Un nuovo paradigma teorico
Confessioni
La virtù che preferisci – la semplicità
La virtù che preferisci in un uomo – la forza
La tua qualità principale – la determinatezza
La tua idea della felicità – lottare
La tua idea dell’infelicità – la sottomissione
Il difetto che scusi più facilmente – la credulità
Il difetto che detesti di più – il servilismo
La tua massima preferita – nihil umani a me alienum puto
Il tuo motto preferito – de omibus dubitandum
Karl Marx, 1865
1 . Nella prefazione alla prima edizione tedesca del Capitale, Marx avverte esplicitamente il lettore che la sua indagine sul modo di produzione capitalistico, nonché sui rapporti di produzione e di scambio che a questo direttamente corrispondono, deve necessariamente passare attraverso l’analisi della struttura sociale inglese, perché in quest’ultima si trovano già sviluppati quei rapporti economici che indicano la via alle altre nazioni: “In sé e per sé, non si tratta del grado di maggiore o minore sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi naturali della produzione capitalistica, ma proprio di tali leggi, di tali tendenze che operano e si fanno valere con bronzea necessità. Il paese più industrialmente sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire”.
Perché Marx fa questa precisazione? Ce lo dice lui stesso in un passo ulteriore: “Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantirsi lo svolgersi del processo allo stato puro”. Da queste affermazioni possiamo ricavare immediatamente due principi fondamentali per la comprensione dello sforzo teorico marxiano; in primo luogo egli adotta, per i suoi studi sulla società capitalistica, un approccio del tutto simile a quello delle scienze naturali, nella consapevolezza però che tra quest’ultime e le scienze sociali vi è sì un orientamento comune ma anche una fondamentale differenza derivante dagli strumenti a disposizione. “…all’analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: gli uni e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione”. È ovvio che, così come diversi sono i campi indagati e gli oggetti di cui ciascuna scienza tenta di appropriarsi (come dice Althusser, non c’è scienza senza il suo oggetto), nello stesso modo, diversificati saranno gli strumenti di misurazione o quelli di validazione con i quali gli scienziati proveranno o vedranno disattese, le proprie congetture. Del resto, i fenomeni e le forze sociali si manifestano, prima facie, per i loro effetti, ed è su questi che ci si deve cimentare per appurare le proprie tesi. Questo è il metodo con il quale procedono
le scienze fisiche. Ciò dovrebbe bastare a zittire tutti quegli interpreti di Marx che hanno tentato, o tentano ancora, di far passare il suo approccio alla materia sociale come qualcosa di distante ed avulso dalla sistematicità scientifica (magari per attribuirgli vaneggiamenti utopistici o, peggio ancora, umanistico-moralistici che egli combatté sempre con indignazione). Ma il fatto nuovo non sta certo qui. Possiamo inferire allora il secondo principio che, a nostro modo di vedere è indiscutibilmente quello più importante per comprendere il modus operandi di Marx.
Questo insistere del pensatore tedesco sugli aspetti storici del capitalismo, sulle sue forme pienamente sviluppate in un contesto sociale determinato, quello inglese appunto, ci rivelano quanto la sua ricerca, benché destinata a dipanare le leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico generalmente intese – quelle che come lui stesso sostiene agiscono con bronzea necessità – non possa però prescindere dall’individuazione del “luogo fisico” dove le concrete manifestazioni e ripetizioni fenomeniche segnalano la presenza di tali leggi. Tutto ciò non è senza implicazioni per il suo impianto concettuale. Nel caso specifico, è l’Inghilterra della rivoluzione industriale, appena conclusa, a costituire quel posto privilegiato dove cause ed effetti si rendono maggiormente intelligibili, tanto che all’indomani del suo trasferimento a Londra (dove poi visse per quasi trent’anni), a partire dal 1850, Marx dovette ricominciare a studiare tutto dal principio, a rivedere il materiale a disposizione e le precedenti acquisizioni, perché era cambiato il suo angolo di osservazione, trovandosi nel cuore stesso della società borghese.
