di beni immobili e infrastrutture (purtroppo anche
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per eliminare decine di milioni di “consumatori”, ma si tratta di un “incidente minore”), che devono essere ricostituiti dando grande impulso al sistema produttivo e alla crescita del reddito e della domanda.
Una simile concezione ha portato alle solite tesi contrapposte fra loro solidali. Da una parte, il trionfalismo dei cantori del capitalismo, che lo hanno visto risorgere e svilupparsi rapidamente fino a dare una spallata decisiva – e senza scontri bellici – al campo avverso creduto socialista. Dall’altra, gli “orfani” della rivoluzione proletaria e comunista, che considerano con orrore un capitalismo dedito al più piatto e incivile consumismo, fonte dell’edonismo più sfrenato e quindi di una decadenza morale e culturale profonda. Da qui prende l’avvio il reazionario opporsi di una certa sinistra “radicale” ad ogni forma di progresso scientifico-tecnico, il suo riappropriarsi di un frusto umanesimo che, per salvare l’Uomo dagli orrori della civiltà detta consumistica, pretende di ridurre il tenore di vita delle maggioranze popolari fatte di uomini concreti in carne ed ossa (che schifo rispetto all’Uomo! Che bassezza pensare agli uomini come individui; dove va a finire il genere, l’Essenza Umana? Questa deve essere salvata, tornando indietro; magari non potremo essere più 7 miliardi, dovremo ridurci di qualche miliardino, ma è nulla in confronto alla salvezza del “genere” e dell’“essenza”). In particolare, bisogna fare in modo che le popolazioni dei paesi in crescita (anche di potenza) non aumentino troppo il loro tenore di vita, altrimenti il loro consumismo distruggerà la Terra, ecc. ecc.
Dato che a me interessano gli individui e non il “genere”, parto da una diversa ipotesi. Le crisi (grandi o piccole) scoppiano, nel loro aspetto più superficiale che è anche certo quello più immediatamente avvertito a livello della vita quotidiana, in senso economico e, in modo particolare, finanziario. Tuttavia, l’aspetto profondo, quello decisivo “in ultima analisi”, è l’articolazione spaziale delle varie formazioni particolari (con speciale riguardo a quelle più avanzate e potenti) nell’ambito di quella mondiale; un’articolazione che assume diverse configurazioni con interrelazioni tali tra queste varie formazioni da implicare o il loro (sempre relativo, ma per una fase storica piuttosto coerente) coordinamento sotto il predominio di una di loro o invece gradazioni diverse di conflitto tra le stesse, comportante sviluppo ineguale, dunque alterazione dei reciproci rapporti di forza e scontro sempre più acuto e aperto.
Il mondo bipolare (capitalismo contro socialismo) fu una, ancora mal conosciuta, cristallizzazione politica del mondo. In questa situazione, andò maturando la centralità predominante statunitense in campo capitalistico, che poi fiorì mondialmente dopo il crollo di quella parte di “cristallo” (il campo socialista) andata in pezzi per implosione interna. Seguì un quindicennio di relativa confusione con netta preminenza degli Usa, mentre attualmente sembra sempre più probabile che ci si avvii verso una nuova epoca policentrica. Le crisi andranno quindi facendosi più gravi; le onde sinusoidali dovrebbero accentuarsi e i punti “bassi” assumere l’aspetto di vere crisi e non più di recessioni. Due giorni fa (oggi è il 19 marzo), il vecchio dirigente della FED (Greenspan) ha affermato che quella che sta arrivando sarà la più grave crisi del dopoguerra. Mi auguro che i lettori del blog si ricordino come ormai da mesi io vado affermando la stessa cosa (pur con prudenza da “meteorologo”, consapevole che le masse d’aria possono avere brusche inversioni di direzione e forza).
