UN “ASSAGGIO”, di GLG, 2 maggio

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Mi sembra proprio che i lettori del blog “Conflitti e strategie” siano in lento costante spostamento rispetto a quanto avveniva quando si trattava di “Ripensare Marx”. C’è una crescente attenzione al più contingente mentre io, tendenzialmente, continuo ad insistere su questioni fondamentalmente teoriche e con qualche puntata storica. Riporto un pezzo di “Navigazione a vista” – il mio ultimo libro, di cui ho corretto in questi giorni le bozze e che spero possa uscire prima dell’estate – in cui inquadro pure la crisi iniziata nel 2008 nel contesto di una riflessione che tenta l’approccio a nuove categorie interpretative. Tra parentesi quadra ho messo alcune delucidazioni aggiunte appositamente qui.

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4. Va manifestato il massimo disappunto per come la crisi iniziata nel 2008 è stata trattata da sedicenti “esperti”, che hanno solo enfatizzato le crisi di Borsa, il falso problema dello spread, al massimo criticando i “cattivi finanzieri”, magari per carenza di etica, ecc. Alcuni studiosi di economia più seri hanno affrontato il problema con altri strumenti e con una migliore conoscenza delle varie teorie sulla crisi formulate da autori ormai divenuti dei “classici”. Non ritengo inutile il lavoro di questi studiosi odierni, ma qui mi interessa, come ormai sottolineato più volte, la motivazione “profonda” e cogente delle crisi (di tipologia variabile), quella motivazione che non attiene alla pura economia, bensì alla politica nel suo significato già chiarito [non gli apparati e istituzioni della sfera sociale detta Politica, in gran parte rappresentata da quello che chiamiamo Stato; bensì la sequenza di mosse strategiche che i vari “attori” compiono per vincere nel conflitto che li oppone e conquistare così la supremazia; aggiunta esplicativa].

Da tale punto di vista, la recente crisi – e fin da subito, molti fra i lettori spero lo ricorderanno, la assimilai a quella di fine ‘800 – va considerata il segnale d’apertura di una nuova epoca di accentuato scontro multipolare, che comporta lo scoordinamento delle complessive relazioni tra le numerose formazioni particolari e dunque pure del cosiddetto mercato globale. Non si tratta in realtà affatto del semplice mercato, bensì di un riposizionamento delle formazioni in questione nei loro rapporti di forza in merito al controllo di determinate sfere d’influenza. Lo squilibrio – manifestatosi nel passaggio dal tendenziale monocentrismo Usa (1991-2001) al nuovo e più instabile (dis)ordine mondiale, ponendo in crescita di potenza nuovi agenti – potrebbe anche riportare infine nella posizione di supremazia gli Stati Uniti, nel qual caso assisteremmo al ritorno verso una configurazione di nuova centralità coordinatrice del paese ancor oggi più forte.

Tuttavia, propendo per la prosecuzione, sia pure non lineare bensì con andamenti a sbalzi, del suddetto multipolarismo (attualmente ancora molto imperfetto) in direzione dell’usuale policentrismo che annuncerà un periodo di acutizzazione del conflitto per il predominio mondiale; e non certo di tipo prevalentemente economico, bensì soprattutto politico e bellico. Ed è al servizio di quest’ultimo che funzionerà, in definitiva, l’economia di vari paesi in fase di trasformazione decisamente innovativa. Si verificheranno pure, soprattutto nei paesi in questione, modificazioni non indifferenti delle “strutture” sociali (delle forme dei rapporti tra gruppi sociali). La crisi, nel suo aspetto più “superficiale”, quello economico appunto, sarà lunga e tormentosa, strisciante e priva di impennate verso alti ritmi di crescita; nel contempo, non dovrebbe nemmeno condurre a catastrofici sprofondamenti. E’ probabile qualche crac finanziario, più difficilmente bruschi e autentici crolli nei settori della produzione; almeno per alcuni anni a venire. La sfera economica sarà però investita da mutamenti intersettoriali, da avanzamento di date branche (alcune anche nuove) con arretramento di altre.