Siffatte precisazioni sono decisive per proseguire sugli stessi binari tracciati da Marx, al fine di volgerci, a nostra volta, sul tempo presente e con intendimenti assai simili ai suoi. Marx non è semplicemente il teorico di una formazione sociale generale, basata sulla diffusione del sistema delle merci, affermantesi attraverso i due pilastri capitalistici dell’industria moderna (dov’è scritto no admittance except on business) e del mercato in continua espansione (nulla a che vedere con la globalizzazione, mera variante ideologica postmoderna di una tendenza da sempre intrinseca al capitalismo), egli è stato piuttosto l’interprete di una formazione storicamente esistente, nata in Europa e in condizioni del tutto particolari, direi quasi irripetibili. Il fulcro della sua teoria sarà il concetto di modo di produzione capitalistico, inteso quale forma storica compiuta che attraversa, con la sua luce, l’insieme societario ottocentesco e che dà spinta e propulsione alle forze produttive, in quanto incardinate in rapporti sociali fortemente dinamici.
Il capitalismo che Marx ha sotto gli occhi porta però impressa l’impronta della società borghese, ed anche le sue generali leggi di funzionamento, sono, in qualche maniera, riferibili quasi esclusivamente a quella determinata formazione sociale pur se metodologicamente egli distingue sempre tra “tendenze generali e necessarie del capitale dalle forme nelle quali esse si presentano”. Questo sostanzialmente per ribadire che Marx è stato il teorico di un contesto sociale determinato, di un’epoca che coltivava i propri schemi, le proprie curvature ideologiche, le ubbie concettuali variamente articolante in altrettante correnti di pensiero (dalle quali lo stesso Marx non restò del tutto immune) e che i limiti della sua teoria non potevano non essere quelli del suo stesso tempo, cioè di uno scenario circoscritto “carico di senso” e sovraccarico di mistificazioni, com’ è per tutti i tempi umani.
Contro questi nascondimenti, comuni a molte discipline scientifiche, economia in primis, Marx orienta la sua riflessione demitizzante
“…la riflessione sulle forme di vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale”. Egli fu comunque in grado di distinguersi dai molti pensatori a lui coevi, di tracciare una nuova visione dei fenomeni sociali e dei destini della società nella quale era immerso, districandosi tra sedimenti ideologici accatastati, riuscendo a sollevare, meglio di chiunque altro, quella pietra tombale con la quale l’economia classica – la disciplina che costituiva per lui la chiave di volta per indagare la società capitalistica – aveva coperto i rapporti sociali capitalistici rendendoli illeggibili al pensiero e alle classi subordinate, in quanto essa stessa schiava, nei suoi rappresentanti più in vista, del suo mondo destoricizzato (“gli economisti, Ricardo compreso, sono antistorici in tutta la loro concezione”). Dunque, l’analisi marxiana indaga l’evoluzione della formazione sociale borghese (così come essa era andata affermandosi sulla spinta dei nuovi rapporti di forza, risultato dell’affermazione del modo di produzione capitalistico), partendo da alcune indispensabili generalizzazioni. Ovviamente questo non lo dico io ma lo asserisce lo stesso Marx in Lavoro salariato e Capitale: “I rapporti sociali entro i quali gli individui producono, i rapporti sociali di produzione, si modificano, dunque, si trasformano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, delle forze produttive. I rapporti di produzione costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nome di rapporti sociali, di società, e precisamente una società a un grado di sviluppo storico determinato, una società con un carattere particolare che la distingue. La società antica, la società feudale, la società borghese sono simili complessi di rapporti di produzione, e ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità”. Marx mette qui in risalto proprio quel principio scientifico che noi abbiamo indicato all’inizio come basilare. Quando si studia un’epoca storia e le sue forme di organizzazione sociale non ci si può limitare ad estrarre le determinazioni comuni e generali a più epoche storiche (e dunque valide per l’eternità e per qualsiasi modo di produzione umano) per esaurire la comprensione di un modo di produzione specifico, ma, al contrario, bisogna cogliere, attraverso l’elaborazione di una teoria di fase, la sua specificità storica “rivelata”.