Non ho gli strumenti tecnici che ha Greenspan; quindi certe affermazioni le faccio in base a ragionamenti “a grana grossa”, che mi portano comunque a intravedere nel sistema geopolitico mondiale una tendenza al policentrismo, pur ancora assai imperfetto. Dunque, al di là delle analisi più particolareggiate e puntuali, sostengo a grandi linee che la crisi a venire sarà probabilmente un po’ più grave delle precedenti proprio perché lo scontro tra dominanti (tra potenze: la predominante e alcune altre in formazione) sembra mordere un po’ di più. Non sarà però la più grave, perché altre ne seguiranno – a non so quanti anni di distanza – con un carattere di aggravamento tendenzialmente sempre maggiore, se le previsioni avanzate in merito alla fase policentrica (la scommessa fatta in tal senso) si riveleranno esatte. Ovviamente, i tecnici si arrovelleranno sui “fondamentali” dell’economia, sugli errori commessi in tema di sovrabbondante o scarsa liquidità
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monetaria, sull’avidità eccessiva degli speculatori, ecc. E appronteranno misure correttive che non è detto non possano conseguire temporanee attenuazioni delle crisi. Quello che non capiranno è che, pur magari conseguendo un relativo successo in date occasioni, tali marchingegni non incidono sulle cause di fondo – i sotterranei “movimenti tettonici” – che infine sfociano nei ricorrenti “terremoti” (con magari anche qualche tsunami).
Quanto ai teorici, a quelli che pretendono di guardare più in là, quale sarà il loro comportamento? I difensori ad oltranza del capitalismo nella sua configurazione attuale – con gli Usa ancora per l’essenziale predominanti, e che lo resteranno ancora dopo la prossima crisi malgrado le predizioni dei soliti speranzosi di “sinistra” – sosterranno la necessità di rivitalizzare ancor di più il mercato, per loro reso asfittico da manovre di difesa (del tutto logiche in realtà) approntate da certi paesi per resistere a ciò che avanza (e su cui le idee confuse e pasticciate si sprecano); oppure arriveranno invece alla conclusione che ci si è troppo crogiolati nella globalizzazione con eccessiva inerzia degli Stati (nazionali), per cui proporranno manovre di intervento “pubblico” più o meno marcato (già l’ineffabile Tremonti comincia con questa solfa, appoggiando perfino il “terzo settore”, la più meschina e interstiziale tra tutte le “invenzioni” degli ultimi anni).
Poi abbiamo i rimasugli marxistoidi, che vedranno il capitalismo all’ultima spiaggia e rinverdiranno tutte le banalità sul sottoconsumo (alla Luxemburg) o sull’anarchia mercantile o sulla mitica caduta (tendenziale) del saggio di profitto; in ogni caso, sarebbe stato finalmente raggiunto l’altrettanto mitico tetto oltre il quale le forze produttive imputridiscono perché non più “contenute” entro l’involucro rappresentato dai rapporti di produzione capitalistici. Infine, abbiamo gli “anticonsumisti”, che vedono nella crisi il limite raggiunto dal capitalismo in termini di spreco di risorse, di selvaggio depredare la natura, rompendo gli equilibri geologici e biologici (e bioetici); per cui la salvezza è nell’alleanza tra decrescita e difesa dell’ambiente (con tutti i vari corollari di cui tralascio l’elencazione, una fatica improba).
Nel primo caso (neoliberismo o interventismo pubblico; attacco allo Stato sociale o invece sua difesa neocorporativa in termini assistenzialisti), abbiamo la politica di sostegno del capitalismo (sub)dominante (favorevole al predominio Usa) nelle sue forme attuali (in Europa prettamente servili verso il paese centrale). Nel secondo, quello dei marxistoidi e comunistoidi, abbiamo il puro (e spesso mal apprestato) arroccamento difensivo di ormai piccole enclaves di “amici dei lavoratori” nel disperato sogno di una nuova ondata rivoluzionaria “proletaria”. Nel terzo, siamo in presenza dei melanconici orfani delle passate rivoluzioni contro e dentro il capitale, che vorrebbero trovare un nuovo impasto di idee reazionarie, rivolte pur sempre al passato, tuttavia a volte (raramente) con una maggior intelligenza della configurazione politica mondiale odierna; essi quindi cercano il collegamento con forze politiche di paesi ascendenti (le quali ovviamente non sono interessate ad ambiente e decrescita, ma ciò non impedisce la loro alleanza tattica con questi reazionari, giacché avere quinte colonne nei nostri paesi è per loro utile). Talvolta, simili correnti anticonsumiste (in realtà, antimoderniste) stabiliscono anche alleanze con settori capitalistici interni ai nostri paesi, oggi non sufficientemente aiutati a svilupparsi dato che i vecchi settori assorbono, grazie alle forze politiche (quelle del “primo caso” sopra citato), la maggior parte delle sempre più scarse risorse a disposizione in questo momento di crisi.
