UN PAESE CHE NON SI ARRENDE, di Giuseppe Germinario
Al Corriere della Sera viene attribuito da sempre l’aura del quotidiano della grande borghesia. A dire il vero, nei momenti storici cruciali del paese, ha fatto sfoggio del peggiore trasformismo piuttosto che del ruolo dirigente responsabile di quei ceti che nel bene o nel male hanno determinato le scelte del paese a partire dall’unità d’Italia. Spesso e volentieri si è schierato dalla parte sbagliata e più codina del paese sino a bersagliare quei pochi campioni, tra questi Mattei, che avrebbero potuto condurre il paese su una rotta scelta in maggiore autonomia. Non ostante tutto, però, non è mai mancata quella minima dose di retorica necessaria a motivare il paese, anche nei momenti più drammatici e di maggior scoramento e la ricerca di risorse personali interne necessarie a condurre la baracca.
È vero che ultimamente, trattando dell’attuale crisi economica, si fatica a individuare esempi validi da esibire di aziende e imprenditori capaci di reggere la situazione. Ce ne sono, però; non molti, ma ce ne sono nei pochi settori importanti rimasti come quelli delle macchine utensili, della meccatronica, ect. Per pigrizia, per approssimazione, per semplice accondiscendenza ideologica ci si limita invece ad illustrare gli exploit imprenditoriali di soggetti bravi a commercializzare, ad adattare, a fornire tutt’al più servizi alla persona o giù di lì. Non una parola sui ceti professionali legati alle attività industriali che in qualche maniera si stanno sviluppando non ostante le vessazioni governative, l’inesistenza di ordini professionali ben abbarbicati altrimenti nelle categorie più tradizionali, né sui settori più avanzati ancora presenti.
In questi ultimi mesi il quotidiano non riesce a svolgere nemmeno questa funzione minimale.
Dario Di Vico, a puro titolo di esempio, intitola un suo editoriale “c’è un paese che non si arrende” http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_19/un-paese-che-non-s-arrende-dario-di-vico_0bee296c-6202-11e2-a69b-1ca806f8d8c9.shtml , apparentemente in linea con la retorica storica del quotidiano.
Tra le mille difficoltà e ostacoli elencati nell’editoriale emerge infatti “la straordinaria vitalità delle nostre aziende esportatrici”. Quando, però, si tratta di pescare l’esempio emblematico, cosa fa il buon Di Vico? Cita il caso del colosso americano Mohawk che ha acquisito una delle più grandi aziende di ceramica di Sassuolo, la Marazzi. Con fare rassegnato rammenta che “noi italiani, salvo qualche lodevole eccezione, in logistica e vendita al dettaglio non siamo mai stati tra i primi della classe”. Devono, quindi, arrivare “i nostri” ad insegnarci altruisticamente il mestiere e, se proprio dovessimo rivelarci particolarmente zucconi, a condurci con mano lungo la strada. “Troppo spesso dimentichiamo che a fare la differenza tra i tedeschi e noi, più che la qualità del prodotto industriale, è l’efficienza della catena distributiva”, recita il nostro. A questo mutamento esogeno, prosegue Di Vico, non corrisponde un rinnovamento nel mercato interno per la debolezza della domanda; la soluzione si innescherebbe con lo sviluppo de “la filiera dell’edilizia e i pagamenti pregressi della pubblica amministrazione”.
Nel grigiore conformista del giornale, una anodina esposizione di problemi e soluzioni che sottende la particolare subordinazione politica e culturale, condita di mesta rassegnazione, della nostra classe dirigente.
L’Italia unita ha conosciuto momenti di subordinazione politica drammatici e convulsi. L’epilogo del fascismo con la sua caduta e l’occupazione militare durante e dopo la seconda guerra mondiale sono stati certamente gli esempi più tragici; ma non è mai mancata la vitalità e la forza di reagire, magari con modalità surrettizie, alla subordinazione o di trovare, quantomeno, un accomodamento accettabile.