Generalizzazioni di tal fatta, vengono impiegate per esigenze di semplificazione teorica, per “isolare mediante comparazione” (La Grassa) ciò che di comune vi è nella storia, mettendo “…effettivamente in rilievo l’elemento comune”, al fine di risparmiarsi delle ripetizioni. Nell’introduzione del 1857 questo concetto è espresso con maggiore limpidezza: “La produzione in generale è sì un’astrazione, ma un’astrazione sensata, nella misura in cui mette effettivamente in evidenza ciò che è comune, lo fissa e ci risparmia ripetizioni. Poiché questo che di generale o comune, isolato mediante raffronto, è esso stesso variamente articolato e si snoda in diverse determinazioni, ne consegue che alcune appartengono a tutte le epoche, altre son comuni solo ad alcune, altre ancora appartengono sia all’epoca più moderna che alla più antica. Non c’è produzione che possa esser pensata senza di esse; ma se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni che le accomunano a quelle meno sviluppate, proprio ciò che definisce il loro sviluppo – dunque, la differenza (Unterschied) da quel generale o comune, da quelle determinazioni, che valgono per la produzione in generale – deve essere distinta, in modo che, per l’unità – che deriva dal fatto che il soggetto [della produzione], cioè l’umanità, e l’oggetto [della stessa], cioè la natura, restano gli stessi – non venga dimenticata l’essenziale diversità (Verschiedenheit). In tale dimenticanza, ad es., consiste l’intera saggezza dei moderni economisti, che vogliono dimostrare l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti… Per riassumere. Vi sono determinazioni comuni a tutti i livelli della produzione, che il pensiero
fissa come determinazioni generali; ma le così dette condizioni generali di ogni produzione non son altro che momenti astratti, con il cui ausilio non si comprende concettualmente (begreifen) nessun livello della produzione, storicamente effettivo”.
Tutt’altra cosa è però fermarsi all’astrazione generale per farne la verità della Teoria fuori da precise coordinate spazio-temporali, trascurando quelle determinazioni che costituiscono la differenza essenziale di ogni epoca, ciò che appunto Marx indica come il “concreto della produzione”. Insomma, anche Marx, contrariamente a quanto sostenuto dai suoi esegeti biblici, non intendeva (né pretendeva, come si evince dalle sue stesse parole) elaborare esclusivamente paradigmi teorici universali, ma si poneva, piuttosto, l’obiettivo prioritario di individuare le caratteristiche meno contingenti del modo di produzione capitalistico, restando nell’alveo dei rapporti sociali della “concreta” formazione sociale del suo tempo. Per questo il Moro aveva ridicolizzato la “saggezza degli economisti moderni”, i quali, nel comune e nel generale, pretendevano di “disciogliere” la forma storica specifica del capitalismo per fissarla al di fuori di qualsiasi scansione sociale e temporale.
Secondo l’interpretazione finale marxiana, il sistema capitalistico era destinato a crollare, in virtù di contraddizioni insanabili che, tuttavia, divenivano irricomponibili solo allorquando si sarebbe formato, nel suo stesso seno, un soggetto collettivo non più incardinabile in rapporti di produzione che avevano come sfondo la proprietà privata. Marx credette, prendendo come punto di riferimento il capitalismo di matrice inglese del suo tempo, che la funzione predominante, nell’ambito di tale sistema, fosse quella proprietaria. Insieme a questa funzione l’imprenditore svolgeva (almeno fino ad un dato momento della sua storia), anche il compito di organizzare la produzione, contribuendo “direttamente” alla creazione di quello che poi estorceva, agli operai salariati (pluslavoro nella forma di plusvalore). Qui si colloca la prima confusione, perché viene supposto che, con lo sviluppo del modo di produzione in argomento, la funzione proprietaria sarebbe divenuta predominante, fino a trasformarsi in pura attività finanziaria (attraverso i processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali), con l’organizzazione della produzione che sarebbe passata in capo agli specialisti salariati di più alto livello tecnico. La produzione capitalistica volgeva inevitabilmente verso un massimo di socializzazione delle forze produttive liberando la bestia proletaria che per molto tempo aveva tenuto incatenata al principio della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma questo soggetto rivoluzionario non era identificabile con la classe operaia tout court, come qualche furbastro rivoluzionario, solo a parole, ha voluto far intendere, quanto da una soggettività integrata che si compattava, quasi naturalmente, all’interno del processo produttivo, in conseguenza della spinta sistemica ad uno sviluppo incessante delle forze produttive.
La Classe che doveva spezzare le catene dello sfruttamento si sarebbe formata spontaneamente nel processo produttivo, in seguito ad una “coscienzializzazione” politica da parte dei veri produttori della ricchezza sociale: gli esecutori giornalieri e i manager dirigenti, alleati contro le forze parassitarie del capitale rentieristico.