E’ chiaro che tutte queste correnti ideologiche vanno combattute, anche se la loro pericolosità è differente. Essa non va però stabilita una volta per tutte: di volta in volta, una di tali correnti – salvo forse le schegge “ortodosse” del vecchio marxismo e comunismo – può assumere il carattere di nemico principale. Oggi sembra evidente che in una situazione come quella europea, ma soprattutto italiana, di aperta subordinazione nei confronti degli Usa – e di appoggio ai settori capitalistici finanziari e a quelli industriali della precedente ondata di grande innovazione: soprattutto di prodotto dato che le tecnologie sono moderne più o meno nella stessa misura in tutti i paesi avanzati – le forze politiche e culturali del “primo caso” sopra visto sono i principali obiettivi di uno scontro accanito.
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Non trascuriamo, tuttavia, nemmeno gli antimodernisti, i portatori di torbide ideologie “romantiche” che spesso aprono la strada, soprattutto se precipitano gravi crisi (dunque nelle epoche di pieno policentrismo), a “irrazionali istinti” (passionali) di spezzoni di masse in particolare impoverimento e disgregazione sociale, tra cui vengono reclutate le “squadre d’azione” dei rivoluzionari dentro il capitale, i quali poi, se hanno successo, si liberano drasticamente di esse, perché interessati al forte sviluppo del proprio capitalismo in funzione di competizione accanita con gli altri (e soprattutto, appunto, in una situazione di grave crisi in cui lo “spazio” complessivo a disposizione si fa più stretto). Guai però a essere così sciocchi da rinverdire semplicemente i contrasti del passato; non si può fingere oggi la lotta tra fascismo e antifascismo, è atteggiamento di arretratezza tale da giocare scherzi pericolosi. Non a caso, sono altri spezzoni di sbandati e facinorosi – non vorrei fossero in definitiva mossi e alimentati, sia pure con molte mediazioni, dai settori politici del “primo caso”, i difensori del vecchio capitalismo da me chiamato GFeID – ad assumere l’iniziativa in scervellate azioni contro i torbidi antimodernisti (però solo culturali al momento) di cui sopra.
In questo periodo storico non vedo sorgere, in Europa e in Italia, solidi gruppi in grado di assumere la guida di una effettiva rivoluzione dentro il capitale, che non sarebbe comunque simile al vecchio nazifascismo; si manifesterebbe invece – se dovesse manifestarsi – in forme decisamente differenti e non tanto riconoscibili. Senza dunque demenziali manifestazioni di tipo squadristico, particolarmente irritanti non solo per la loro brutalità ma per la loro ottusità e idiozia, va ribadito che è necessario opporsi, senza esitazioni e sottovalutazioni, agli antimodernisti “romantici”. Ciò non significa far di tutta un’erba un fascio. E’ ovvio che può essere accettato un certo ambientalismo e anche una certa critica dello sviluppo (ad esempio discutendo quello sostenibile); l’importante è non fare concessioni alla svalutazione e diffidenza verso scienza e tecnica che, al di là della furbizia con cui possono essere presentate, non hanno alcun intento di lotta anticapitalistica (riprendendo magari, ad un livello più avanzato, la marxiana critica dell’“uso capitalistico delle macchine”), bensì sono puro e semplice invito a non progredire più, anzi a tornare indietro in nome del banale e fuorviante anticonsumismo, obiettivo su cui concordano gli antimodernisti, i miserabilisti, i cattocomunisti e quant’altro del genere.
Una politica che guardi avanti deve porsi dentro l’epoca attuale in presumibile avvicinamento al policentrismo. Il problema cruciale è stato posto con estremo realismo da quei grandi rivoluzionari che furono Lenin e Mao: l’elemento primo (in senso logico e cronologico) della possibilità che rivolte popolari (dei dominati insomma) conseguano qualche successo è rappresentato dal conflitto tra dominanti, quando questo supera date soglie critiche (non quantitativamente stabilite). In quest’epoca di fallimento totale e irreversibile – ci si convinca infine di questo fatto ormai assodato – della lotta dei comunisti (potremmo, con qualche semplificazione, datarla dal Manifesto del 1848 fino al 1989-91), è necessario ripartire da questo principio elementare. In ossequio ad esso, dunque, l’obiettivo prioritario è favorire, pur con le poche forze a disposizione e soprattutto con la pratica teorica e la battaglia culturale (che sono azioni squisitamente politiche), l’entrata nel policentrismo.
