UN PO’ DI SANA CATTIVERIA, PERCHE’ CE N’E’ BISOGNO (scritto da GLG, 3 mag. ’12)
Dato che vorrei impegnarmi in discorsi di una certa difficoltà, non ho adesso tempo se non per due battute su quest’annosa questione delle ecoballe, della decrescita (del cervello), e via dicendo. Scusate il tono sprezzante, ma non è possibile leggere certe fandonie o certe fanfaluche senza provare forte fastidio per chi vive una vita piena di tutte le comodità della modernità e dei suoi vantaggi comunicativi e poi vorrebbe tornare alla vita agreste e a coltivare il suo campicello. Ma esiste ancora in voi qualcosa chiamato buon senso? Il progresso è indivisibile. Vi pare che vi sarebbe l’informatica, il multimediale, il vostro facebook (che tutti voi usate infarcendolo di fesserie, di obbrobri culturali come mi sono abituato a fare io stesso, purtroppo) e internet in genere (con tutti i vostri blog, spesso uno più idiota dell’altro), se non ci fosse stato il complesso del progresso e dell’invenzione di sempre nuovi macchinari, di nuove fonti di energia (e non solo le “rinnovabili”)? E credete che tutto questo sia stato mosso dall’amore universale dell’Uomo per la Natura e non dal desiderio di fare danaro, di acquisire notorietà, di creare qualcosa di nuovo per cui il tuo nome resta e gli altri finiscono nella merda del Nulla Eterno?
Dopo vi offendete perché vi trattiamo da imbroglioni (per non darvi dei deficienti); oppure dobbiamo invece considerarvi tali? Non credo. Volete vivere nel fango e nella palta delle vie di comunicazione di quando non c’era il progresso industriale? Volete crepare di malattie e di epidemie che facevano fuori fino ai 2/3 di una popolazione? Volete tornare a quando uno ogni diecimila (se va bene) faceva parte di gente “dabbene”, era servito di tutto punto dagli altri, aveva beni e ricchezze a volontà e poteva, volendo, girare tutta Europa o anche oltre (ma con mesi e anni di viaggio) mentre gli altri stavano a sgobbare dall’alba al tramonto, e le donne lavoravano pure di sera e di prima notte? E poi tutti a letto, cioè in mezzo al letame, al piscio, alla puzza, ma almeno con un po’ di tepore, perché la merda appena fatta (soprattutto quella bella molle dei buoi e delle vacche, gli equini sono disastrosi con quelle “pettole” dure, con cui i bambini possono però giocare) tiene caldo per qualche tempo; e mantiene anche l’ambiente ad una certa umidità così non vi si seccano gola, trachea, bronchi e polmoni. E ci si curava con le miracolose erbe, che assicuravano vita “sana e longeva” (io ho avuto ancora modo di vedere quel tipo di vita, pur se solo in minima parte).
Il vero balzo, la svolta nel progresso, è stata comunque la Rivoluzione industriale (1760-1840). Un cambiamento tale che poi non se n’è verificato più uno così socialmente sconvolgente come quello. In tempi storici così rapidi da far uscire di cervello milioni di persone. E posso capire il dramma: non tanto però dei manovali o dei contadini poverissimi e addetti ai peggiori e più pericolosi lavori in campagna, ma semmai di fior di artigiani o di contadini medi; comunque con vita corta e non certo immune da epidemie e morte per inondazioni e catastrofi varie (altro che i morti in Giappone per gli incidenti nucleari!). Posso tuttavia capire, dopo millenni di abitudine ad un lavoro consuetudinario e con secolari avanzamenti minimi, l’impazzimento, la rabbia, insomma lo sconvolgimento della vita e, in moltissimi casi, la miseria improvvisa da cui era colpita gente abituata ad una “povertà dignitosa” (perché fa parte del vostro romanticismo pensare che la povertà sia sempre “dignitosa”, mentre che schifo è la ricchezza, anzi la mera agiatezza, è il diavolo che tenta “Simone nel deserto”).
Voi coltivate il vostro campicello? E vi fabbricate vanghe, zappe e altri semplici strumenti? Li fate allora di legno, non certo di ferro per cui occorrono fonderie e fabbriche di lavorazione del ferro, ecc? E dove trovate un legno buono? E sapete fare questi strumenti con materiali che non vi si spezzino tra le mani? E avete idea di quanto potete scavare (in estensione e in profondità) con quegli attrezzi nel terreno, quanto profondi dovrete mettere i semi (talché, se vi viene un inverno poco favorevole, non siate fottuti per un anno almeno)? E il concime per rigenerare gli elementi necessari affinché la terra sia coltivabile e nutra le piante? Avete animali a portata di mano e contadini che sappiano come far maturare cacca e piscio per il tempo necessario a che non vi secchino tutta la vegetazione (perché spero sappiate che gli acidi si debbono trasformare in sali per nutrire e non bruciare)? Oppure praticate il maggese o altri tipi di rotazione delle terre coltivate per farle riposare? E quanta terra avete, quanti giardini avete per eseguire questa rotazione? Allora siete ricchissimi. Ma tutta quella terra non potete coltivarla e curarla (perché anche quella che “riposa” va curata altrimenti l’anno successivo avrete erbacce a volontà!) da soli. E fate dunque una cooperativa (di almeno qualche centinaio di persone, visto che non userete che semplici strumenti di legno fatti a mano)? Oppure vi viene in testa di metterli al vostro servizio, dando loro la partecipazione al prodotto (così finalmente vi inforcano come meritate già al primo anno, perché non riusciranno certo a mantenersi ad un minimo livello di vita né a sfamare i loro bambini, ecc.)?