La ricomposizione tra funzioni esecutive e funzioni intellettive avrebbe messo fine ad un modo di produzione che aveva fatto le sue fortune proprio sulla divisione del lavoro e sullo sfruttamento delle classi subalterne, con quelle proprietarie che, infine, si sarebbero ridotte a corpi sociali meramente improduttivi, non più adusi ai meccanismi dell’economia reale ed asserragliati, come una casta signorile, intorno al loro strumento di terrore e di controllo sociale, lo Stato (quello Stato il cui apparato principale è l’esercito o i vari corpi speciali di uomini in armi).
L’idea di Marx, era appunto quella per cui la dinamica capitalistica, in tempi nient’affatto lunghi avrebbe favorito una polarizzazione sociale ed una sempre più accentuata concentrazione della proprietà capitalistica in poche mani. I proprietari, ridottisi di numero, ma sempre più esigui nel governo della ricchezza, avrebbero concluso accordi di cartello per evitare di pestarsi ulteriormente i piedi tra loro e godersi, in tutta tranquillità, la posizione raggiunta a danno della maggior parte della popolazione. Tale situazione avrebbe però accelerato la loro condanna a morte, in q u a n t o sarebbe stato impossibile mantenere il potere senza un adeguato mascheramento sociale dello sfruttamento, la cui maggiore odiosità si sarebbe fatta valere proprio a causa del loro trasformarsi in una classe similfeudale, al cospetto di masse diseredate sempre più pletoriche. Gli espropriatori sarebbero allora stati espropriati a vantaggio dei produttori direttamente coinvolti nella produzione.
2 . Possiamo, a questo punto, calarci nella complessiva ipotesi teorica dalla quale il
pensatore tedesco parte per indagare le leggi di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Tale concezione marxiana si trova mirabilmente riassunta nella Prefazione a Per la critica del’economia politica, opera del 1859.
In un recente saggio pubblicato sul nostro sito, Gianfranco La Grassa ha commentato questo passaggio che riporto interamente, poiché tutta l’anatomia del capitalismo, così come concepita dal pensatore tedesco, si trova condensata in pochi paragrafi che illustrano, succintamente, il nocciolo previsionale della sua elucubrazione: “…nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono
agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, cosi non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana”. Questo brano di Marx ha alimentato, come comprovato da La Grassa, un determinismo dilagante, soprattutto nei suoi epigoni ed interpreti successivi, i quali hanno tirato, dalle citate proposizioni, molto più di quello che lo stesso autore avesse voluto dire, guardandosi bene dal collocarne il senso nell’intera opera marxiana.
Eppure Engels, che in parte poté assistere alla riduzione dogmatica del pensiero di Marx in marxismo scolastico, non esitò ad affermare, in una lettera a Joseph Bloch del 1890, che “…secondo la concezione materialistica della storia, la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazio-
ne in modo che il momento economico risulti l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda”. Ed ancora, prosegue Engels, rivolgendo un’autocritica a se stesso e a Marx: “Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca al lato economico più rilevanza di quanto convenga, siamo in parte responsabili anche io e Marx. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca”. Da qui, conclude Engels, ne è venuta fuori della “roba incredibile”.
Ed è davvero incredibile, se non tragica, la piega presa dal marxismo sclerotizzato del nostro tempo che, deviando dall’animus scientifico del fondatore, è approdato ad una vera e propria liquefazione teorica (decrescita, antimodernismo, comunismo u-morale ecc. ecc.), che si è accodata ad un’altrettanto lunga fase di irrigidimento dottrinale e di distorsione concettuale (quella degli ismi: economicismo, storicismo, umanismo ecc. ecc.), con la quale si è letteralmente neutralizzato il fulcro scientifico marxiano. Del resto è lo stesso Engels, in tempi tutt’altro che sospetti, ad aver per primo intuito questo pericoloso andazzo.
Secondo tali interpretazioni deterministiche, l’ineluttabile destino della Classe si trovava già scritto, a caratteri cubitali, sulle porte d’ingresso delle moderne fabbriche: “qui si crea il vero prodotto del capitalismo, i soggetti sociali che lo seppelliranno”. La storia prima di “suicidarsi” e di avvitarsi definitivamente su se stessa avrebbe lavorato per gli sfruttati, approfondendo le insanabili contraddizioni del capitalismo, a tutto vantaggio della classe operaia. Questa visione “escatologica”, seppur presente in nuce in Marx (altrove ho scritto che Marx è in parte responsabile di aver lasciato degli “spazi vuoti” nella sua concezione che si sono prestati ad un indebito riempimento teleologico), non era tuttavia depositata su un fondo interpretativo così irrazionale e banalizzato.