Per questo è necessario assumere un atteggiamento politico sostanzialmente anti-Usa, ma non per questioni semplicemente culturali e tanto meno etiche, ecc. E’ inutile che critichiamo la barbarie americana e poi glissiamo su quella delle mosse compiute da altri paesi o da dati movimenti politici (con connotazioni anche religiose, etniche, ecc.). E’ poco produttivo, pur se in certi casi inevitabile e giustificabile, usare troppo spesso due pesi e due misure nel giudicare le azioni di questi o invece di quelli. Non si tratta di sposare gli indirizzi politici, che comportano precisi interessi, delle nuove potenze in ascesa, soprattutto “a est”. E’ necessario giostrare tra i vari contendenti e acuire la contesa tra i diversi gruppi dominanti che guidano le sorti dei paesi dotati di un certo peso. Va da sé che in questi paesi – in particolare nei nostri, quelli europei avanzati dove sussiste la formazione dei funzionari del capitale – è necessario attizzare, sempre nei limiti delle nostre attualmente assai scarse capacità e possibilità, lo scontro tra gruppi dominanti onde creare l’ambiente (politico-
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culturale) più sfavorevole possibile ai gruppi finanziari e vetero-industriali asserviti agli Usa (la GFeID, insomma).
In definitiva, sia all’interno delle formazioni particolari (tenuto conto però dell’area in cui noi ci troviamo a operare) sia nell’ambito di quella mondiale o globale, è indispensabile agire (e ribadisco che il praticare la teoria secondo certe modalità e indirizzi è azione, non contemplazione) con lo scopo di dare una mano all’instaurarsi del policentrismo, senza minimamente nascondersi i pericoli in esso esistenti di crisi sempre più gravi e tormentose per le popolazioni, e soprattutto di acuti scontri interdominanti con turbolenze sociali il cui sbocco finale non è mai preordinato, non è orientato come una locomotiva che corre sui binari verso una precisa destinazione. E’ inoltre necessario agire in favore del policentrismo privi di un qualsiasi spirito di servilismo verso questo o quel gruppo di dominanti, che si tratti di quelli in conflitto sul piano interno o di quelli che si affrontano nell’arena mondiale. Il nord della bussola – il retropensiero che ci guida, anche se non è immediatamente attuabile – è sempre la rivolta dei dominati (quella radicale e trasformativa ovviamente), fenomeno però di ben maggiore eccezionalità storica perché le grandi masse sono fortemente egemonizzate (economicamente, politicamente, culturalmente) dai gruppi dominanti. Solo quando il conflitto tra questi scardina l’intero insieme di apparati egemonici, si verificano i rari movimenti di fuoriuscita sistemica; non certo con il futile “giochetto” dello sviluppo delle forze produttive che “sbatte” su un preteso “limite superiore” imposto dai rapporti di produzione esistenti, i quali verrebbero allora infranti e trasformati.
5. Siamo così arrivati all’ultimo punto. Ho già ricordato che non è ancora in vista – ammesso che in futuro si verifichi – alcuno sconvolgimento sociale del tipo del 1848 (le cui manifestazioni sarebbero, nell’eventualità, assai diverse), con le sue precipitazioni e sedimentazioni in grado di indicare infine con maggiore chiarezza la divisione della società tra gruppi dominanti e dominati (sia chiaro che questa è già una drastica semplificazione). Al momento, è intanto indispensabile capire che il lungo periodo, in cui si pensava al comunismo come “movimento che abolisce lo stato di cose presente”, è finito da un pezzo e che dunque sono da trattare i residui comunisti a volte con tenera malinconia a volte con deciso disprezzo per la loro più che scoperta mala fede di intrallazzatori elettorali. E’ necessario ripartire dal principio appena ricordato secondo cui lo scontro interdominanti, nelle fasi di transizione a nuove configurazioni geopolitiche globali e a nuove strutturazioni dei rapporti interni alle varie formazioni particolari, è l’elemento primario di nuove teorizzazioni e di nuove pratiche politiche.