Anche se, com’è stato sostenuto, è lo squilibrio, grazie al movimento incessante da esso indotto, a creare i suoi portatori soggettivi (gli “attori” in lotta), questi ultimi non sono tuttavia strettamente determinati, non sono privi di una qualche libertà di scelta. Vi è pur sempre un ventaglio, non ovviamente aperto a 360° (e nemmeno a 180°), di possibilità d’azione da parte dei “soggetti”. Inoltre, quando si fa riferimento al mono o policentrismo, al multipolarismo, ecc. balzano in evidenza, quali agenti (creati dal movimento squilibrante), le formazioni particolari: predominanti (le potenze), subdominanti o più nettamente subordinate. Tuttavia, in queste formazioni (paesi, nazioni, ecc.) sono presenti diversi raggruppamenti e gruppi sociali; e anche questi sono “creati” – con i vari nuclei dirigenti che di fatto li orientano, tali nuclei essendo dunque i più autentici agenti – dal flusso di conflitti generatosi nell’oscillazione vibratoria.

Ecco allora che il discorso sulla crisi apre in realtà la porta ad una ben più rilevante, e complicata, discussione sui vari tipi di conflitto (di “guerra” in senso lato) che si scatenano ai diversi livelli della formazione sociale nel suo aspetto generale (globale): scontro tra le sue partizioni di tipo geografico-sociale – le varie formazioni particolari (paesi, nazioni, ecc.) – per il predominio mondiale o quella che fu indicata a lungo come “lotta di classe”, cioè urti e frizioni tra gruppi sociali all’interno delle formazioni in questione. Non sono però tanto questi gruppi (le “masse in movimento”) a definire la prevalenza di uno o più d’essi (o le alleanze fra certi gruppi, talvolta definibili quali blocchi sociali) in ogni data formazione. Più decisiva è la discesa in campo di nuclei dirigenti in competizione più o meno acuta e più o meno capaci di conquistare il controllo della formazione (paese). I nuclei in questione – e non le sole “masse in movimento” (cioè i gruppi sociali) – sono gli autentici portatori soggettivi ultimi del movimento squilibrante e del conflitto da esso indotto; e il prevalere di questo o di quello di detti nuclei definisce la differente tipologia cui appartiene un determinato paese (pre o sub dominante, ecc.).

Lasciamo pure gli studiosi (quelli seri però, non quelli della crisi di Borsa, dello spread e di altri inganni “pagati” da gruppi subdominanti, i “cotonieri”) discorrere sulle varie cause economiche delle crisi, sulla loro periodicità e lunghezza, sui mezzi per contrastarle, quasi sempre con la convinzione che lo si possa fare e che solo manchi la “buona volontà” o si commettano errori “evitabili”, ecc. Stiamo in realtà cercando un differente percorso (teorico) utile alla comprensione di ciò che è il “più generale” e cogente (la cosiddetta “legge”); del tipo dell’esempio fatto più volte, il “moto rettilineo uniforme”, che non credo esista mai nella realtà empirica, e tuttavia è servito da base per lo studio del movimento dei corpi. Non controllo la scienza fisica: credo comunque che anche il mutamento intervenuto con la relatività – mutamento da non assimilare certo a quello escogitato dal Nobel dell’Economia Simon, quando “scoprì” che la “razionalità” (dell’homo oeconomicus) è sempre limitata, a differenza di quanto supposto dalla scuola neoclassica tradizionale; “scoperta” che è per me sintomo di decadenza teorica e non di avanzamento nella conoscenza – non abbia introdotto alcun discorso intorno all’esistenza di attriti. Se non erro, la teoria einsteiniana ha invece spostato effettivamente il punto di vista quando ha indicato che il percorso non rettilineo di un mobile non dipende dalla gravità, intesa come forza attrattiva promanante dalla massa dei corpi, bensì dalla curvatura dello spazio/tempo, legata a massa ed energia. Da questo mutamento dipende l’uso delle geometrie non euclidee, di cui quella euclidea diventa un caso particolare, ecc. ecc.

In ogni caso, nelle ipotesi relative alla crisi, io parto dal principio che lo squilibrio genera il movimento; e quest’ultimo ha come effetto il conflitto e la formazione di “punti di condensazione” rappresentati dai portatori soggettivi, dagli “attori” che fra loro appaiono in lotta nella realtà più “visibile” (più “superficiale”, “di palcoscenico”, ecc.). Essendo quelli più visibili, li si osserva muovere, attribuendo loro e al loro modo d’agire la causa dello scontro e dei suoi effetti. Si sostiene allora la possibilità di invertire il loro comportamento, di realizzare accordi, sol che lo si voglia realmente, smorzando così il conflitto, forse giungendo un giorno alla piena cooperazione, creando infine un mondo senza più crisi di alcun genere: niente crac finanziari (con “bravi e virtuosi” finanzieri), niente scoordinamenti né la cosiddetta anarchia dei mercati o la sproporzione dei settori, ecc., e addirittura niente più guerre, e via dicendo. Resta, allora, soltanto la “saggezza religiosa” a ricordarci l’ineliminabilità della lotta tra bene e male; e almeno per questa via ci salva dalle peggiori sciocchezze del “buonismo” dei dominanti che devono far credere ai sottoposti molte fanfaluche nel tentativo di perpetrare il loro dominio.