In primo luogo,
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Solo nella comunità diventa dunque
possibile la libertà personale.
(Marx e Engels, 1845-46, 55)
Comunismo e Comunità
Marx non pensava
affatto che sarebbe
stata la classe operaia
strictu sensu (quella
che Lenin definisce
appena tradunionisti-
ca) a dare la spallata
decisiva al capitali-
smo. La congettura
originaria da cui egli
fa derivare le sue con-
clusioni la troviamo
esplicitata nel terzo
libro del Capitale lad-
dove viene descritta la
formazione di un’alleanza, all’interno del pro-
cesso produttivo, tra dirigenti e giornalieri,
contrapposta alla classe parassitaria dei pro-
prietari puri: “Trasformazione del capitalista
realmente operante in semplice dirigente, ammi-
nistratore di capitale altrui, e dei proprietari di
capitale in puri e semplici proprietari, puri e
semplici capitalisti monetari. Anche quando i
dividendi che essi ricevono comprendono l’inte-
resse ed il guadagno d’imprenditore, ossia il
profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è
o dovrebbe essere semplice salario di un certo
tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul merca-
to del lavoro è regolato come quello di qualsiasi
altro lavoro), questo profitto totale è intascato
unicamente a titolo d’interesse, ossia un sempli-
ce indennizzo della proprietà del capitale, pro-
prietà che ora è, nel reale processo di riproduzio-
ne, così separata dalla funzione del capitale
come, nella persona del dirigente, questa funzio-
ne è separata dalla proprietà del capitale. In
queste condizioni il profitto (e non più soltanto
quella parte del profitto, l’interesse, che trae la
sua giustificazione dal profitto di chi prende a
prestito) si presenta come semplice appropria-
zione di plusvalore altrui, risultante dalla tra-
sformazione dei mezzi di produzione in capitale,
ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produt-
tori effettivi, dal loro contrapporsi come proprie-
tà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella
produzione, dal dirigente fino all’ultimo giorna-
liero”. Lo sbocco di tale situazione è allora “…
un momento necessario di transizione per la ri-
trasformazione del capitale in proprietà dei pro-
duttori, non più però come proprietà privata di
singoli produttori, ma come proprietà di essi in
quanto associati, come proprietà sociale imme-
diata. E inoltre è momento di transizione per la
trasformazione di tutte le funzioni che nel pro-
cesso di riproduzione sono ancora connesse con
la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei
produttori associati, in funzioni sociali”. E se
non dovesse essere abbastanza chiaro ecco
come si chiude tale disamina: “Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico, nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il controllo della proprietà privata”.
Marx è convinto che, nel giro di poco tempo, all’interno stesso del modo di produzione capitalistico, con l’accentramento crescente dei capitali nelle mani di pochi individui a causa del divenire preponderante della speculazione, la razzia capitalistica, perpetrata a danni della classe lavoratrice, si sarebbe ritorta anche sul grosso dei piccoli e medi capitalisti, i quali, per ironia della storia, sarebbero diventati a loro volta vittime del tritacarne capitalistico che avevano contribuito a mettere in moto: “Tale espropriazione costituisce il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, e allo stesso tempo il suo scopo, che è, in quella analisi, quello di espropriare i singoli individui dei mezzi di produzione, che con lo sviluppo della produzione sociale cessano di essere mezzi della produzione privata e prodotti della produzione privata, e che possono essere ancora soltanto mezzi di produzione nelle mani dei produttori associati, quindi loro proprietà sociale, così come sono loro prodotto sociale. Ma nel sistema capitalistico questa espropriazione riveste l’aspetto opposto, si presenta come appropriazione della proprietà sociale da parte di pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché la proprietà esiste qui sotto forma di azioni, il suo movimento ed il suo trasferimento non sono che il puro e semplice risultato del giuoco di borsa dove i piccoli pesci sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi di borsa. Nel sistema azionario è già presente il contrasto con la vecchia forma nella quale i mezzi di produzione sociale appaiono come proprietà individuale; ma la trasformazione in azioni rimane ancora chiusa entro le barriere capitalistiche; in luogo di annullare il contrasto fra il carattere sociale ed il carattere privato della ricchezza, essa non fa che darle una nuova forma… Le
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Comunismo e Comunità
imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi… come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato”. Infine, la crescita spropositata del sistema creditizio e della speculazione borsistica se, da un lato, permettono lo sviluppo incessante della produzione capitalistica “cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale” dall’altro non sono che l’“estrema unzione” che annuncia l’al di là del Capitale, il nuovo sistema di produzione basato sulla cooperazione dei liberi produttori associati.