Tuttavia, onde non restare entro l’ottica di una possibile rivoluzione dentro il capitale, non vi è dubbio che sia di somma utilità volgere lo sguardo anche ai rapporti tra strati sociali diversi, cioè alla disposizione in verticale dei vari raggruppamenti in scomposizione e ricomposizione nelle epoche di transizione come quella attuale; e tanto più tale atteggiamento diverrà cruciale quanto più ci inoltreremo nella fase policentrica (il cui avvento è sempre più probabile). Non ha però alcun senso osservare la struttura dei rapporti sociali con lenti ormai vecchie e appannate. D’altra parte, se la visibilità è ancora cattiva – sia a causa della mancanza di nuove lenti, ma ancor più di sommovimenti sociali in grado di decantare e chiarificare tale struttura dei rapporti – è d’obbligo rassegnarsi all’immaturità della situazione “oggettiva”; non si tratta di restare in mera attesa, si deve però prendere atto che la nostra attività politica è, in questa transitoria fase, di mera approssimazione empirica. Altrimenti, si continuerà a ripetere la vecchia pantomima della “lotta di classe”, scambiando ogni azione (magari energica) di un dato spezzone sociale – allo scopo di migliorare le proprie condizioni di vita (di distribuzione del reddito, ecc.) – per l’inizio della rivoluzione; in casi come questi, quel dato spezzone sociale verrà ogni volta dichiarato pomposamente il “soggetto della rivoluzione” (il pensiero corre immediatamente ai nostri insopportabili “operaisti”, e agli sciagurati capetti dei “movimenti sociali” odierni di vario genere, particolarmente opportunisti nei momenti cruciali).
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Occorre finalmente affermare con forza che agire politicamente non è il semplice “fare qualcosa”; e che non è sempre rivoluzionario compiere azioni dal tono violento. Anche la serrata critica teorica e culturale, lo smascheramento di una serie di distorsioni ideologiche che impediscono di valutare attentamente le situazioni sociali esistenti (interne come internazionali), è attività politica al cento per cento. Il primo compito di una battaglia culturale – e appunto politica in quanto culturale – è di sceverare continuamente, dal complesso del “bailamme” mondiale, quali processi (e quali forze attive in essi) favoriscono il crescere dello scontro policentrico, e quali no. Anche la lotta condotta all’interno delle formazioni del capitalismo avanzato “occidentale” (dei funzionari del capitale) deve indirizzarsi al tentativo, spesso assai difficile (è bene esserne consapevoli), di conciliare e combinare la volontà di autonomia del proprio paese, in funzione della riduzione dell’influenza di quello ancor oggi preminente (gli Usa), con la decisione di non subordinarsi all’eventuale – per il momento non ancora visibile, ma solo possibile e, se le crisi si aggraveranno, pure probabile – movimento dei rivoluzionari dentro il capitale.
L’indicazione del tutto generale – da non potersi sostanziare in particolari mosse politiche se non in presenza di specifiche organizzazioni in grado di stabilire legami con settori della popolazione – è di cominciare con una radicale critica di molti miti che ci si trascina dietro dal passato. Come esempio – ma è solo uno dei tanti possibili – ricordo che i settori “ufficialmente” critici del capitalismo non si sono ancora liberati dell’idea secondo cui il pubblico (lo statale o parastatale in definitiva) sarebbe migliore del privato; questo è valido per il sedicente marxista come per l’altrettanto sedicente keynesiano, solo in grado di piegare quella teoria a semplice giustificazione di uno Stato presunto sociale e invece troppo spesso semplicemente assistenziale (sia verso lavoratori, che sono in realtà dirigenti sindacali e galoppini elettorali di una falsa e marcia democrazia, sia verso imprenditori che non sanno fare il loro mestiere, ecc.).