5. Sul palcoscenico, una data opera va rappresentata seguendo il testo dell’autore; certamente, però, la regia introduce curvature particolari e gli attori, se capaci, mettono in piena luce determinati significati, che devono comunque essere quelli presenti nel testo in questione, altrimenti abbiamo a che fare con tutt’altra opera. Il “testo scritto” dal movimento squilibrante, generatore di conflitti, è quello che è; tuttavia, non si è passivi nella lotta e ci si deve impegnare nella “migliore rappresentazione” possibile. Nessuno sostiene che gli “attori” non possano apportare a quest’ultima variazioni anche significative. I portatori soggettivi non sono determinati nel loro agire fin nelle minime minuzie, essendo invece in possesso di qualche “grado di libertà”. L’importante è smetterla di credere che essi siano capaci di ottenere risultati contrari, opposti, a quelli indicati nel “testo”: già scritto da tempo immemorabile, dall’intera storia dell’umanità, delle varie formazioni sociali succedutesi. Sì, lo so, ci si rifiuta a questa “condanna”, si è spesso convinti che alla fine potrà trionfare la bontà, l’accordo, la pace.

Rifarò ancora in seguito, per l’ennesima volta, la storia del significato dell’opera di Marx relativamente al comunismo, interpretato “fantasiosamente” dai suoi seguaci. Marx aveva un’opinione assai amara degli individui umani, e Lenin ne aveva una anche peggiore. Il loro comunismo non aveva nulla di utopico come interpretato da alcuni, soprattutto filosofi, che dei due pensatori rivoluzionari hanno capito assai poco (direi nulla). Quel comunismo era invece basato sulla previsione di un movimento (tendenziale) del modo di produzione capitalistico (non del generico capitalismo), che si supponeva semplificasse la divisione in raggruppamenti (classi) sociali e conducesse verso la cooperazione tra produttori associati; non però tra uomini con le loro concrete individualità, non considerati dai due autori sopra citati come particolarmente buoni e disinteressati, non invidiosi, non ambiziosi, non animati da propositi di affermazione con vari metodi tutt’altro che commendevoli, ecc. In ogni caso, come ho mostrato “mille e una” volta ormai, le previsioni relative alla dinamica di quel sistema di rapporti si sono rivelate inesatte, ma non peccavano di mancanza di realismo, non erano fantasie di utopisti. Ci torneremo comunque anche in futuro.

La crisi iniziata da quattro anni ci accompagnerà a lungo. E’ una tipica crisi di scoordinamento legata all’incipiente multipolarismo. La vera differenza rispetto a quella, più volte ricordata, di fine secolo XIX è la deflazione dei prezzi verificatasi allora. Tuttavia, siamo appena all’inizio di una simile crisi e avremo probabilmente modo di assistere anche a quel fenomeno [Vorrei solo far brevemente notare che tale considerazione risale a quasi due anni fa: nel frattempo, la tendenza deflattiva si è presentata; e le misure prese, ultimamente anche dalla BCE, in fondo cercano di ovviare pure a questo carattere che è ritenuto più pernicioso ancora dell’inflazione (che non sia catastrofica, è logico). Come vedete, fare delle considerazioni teorico-storiche non è così male per capire anche il presente. Certo senza esagerare in parallelismi azzardati].

Tuttavia, se abbandoniamo i paragoni effettuati soltanto in sede di andamento dei processi economici, riusciremo negli anni a venire ad afferrare meglio una serie di mutamenti maggiori che si realizzano in periodi storici simili a quello che prese avvio con la lunga crisi di depressione ottocentesca e che fu caratterizzato dal declino inglese. Non facciamoci però trarre in inganno ancora una volta: non fu quel declino il fenomeno più rilevante dell’epoca (detta imperialistica). Esso, fra l’altro, non era ineluttabile se non con il solito “senno di poi”. Si verificò allora soprattutto la fine del capitalismo quale si era formato in Inghilterra, e poi in Europa (e, inizialmente, pure negli Stati Uniti), il capitalismo borghese, che servì da modello per l’analisi marxiana e il cui tramonto fu pensato come inizio della rivoluzione proletaria mondiale, che avrebbe seppellito il capitalismo tout court.