Il piano Marshall svolse, per l’Europa Occidentale e in particolare per l’Italia, un ruolo fondamentale nell’avviare la ricostruzione, non tanto per l’entità delle risorse impiegate quanto perché consentì, con il loro intervento concentrato, di riavviare le economie distrutte dalla guerra. Non fu, però, un intervento disinteressato e gratuito. Consentì alla Germania e all’Italia di sviluppare ulteriormente il proprio patrimonio industriale ma vincolandolo esplicitamente al processo di integrazione europea e, alla fine degli anni ’40, alle esigenze dirette della organizzazione militare atlantica pur riuscendo ad innescare, a differenza del blocco sovietico, lo sviluppo dell’industria civile con varie modalità.
In realtà la politica degli americani fu molto più sofisticata di quanto faccia apparire questo schema un po’ troppo rozzo; sta di fatto che gli stessi cercarono in tutti i modi di ostacolare lo sviluppo industriale italiano in almeno tre settori particolari: l’elettronica, l’aeronautica, la tecnologia delle prospezioni petrolifere. Nel primo inizialmente non ci fu storia e quando si avviò successivamente qualche esperienza, come con l’Olivetti e le partecipazioni statali, gli ostacoli frapposti furono enormi. Nel secondo e nel terzo i risultati furono conseguiti aggirando i veti americani con collaborazioni con altri paesi.
Il dibattito nel paese fu allora accesissimo tra i centri di potere, tra i partiti e nelle associazioni: i settori industriali più retrivi, ma in grado di riavviare rapidamente la macchina industriale (tessili, siderurgici privati, idroelettrici) perché meno danneggiata dalla guerra spinsero con qualche successo iniziale per una economia nazionale protetta, dal consumo interno ridotto e dalle esportazioni di prodotti di consumo poco sofisticati adatti ai mercati europei dissestati dalla guerra e a quello di paesi più poveri; sul piano strategico erano molto tiepidi verso l’unione europea e propensi a rapporti diretti con gli americani senza mediazioni comunitarie. Quelli intermedi, legati soprattutto alla meccanica e alla chimica, in particolare la FIAT, con il sostegno esplicito degli Stati Uniti, puntavano allo sviluppo di settori più evoluti ma comunque complementari alla potenza americana e che però abbisognavano di una industria di base (siderurgia, elettricità, gomma, reti energetiche) adeguata. Quanto tale sostegno fu determinante lo rivela il fatto che la FIAT fu la principale beneficiaria dei finanziamenti e delle tecnologie americane. Furono di conseguenza gli spazi che consentirono il mantenimento e lo sviluppo delle partecipazioni statali e l’emergere di alcuni ambiti autonomi di politica estera e di politica industriale con il sostegno iniziale stesso dei più fedeli alleati degli americani, quegli stessi che si concessero qui e là persino qualche scappatella, come la FIAT nell’aeronautica; fu possibile sfruttarli solo per la sopravvivenza dei settori manageriali cresciuti durante il fascismo ma che riuscirono durante la guerra ad annodare relazioni con gli alleati da una posizione relativamente autonoma.
L’Italia visse in sostanza conflitti drammatici ma che rivelarono comunque la vitalità del paese.
A sessant’anni di distanza la situazione è meno tragica, ma grazie a questo più drammatica. Simbolicamente la si potrebbe rappresentare con la cessione prossima di Ansaldo Energia, quella attuale della Avio, a compimento dei processi già attuati negli anni ’90 e con soddisfazione dei propositi americani rimasti insoluti nel dopoguerra. La stessa acquisizione tanto sbandierata da parte di Fincantieri di una analoga azienda coreana di costruzione di navi appoggio nel settore petrolifero sarà probabilmente contestuale alla cessione di Ansaldo Energia (produzione di turbine e sonde) alla Samsung. Segno, comunque, che le considerazioni economiche delle scelte aziendali, non possono prescindere oltre un certo limite da quelle geopolitiche. Sappiamo l’importanza che riveste la Corea del Sud per gli Stati Uniti.
Colpisce soprattutto la mancanza di un dibattito serio che vada oltre la stucchevole diatriba manieristica tra politici dell’austerità e politici della spesa e della domanda.
Dario Di Vico rappresenta degnamente questa mestizia a capo chino.