E’ necessario superare le contraddizioni esistenti tra il lavoro salariato e quello autonomo, una partizione troppo spesso contraffatta e sostituita da quella tra popolo lavoratore e cosiddetto ceto medio; distinzione superficiale e sviante, su cui si fonda l’azione di divide et impera condotta dai gruppi dominanti, utilizzando il ceto intellettuale al loro servizio per diffondere un melmoso miscuglio di ideologie tese ad annebbiare e distorcere l’effettiva articolazione dei raggruppamenti sociali. Solo se, e quando, si riuscisse a superare quelle che sono reali divergenze di interessi tra i ceti dominati (o non decisori) – ma non acuti antagonismi come quelli spesso provocati ad arte per i suddetti motivi di predominio – diventerebbe possibile attuare una politica che rivolti la strategia del “dividere per comandare” contro i gruppi dominanti, sfruttando la loro lotta reciproca che potrebbe farsi molto acuta ove si andasse incontro ad un’epoca (appunto policentrica) di crisi e turbolenze varie e gravi.
Lasciando stare la banalità e genericità del “patto tra produttori” (su cui si dirà in altra occasione), dovrebbe essere in qualche modo appoggiata quella parte dei dominanti (è però necessaria una spinta energica e non tanto riformistica per porre in primo piano gli interessi di questa parte) che conduca una politica fondata: a) su una reale autonomia del proprio sistema-paese; b) su uno sviluppo delle industrie innovative, quelle della nuova ondata della distruzione creatrice, mettendo la finanza al loro servizio e impedendo qualsiasi azione assistenziale nei confronti dei settori industriali più arretrati (assistenzialismo che situa al vertice del potere una finanza variamente influenzata e controllata dai gruppi dominanti del paese centrale ancor oggi preminente, per quanto in difficoltà).
Il primo punto, sub a), può essere attuato solo da gruppi di agenti strategici della sfera politica ed esige lo svolgimento della loro attività nell’arena mondiale, sapendo giostrare tra i diversi centri di potere geopolitico in crescita. Oggi, comunque, dovrebbe prevalere una politica internazionale di relativo appoggio alle potenze emergenti ad est onde ridurre il predominio centrale statunitense; però con tutta la duttilità e furbizia necessarie, non con atteggiamenti rigidi, di carattere prevalentemente etico o altro. Si deve perseguire, politicamente, ciò che è utile in quanto strumento per conseguire il fine voluto: accelerare l’entrata nel policentrismo senza semplicemente porsi al
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servizio di altri paesi tutti tesi ad affermare una loro egemonia quanto meno regionale, quindi di effettiva oppressione in date aree del globo. Ci interessa l’utile, in misura minore il giusto, a meno che questo “sentimento” non serva a rafforzare l’azione tesa agli scopi che si intendono realizzare.
Dal punto di vista interno, ne consegue che gli agenti strategici economici, in unione con quelli politici, debbono svolgere una politica di rafforzamento dei settori di punta, ma senza la finzione della “libera competizione nel mercato globale”; c’è tutta un’azione – diciamo, in termini generali e complessivi, politica (con aspetti bellici, ma in senso lato) e culturale – che deve essere di supporto alla suddetta competizione e senza la quale non si batte alcun avversario. Certamente, però, non si vince con attività di tipo latamente protezionistico nei confronti dei prodotti di passate fasi dello sviluppo economico (esempio classico: quelli tessili cinesi), bensì dando impulso, con svariate modalità (in primo luogo certamente spingendo scienza e tecnica nei loro rami più moderni), ai settori avanzati della nuova epoca dell’industrializzazione.
Nutrire la folle idea che si debba in questa fase storica opporsi al capitalismo tout court per affermare idee di stampo comunistico (che trovano oggi anche versioni nuove, legate al fallimento delle vecchie), è frutto di un’arretrata e minoritaria vocazione al “romanticismo” politico e sociale; o per elitarismo (sempre derivato da vecchie ideologie di destra) o per amore degli “umili e oppressi”, il solito solidarismo tanto buono, e tanto mentecatto, il cui solo interesse è di essere “nel giusto”, mai di cambiare effettivamente qualcosa. Nell’attuale situazione dell’occidente capitalistico, l’unico modo di essere magari minoritari (e lo si sarà ancora a lungo), ma dotati di un’ottica rivolta al futuro, è di battersi – innanzitutto culturalmente, perché non c’è peggior nemico del nuovo di colui che crede di poter immediatamente attuare una effettiva prassi politica “spicciola” in assenza di una organizzazione – per la modernizzazione dell’apparato produttivo e per un rafforzamento della potenza di quello politico, uniti alla diffusione di una cultura consona e all’un compito e all’altro.