È doveroso chiedersi dove sia la classe operaia in tutta questa discettazione. Dovrebbero spiegarcelo soprattutto quegli intellettuali pseudorivoluzionari che sull’incendio semantico spropositato e sull’illusione sostitutiva dell’impostazione scientifica hanno costruito le loro fortune editoriali, spargendo veleno su un’intera generazione.
Resta, in ultima analisi, il fatto che quella soggettività rivoluzionaria, così come intesa da Marx molto meno angustamente rispetto ai nostri neolassalliani settantasettini della specie autonoma, non si sia mai concretata a livello societario, tanto che oggi, continuare a perorare la trasformazione sociale in siffatti termini, vuol dire rinunciare realmente a combattere il capitalismo.
Ciò implica che dobbiamo buttare tutto il pensiero di Marx nel dimenticatoio delle vecchie concezioni inservibili? Certamente no, ma non è reiterando la parte meno verosimile della sua teoria, quella disattesa dall’incedere della storia, che si può ricostruire qualcosa di serio. Per altro, questo “inficiamento” previsionale non toglie nulla alle più grandi scoperte scientifiche di tale studio che dobbiamo invece rinsaldare e rivalutare.
In primo luogo, a Marx va il merito di aver riportato sulla terra le cause prime del movimento storico sottraendole agli appannaggi di Giove e di tutti gli altri dei. La concezione idealistica secondo la quale le trasformazioni storiche dipendevano da mutamenti nelle idee degli uomini viene passata per le “armi della critica” da Marx che vi oppone la materialità della vita, il modo in cui le società umane si assicurano la propria
riproduzione, le lotte sociali e politiche che attraversano i contesti sociali modificandone pensieri e rapporti “…gli uomini, i quali producono le relazioni sociali corrispondentemente alla loro produttività materiale, producono anche le idee, le categorie, cioè le espressioni astratte ideali di queste stesse relazioni sociali. Le categorie dunque sono altrettanto poco eterne quanto le relazioni che esse esprimono. Esse sono prodotti storici e transitori”.
In secondo luogo, a Marx va dato atto di aver spogliato il capitalismo (disarmando i suoi cantori) della sua aura autofondante tesa a negare la forma, tutta sociale, del suo dispositivo riproduttivo: “gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Così di storia ce n’è stata, ma non ce n’è più”. Fin qui il discorso di e su Marx, adesso possiamo finalmente volgerci verso ciò che riguarda direttamente la nostra prospettiva temporale oltre che politica.
3 . Dando per acquisito di esserci dispersi nella “selva oscura” dove non s’intravede
alcuna soggettività rivoluzionaria – almeno
dopo aver fatto esperienza, nostro malgrado,
che nelle viscere del capitalismo i semi rivolu-
zionari non fecondano alcun ovulo pronto ad
accoglierli; ed avendo,
altresì, compreso che, per
il futuro, saremo costretti
ad operare come dei veri e
propri architetti della
costruzione politica al ser-
vizio delle possibili allean-
ze di classe (non essendo
queste prescritte da alcu-
na tendenza insita nella
storia) – è opportuno
avviare un non più pro-
crastinabile ripensamento
(o forse il termine più
adatto è rivolgimento?)
teorico. Con questo dob-
biamo porci un altro
obiettivo complementare: quello di dare effet-
tualità ad una nuova pratica politica, volta a
collocare nello spazio sociale, con più efficacia
e meno illusoriamente che in passato, l’azione
dei dominati. Se quel che afferma Althusser è
verosimile, come credo, bisogna disporre gli
elementi teorici in funzione del problema politi-
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Comunismo e Comunità
co centrale che per noi, guarda caso, fa tutt’uno con una diversa e più corretta interpretazione dell’attuale formazione sociale capitalistica. L’obiettivo è di quelli ambiziosi ma ugualmente ineludibile se si vuole restituire all’indagine critica, sul modo di funzionamento delle odierne società, un più performativo habitus scientifico, alla stessa stregua di quanto fatto da Marx con le sue ipotesi teoriche, in un’altra fase storica.