Ci dice che lo spirito imprenditoriale diffuso nel paese ha bisogno di piattaforme industriali adeguate, ma non dice che queste piattaforme si stanno volatilizzando e nel migliore dei casi stanno per essere sostituite da altre con il cervello ed i centri decisionali posti fuori del paese.
Ci dice che una qualsiasi struttura produttiva, specie se frammentata come quella italiana, avrebbe bisogno di una catena distributiva efficiente, intanto nazionale e poi esterna, ma non dice che la catena nazionale è stata letteralmente svenduta e liquidata e quella internazionale poggia praticamente sulle singole energie individuali degli imprenditori.
Non ha citato, per buona pace sua, il settore della ricerca e la scarsa connessione con le scarse piattaforme industriali esistenti.
Tace su tante cose, il buon Di Vico; tace perché, a differenza degli anni ‘40/’50, non esiste uno straccio di classe dirigente in grado di gestire questi processi e di approfittare degli spazi che il multipolarismo incipiente attuale consente in misura addirittura maggiore rispetto alla condizione di occupazione militare e di sconfitti di allora; tace perché la classe dirigente sostenuta dal suo giornale e dai noiosi corifei di cui si circonda è preposta ad assecondare il processo di degrado del paese perché compromessa dai propri legami di fedeltà, meglio dire, servilismo atlantico e perché espressione di quei ceti parassitari e complementari alle esigenze dei direttori di orchestra.
Si rifugia smarrito nell’indole immodificabile degli italiani, addomesticabile solo dall’esterno, solo perché non intravede la possibilità di formazione di nuovi gruppi dirigenti; non le intravede semplicemente perché da quasi trent’anni sono state distrutte progressivamente le possibilità alternative di formazione; dalle partecipazioni statali, alle università, alle scuole di pubblica amministrazione, ai centri studi strategici sino a garantire l’esclusiva monocultura della Bocconi e dei radi centri finanziari. Più passa il tempo, più sarà complicato ricostruire questo patrimonio perché rischia di sparire persino la memoria di quelle esperienze.
Il problema, per Di Vico, è riavviare la domanda interna e reinnescare il volano dell’edilizia, con la concessione dei mutui e dei pagamenti della pubblica amministrazione. Il solito discorso macroeconomico della domanda che crea l’offerta senza entrare nella qualità della domanda, tanto meno dell’offerta, compresa quella stessa dell’edilizia. Nessuna distinzione tra settori strategici necessari alla potenza di un paese e settori secondari; nessuna distinzione tra settori tecnologici di punta necessari a qualificare e quelli complementari a fungere da volano. Diversamente sarebbe necessario compiere scelte politiche nette che l’attuale ceto politico non si può permettere, pena la scomparsa o la fustigazione; soprattutto una volontà di affermazione ben lungi da permeare i nostri rappresentanti.
Cosa ci propone in realtà Di Vico: il drenaggio progressivo della ricchezza e del patrimonio del paese per mantenere l’attuale struttura decadente e largamente parassitaria del paese e per proseguire sotto varie forme il trasferimento di risorse oltreconfine in cambio dell’auspicio dell’arrivo, senza particolari condizioni vincolanti per i benefattori, di risorse dall’estero (investimenti e piattaforme gestionali) necessarie a compensare parzialmente il drenaggio e a pilotare lo spirito animale italico residuo e persistente nei settori complementari e subordinati.
Per rendere accettabile questa logica presenta le multinazionali come delle amebe pronte ad aderire e svilupparsi indifferentemente laddove sono meglio accolte; sono in realtà corpi articolati con una testa e radici ben collocate che molto difficilmente possono cambiare posizione e alimento; solo le propaggini cercano appoggi mutevoli secondo le opportunità e le convenienze. Solo un terreno particolarmente sabbioso e instabile può consentire di allentare il loro legame con la madrepatria. È il terreno che ha trovato ad esempio la FIAT in Italia.
Per non mettere in discussione se stessi, quindi, si evidenziano le debolezze vere o presunte di tutto un paese. L’importante è proseguire sulle solite certezze.