Quindi, autentici nemici sono quelli che combattono la modernità, che vorrebbero tornare al “proprio orticello”, alle piccole iniziative fintamente comunistiche o almeno solidaristiche, alla minuta attività dei “buoni” che pretendono di “stringersi a coorte”. Nemici sono quelli che esigono la pace a tutti i costi, anche porgendo l’altra guancia; quelli che in ogni azione militare o di repressione vedono solo ciò che in effetti essa è, in se stessa considerata: repressione e oppressione. Tuttavia, se si perdono di vista gli obiettivi che, in ultima analisi, è più utile realizzare nel lungo periodo, proprio a favore degli oppressi, si giunge solo ad affermare criteri di “giustizia” appartenenti ad un mondo altro rispetto a quello in cui viviamo realmente; chiunque si ponga in un’ottica del genere è dunque un avversario da combattere e da battere, pena la creazione di gruppetti di inverecondi “giusti”, che vivono per conto loro, mentre il resto degli individui che compongono concretamente la società umana (il 99 per cento d’essa; anzi il 999 per mille) continua a dividersi, senza contrasto alcuno, tra chi sta sopra (pochi) e chi sta sotto (la gran parte).
Esiste un unico modo per non rendere la politica – estera e interna, secondo quanto genericamente delineato (perché le misure concrete e particolareggiate non appartengono certo a questo scritto né a piccoli gruppi di critici dell’attuale configurazione sociale in Europa e Italia) – una semplice appendice di quella, comunque al momento non sussistente (e che sarebbe dunque già un passo avanti nell’attuale contingenza!), dei rivoluzionari dentro il capitale: sarebbe necessaria la presenza di una forza politica, del tutto moderna e avanzata sul piano della politica estera (di potenza) e interna (sviluppo dei settori di punta, ampio finanziamento della ricerca scientifica e tecnica, e sua completa liberazione dai lacci e laccioli rappresentati dall’oscurantismo di alcune tendenze della vecchia destra come della vecchia sinistra, dal clericalismo come da buona parte del laicismo, ecc.), e tuttavia capace di unire ceti popolari e ceto medio – in realtà, come già detto, lavoro salariato e lavoro autonomo nelle loro fasce a medio-basso reddito – facendone i “tutori” delle suddette politiche.
Last but not least: la politica estera – ma pure quella interna, del tutto indispensabile per potenziare la precedente – di una organizzazione, che persegua l’autonomia del proprio paese, non
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deve trascurare nemmeno l’appoggio alle lotte “popolari” in paesi e aree ancora sottoposti a regimi semicoloniali, comunque di sudditanza sostanziale verso il paese capitalisticamente predominante. Innanzitutto, diciamo però che ho messo “popolari” tra virgolette perché in quei popoli facciamo oggi, e correttamente, poche distinzioni; però sia chiaro che vi sono, in formazione o anche già ben formati, gruppi dominanti (in quello specifico contesto, giacché sono dominati sul piano internazionale), non a caso in lotta fra loro, con cui sono al momento alleati, e tuttavia spesso sottomessi, gli strati sociali realmente dominati su tutti i piani. In secondo luogo, sempre in base al principio della lotta contro l’oppressione nel lungo periodo, va ricordato che sarà magari giusto, ma non sempre utile (nel senso sopra chiarito), appoggiare certe rivolte “popolari”, troppo spesso guidate da gruppi dominanti subordinati alla potenza centrale; e meno che meno si deve cadere nel tranello di “elezioni democratiche”, in quanto strumento di supremazia della stessa potenza ancor oggi predominante e del suo tentativo di bloccare o frenare la crescita di altre al fine di ritardare la piena affermazione del policentrismo.