Abbiamo già detto che il nostro orientamento deve essere per una serrata battaglia teorica e politica, ripartendo dai punti deboli del pensiero marxiano e da ciò che in quel dispositivo ha segnato il passo, al fine di aprirci nuove possibilità d’incidenza all’interno campo sociale dove abbiamo intenzione di intervenire. Per fare questo necessitiamo, in primo luogo, di una presa di coscienza del ruolo che i dominanti hanno giocato e giocano nell’odierna società capitalistica.
Se si resta nell’ottica di una lettura economicistica dei processi sociali, ancora schiacciata sul conflitto tra Capitale e Lavoro, ci troveremo a riproporre soluzioni falsamente rivoluzionarie che hanno già prestato il fianco a troppe sconfitte.
Questa impostazione ha mostrato la sua inconsistenza nel dipanare i processi dinamici del capitale, per cui dobbiamo inevitabilmente riformulare la nostra ipotesi scientifica, partendo proprio da quelle funzioni che Marx mise erroneamente in secondo piano. Per esempio, i capitalisti non solo non si sono disinteressati della produzione concreta ma, al contrario, continuano ad occuparsene per ottenere i mezzi economici indispensabili con i quali dare appropriatezza alle strategie del conflitto per la supremazia. Se si dà preminenza all’aspetto puramente proprietario del capitalismo, la sfera economica diviene effettivamente quella determinante in ultima istanza al fine scevera-
re le dinamiche del capitale. La concorrenza tra capitalisti che mirano ad aumentare i propri profitti per espungere dal mercato i concorrenti ci tiene costantemente sulla superficie del problema (una superficie sempre più simile ad un miraggio) impedendoci di comprendere, al fondo, la natura del flusso conflittuale che anima tale sistema. Non a caso, le leggi della competizione economica vengono ipertroficamente estese ad ogni ambito sociale, al fine di coprire, con questo velo ideologico, le azioni strategiche che sono alla base dell’allargamento e della riproduzione dei principali rapporti sociali capitalistici. Ma è l’agente strategico, quello che agisce a livello della sfera politica, il vero funzionario del capitale, “colui che allarga i suoi orizzonti all’insieme della formazione sociale”. Detto agente non è direttamente implicato nella produzione materiale e tanto meno in quel mondo di superficie (il mercato) dove avviene lo scambio tra equivalenti, per quanto la sua azione debba restare costantemente celata sotto una coltre di “scambi economici egualitari”. Del resto, l’agente strategico non può fare a meno di quest’ultimi dato che le strategie, per essere funzionali, necessitano dell’uso di uomini e mezzi, i quali nel sistema capitalistico (fondato appunto sul mercato e sull’impresa) assumono la forma di merci e del loro equivalente generale, il denaro.
Il capitalismo non si riduce al conflitto nella sfera produttiva tra salariati e oppressori, tra Capitale e Lavoro, secondo la versione en economiste di certo marxismo d’antan, quello che attende, impenitente, l’avvento della “Grande Ostetrica” (la Rivoluzione Socialista) quale levatrice di un parto ormai maturo nelle viscere della stessa società. Per noi, il capitalismo, in quanto rapporto sociale, è decisamente un flusso energetico che attraversa il campo sociale, creando una “gravità” (in senso fisico), la quale a sua volta attira gli esiti conflittuali in corpi socialmente organizzati. A seguito della corrente conflittuale si formano una serie di apparati e istituzioni che sono il precipitato della tensione tra forze contrapposte. L’approccio scientifico marxiano, il quale coglie precisamente che nel modo di produzione capitalistico (oggi parliamo più largamente di formazione sociale) esiste un rapporto rovesciato tra apparenza ed essenza delle cose, ci aiuta ancora a fare i conti con questa superficie fenomenica. L’apparenza immediata “ci suggerisce che sono questi corpi a precedere le azioni strategiche conflittuali; mentre invece essi sono solo mezzo, strumento, del
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Comunismo e Comunità