La depressione di fine ‘800, durata circa un quarto di secolo, aprì la via alle vere grandi crisi, soprattutto belliche – con ulteriori riflessi economici critici in date contingenze, tipo quelli del 1907, “trascinatisi” di fatto fino alla prima guerra mondiale, e del 1929, anch’essi superati solo con la seconda – che hanno prodotto la radicale mutazione storico-sociale cui hanno assistito le generazioni del secondo dopoguerra. L’attuale crisi di relativa stagnazione verrà infine considerata fra un bel po’ di tempo (diciamo mezzo secolo?) come l’apertura di una nuova “grande trasformazione”. La “grande illusione” della lotta tra capitalismo e “socialismo”, tipica dell’epoca del mondo bipolare, ha completamente sviato l’attenzione degli studiosi, con l’incomprensione totale dell’avvenuto passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale (definizione da me escogitata provvisoriamente e che sono il primo a considerare non del tutto soddisfacente). Adesso siamo entrati in una nuova epoca di netti, probabilmente violenti, sconvolgimenti con ulteriori modificazioni della formazione sociale, che continuiamo a definire genericamente capitalistica in base all’esistenza degli apparati tipici della sfera economica: il mercato e le imprese, ecc. Stiamo accumulando ritardi su ritardi e ci impantaniamo nel chiacchiericcio inconcludente più che in autentiche analisi teoriche.

Ci dimostriamo anzi in possesso di scarse capacità d’indagine, tutti dediti al “momento presente”. La memoria del passato è continuamente ignorata; e, quando non lo è, ci si dedica “gioiosamente” al suo completo travisamento, a raccontarci una storia totalmente svisata e dunque incompresa. Il futuro è oggetto di stupide discussioni sull’ottimismo o invece il pessimismo, di fatue promesse tipiche di una “democrazia elettoralistica”, che ha creato “scimmioni” incapaci di pensare e problematizzare il proprio vivere per un periodo di tempo che superi qualche mese. L’abissale “idiozia dei tecnici”, degli “specialisti”, è l’autentica cifra della nostra fase storica, specialmente in questo “occidente” ormai “stramaturo”, marcio e sfatto.

Ritengo utile prendere intanto atto di una realtà che credo ci apparirà evidente entro qualche anno: la crisi attuale non è prevalentemente economica e difficilmente riaprirà la porta a prossimi nuovi boom. Essa ci farà galleggiare in una situazione depressiva (in molti sensi, probabilmente pure individuali) e andrà mutando in direzione di più netti sconvolgimenti di varia forma, ancora per larghi versi imprevedibili. Tuttavia, come già detto, gli agenti (i portatori soggettivi) dell’“oggettivo” movimento squilibrante, e generatore di conflitti, non sono del tutto passivi né tanto meno inerte preda di un improvvido Destino, poiché esistono invece per essi certi “gradi di libertà”. Sarà dunque utile cercare di afferrare le determinanti e le caratteristiche di massima dei prossimi conflitti. Un lavoro irto di difficoltà e complesso, che sconterà la lunga parentesi di paralisi della nostra ricerca.

Lasciando perdere gli inutili cantori della “libera individualità” nella sua interazione soprattutto mercantile – una concezione di una vecchiezza insopportabile e ormai ridotta a puro vaneggiamento – dobbiamo superare anche le stantie concezioni della “divisione in classi” e della lotta fra queste. Tuttavia, è indubbio che funzionano ancora gruppi sociali (non ben conosciuti e soprattutto affastellati confusamente nella dizione di “ceti medi”) e si formano – spesso disfacendosi e riformandosi in periodi ravvicinati data la loro labilità e il loro pressapochismo – nuclei direttivi dotati di strategie raramente ben fissate e con obiettivi spesso labili e cangianti. In ogni modo, è in questa direzione che dobbiamo iniziare la nostra strada di analisi, perché qui incontriamo appunto gli “attori” che recitano la politica e i “registi” che mettono in scena il conflitto. Mi sembrano al presente molto scadenti e gli uni e gli altri; ma così sono e al loro comportamento ci si deve attenere. Sapendo però distinguere tra portatori soggettivi (sia pure dotati di una qualche libertà di scelta) e movimento squilibrante che rappresenta il vero regista d’ultima istanza del conflitto in via di acutizzazione.

Qui siamo e da qui dobbiamo riprendere teoricamente le mosse.

http://www.conflittiestrategie.it/navigazione-a-vista-il-nuovo-saggio-di-g-la-grassa-2