Quest’ultimo resta tuttora la migliore fase storica per le prospettive di rivolta degli oppressi, che ha più alte probabilità di esplodere con virulenza nei punti (aree, paesi, ecc.) in cui la lotta tra dominanti provoca lo smembramento delle strutture politiche e sociali e quindi, soprattutto, il netto indebolimento dei “corpi speciali in armi”, l’ultimo e più essenziale baluardo dei gruppi che esercitano la loro egemonia non a caso, come scrisse il nostro Gramsci, “corazzata di coercizione”. Ovviamente, la rivolta degli oppressi non è inscritta deterministicamente nelle fratture provocate dal conflitto tra dominanti; è una possibilità, non una necessità e, quand’anche scoppiasse, nulla garantisce il suo ineluttabile successo, che è anzi precluso nel caso essa fosse affidata alla mera spontaneità del movimento e non invece all’orientamento e guida di una ferrea organizzazione in grado di adottare opportune strategie rivoluzionarie. Una simile organizzazione, però, deve esistere solo in funzione dell’obiettivo in oggetto; non è da considerarsi un bene in se stessa, altrimenti serve in definitiva, com’è già accaduto, all’assunzione, strutturazione e stabilizzazione del potere da parte di un nuovo gruppo di oppressione. D’altronde, questo è il rischio da correre (in quel frangente) se si vuole mantenere aperta la possibilità di una vittoria degli oppressi; la quale non sarà mai definitiva, poiché nella storia “tutto torna” per quanto in forme differenti.
Siamo comunque per il momento ben lontani dalle possibilità trasformative aperte da uno scontro policentrico tra dominanti; al massimo, potremmo solo aspirare a mutamenti pur importanti in paesi particolarmente in difficoltà com’è oggi l’Italia. Sciocco è però nutrire visioni di rivolgimenti nettamente favorevoli al popolo, in particolare ai suoi minoritari raggruppamenti più disastrati, che coltivano vecchie illusioni “romantiche”, terreno di cultura di ideologie di disorganizzazione e indebolimento, in grado al massimo di aprire la strada, con modalità di particolare durezza, allo schiacciante predominio di forze o apertamente reazionarie (legate ai gruppi finanziari subordinati agli Usa uniti ai gruppi industriali più arretrati) oppure – e sarebbe già il meno peggio – rivoluzionarie dentro il capitale; i cui obiettivi tuttavia, se esse non sono tallonate da quella forza in grado di alleare lavoro salariato e autonomo degli strati inferiori, si diluiscono spesso in un compromesso con i reazionari creando una mistura assai pericolosa e talvolta più oppressiva.
Non c’è dubbio che, nella fase attuale, siamo ancora in arretrato rispetto alle prospettive qui adombrate; sarebbe tuttavia errato non prepararvisi comunque, senza però immaginarsi di essere già delle organizzazioni, pur piccole, capaci di autonome iniziative politiche incisive e studiate con minuzia. Chi finge di esserlo non può oggi che scimmiottare l’attività delle maggiori organizzazioni politiche oppure ripetere vecchi schemi ereditati dal passato. E’ ora di smetterla con le sciocchezze, rifiutando apertamente i reazionari romanticismi di sfioriti residui delle passate rivoluzioni (nazifascista e comunista) che, dalla sconfitta, hanno appreso solo a camminare come i gamberi; è indispensabile rompere radicalmente con la riproposizione di partitini del “nulla”, consoni al soddisfacimento della propria inconsistenza pratica e di un’abissale pigrizia mentale. Dobbiamo imparare dal passato, sapendo però bene che esso torna in forme del tutto diverse, tipiche della
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nuova fase in arrivo. E’ ormai urgente analizzare queste differenti forme, dunque dotarci di altre lenti teoriche per leggerle proficuamente; una grande battaglia culturale ci aspetta, in quanto però minuscoli gruppetti finalmente consci della sconfitta e della necessità di cambiare completamente i nostri percorsi, guardando avanti, rompendo con i ritardatari e, ancor più drasticamente, con quelli che intendono tornare indietro.
E non fingendo, scusate l’ossessiva ripetitività, di fare politica alla stregua di organizzazioni formate e radicate nella cosiddetta “società civile”, per quanto invecchiate e obsolete esse siano. Abbiamo ancora tanta pappa da mangiare; siamo dei bambini carponi nei loro box, che farfugliano le prime parole e ancora non si fanno ben capire. Vogliamo crescere o restare infanti? Avanti i giovani, quelli che si stanno dando da fare nella vita quotidiana e non disdegnano (non fingono di disdegnare) il successo. Contrasto radicale invece con i vecchi “cattivi maestri”, che hanno ancora voglia di indossare la maschera sbrindellata del loro zuccheroso populismo e delle loro “alte” aspirazioni etiche, di giustizia e armonia.
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