conflitto per la supremazia combattuto tra gruppi dominanti, che si formano e si disfano ricomponendosi in altri schieramenti, si alleano e poi si combattono, in fasi differenti (e di lunghezza variabile) della formazione capitalistica” (La Grassa). Ci troviamo, in ogni caso, sulla parte esterna del capitale poiché questo flusso si trova ben celato sotto determinate concrezioni fenomeniche, reali e ingannevoli al contempo, ma comunque su un piano molto più esplicativo rispetto a quello del mercato e della merce. Se il pensiero dominante “avanza coprendosi”, celando la sua azione dietro la razionalità economica, la teoria scientifica ha, invece, il dovere di non farsi incantare dalle sirene dell’immediatezza fenomenica (si pensi a quel marxismo sclerotizzato che pensava, e pensa tuttora, di poter trasformare il piombo in oro con la risoluzione matematica di certe corrispondenze tra valori e prezzi di produzione) e di individuare il luogo specifico dove le sue leggi possono essere isolate in maniera meno spuria. Questo è il punto di partenza per la definizione di un nuovo paradigma teorico. Ovviamente tale spostamento non è senza implicazioni per la teoria generale di riferimento che vede “tendersi” e sfilacciarsi le connessioni concettuali attraverso le quali aveva sin lì funzionato. Possiamo senz’altro affermare che, in questa fase, ci troviamo nella condizione per cui molti concetti teorici appartenenti al sistema generale precedente, messi sotto pressione dalla riarticolazione proposta, con conseguente ridefinizione della loro scala logica (per esempio la sfera politica prima di quella economica) smettono di funzionare del tutto o vengono derubricati (per esempio il conflitto Capitale Lavoro rispetto al Conflitto Strategico Interdominanti). Ma questo spostamento produce, allo stesso tempo, nuove implicazioni teoretiche perché è la stessa scala concettuale ad essere attraversata da una nuova luce interpretativa. A cascata ne discendono concetti nuovi, in un certo senso “pratici”,
ma sempre in seno alla Teoria, alla maniera di Althusser, che ci indicano una direzione (“non bisogna andare da questa parte, ma da quest’altra parte… bisogna avanzare in questa direzione se si vuole trovare qualcosa di valido ecc. Ma resta ancora da fare tutto il lavoro”) e che richiamano ad un compito di definizione, affinché concetto e contenuto giungano ad una maggiore corrispondenza. Quest’azione di riempimento concettuale riserva grandi sorprese perché è possibile che i risultati attesi siano diversi od opposti a quelli effettivamente riscontrati. In questo consiste il lavoro teorico, concepito come un lavoro scientifico, finalizzato alla scoperta delle cause che stanno alla base di determinate concatenazioni fenomeniche.
Per concludere, diciamo che lo spostamento dal mondo delle merci (il mercato) a quello del conflitto strategico (nella sfera politica, in quella ideologico-culturale e in quella economica) sblocca molte situazioni di impasse teorico nelle quali il marxismo si è andato ad infilare, in seguito ad un’impostazione che ha assegnato la preminenza alla sfera economica (percepita come determinante in ultima istanza) e al conflitto, all’interno del processo produttivo, tra dominanti e dominati rispetto ad altri elementi tutt’altro che subordinati.
Ne sono derivate previsioni errate o imprecise, che ci costringono ad un ripensamento radicale della maniera in cui abbiamo sin qui concepito il sistema di ri-produzione sociale capitalistico. Pur non potendo oggi contare su una teoria generale di tale società, dobbiamo comunque calarci nella fase ed apprestare, quanto meno, una teoria della congiuntura storica, atta a fornire punti cardinali più stabili per orientare un’azione meno approssimativa di quella presente.
Con ciò non si può pretendere che una teoria generale, totalmente esaustiva e pienamente coerente possa piovere, bella e pronta, dal cielo (questo è quello che pensano gli idealisti che ormai hanno asilo persino nel tempio marxista). Essa è piuttosto il risultato di una riarticolazione razionale delle teorie, per così dire, “regionali” (si pensi al lavoro di La Grassa sulla formazione capitalistica mondiale o globale, discendente dalla segmentazione spaziale tra formazioni particolari) – le quali costituiscono i suoi organi interni – che dovranno essere coordinate attraverso la retroazione della stessa teoria generale, con rettifiche e aggiustamenti, al fine di rispondere a più problemi nello stesso tempo, in maniera ordinata e il più possibile priva di contraddizioni. Ma per arrivare a tanto la strada è ancora lunga… *
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