E poi non osiate mettere piede in una Farmacia o in un Ospedale! E meno che meno farvi un’operazione chirurgica; altrimenti pretendo che vi facciate il tipo di operazione che abbiamo visto nei Western (con whisky come anestetico). E guai a voi se usate il laser per un distacco di retina. Accettate la cecità, mandata da Dio. Sapete tutto il progresso che sta dietro ad un laser, ne avete una pallidissima idea? E sapete quanta energia consumano decine e decine di migliaia (forse milioni) di laser di ogni tipo; energia che deve quindi essere prodotta? E poi cosa usate per l’illuminazione? Vi proibisco di parlarmi di energia elettrica, le cui bollette crescono per pagare i lauti profitti guadagnati dai “salvatori dell’umanità” che ci stra-rompono con le energie rinnovabili; e per pagare i loro profitti (passati per opere meritorie di “ricerca”, come se non si facesse ricerca anche per le energie tratte da altre fonti e per diminuire il loro consumo nei vari tipi di motori o turbine, ecc. che le utilizzano).
Nemmeno vi salti il ticchio di usare lumi a petrolio, che è secondo voi in esaurimento. Le candele? Fate pena! Cosa dite? Mettete i pannelli solari o una pala eolica nell’orto di casa? E chi li fabbrica? Li fate a mano con semplici strumenti; e scartando sempre l’acciaio, un prodotto troppo moderno? E chi ve li installa? Non ditemi che chiamate aziende con camion dotati di scale allungabili per salire sui tetti se necessario per una migliore illuminazione; gli ingranaggi richiedono una certa dose di “progresso tecnico”, senza considerare gli oli lubrificanti che, se non si vuole un’usura rapida, sono frutto di ricerche (e quindi di complessi laboratori) per i quali sono necessarie altre strumentazioni e materiali adatti alle stesse. E poi la manutenzione con il cambio dei pezzi? Il miglioramento del loro rendimento e della loro fabbricazione a costi (e prezzi) più bassi? E’ uno sfinimento, non si riesce a mettere termine all’evoluzione di ogni più piccola cosa che serve ad un’altra che però serve ad un’altra ancora. E come s’incazzano i fabbricanti di un bene se c’è qualche ritardo nel perfezionamento della produzione di altri che servono a produrre i loro. Imprecano contro i “ritardati mentali”, che ancora non hanno scoperto il miglioramento indispensabile.
E siete mai stati in quelle “Opere pie” che sono le fabbriche che producono medicinali omeopatici? Mai, che so, alla Boiron o cosa similare? Non sapete quali complessi macchinari hanno per inscatolare e riempire boccette di liquidi “miracolosi” (in termini di lauti guadagni a costi di materia prima pressoché nulli)? Che tipo di organizzazione del lavoro modernissima hanno? Mandano in giro miliardi di confezioni con (stra)guadagni, e credete che le facciano a mano e selezionando accuratamente erbe e frutti di “Madre Natura”? Oppure, pensate di mettere le erbe nel vostro orto dietro casa e ottenere tutte quelle necessarie a curarvi? Bene, siamo d’accordo: così c’è speranza che morirete prima.
Vi controlleremo però e guai se andate in un posto medico a farvi curare o cucire quando vi farete qualche grave strappo o maciullamento di carne, perché siete così incapaci che non saprete usare nemmeno gli strumenti di legno senza fare un casino della Madonna. Che il vostro giardino di casa abbia almeno una piccola estensione di terra argillosa. L’argilla fa miracoli (secondo gli “stregoni moderni”); usate impacchi di quella per tutto, anche per farvi ricrescere un dito o una “zampa” se ve li amputate. Sapete com’è fabbricata – e in quali stabilimenti – la miracolosa argilla (magari quella verde, la migliore)? Sempre con macchinari automatizzati, mano d’opera quasi nulla (neanche occupazione forniscono!) e con aggiunta di prodotti medici; o, per carità, solo per rafforzare le sue meravigliose “proprietà naturali” che, da sole, vi danno pochissimo sollievo e in tempi “secolari”.
Ascoltate il mio consiglio; fatevi soprattutto la grappa in casa, s’impara facilmente; ma fatela senza gli alambicchi e strumentazioni di fabbrica. Viene fuori una grappa a 70 gradi e soprattutto con forse fino all’1% di CH3-OH (il venefico alcol metilico), che finalmente vi darà il riposo celestiale ed eterno. Provoca qualche spasmo, dolore addominale, vomito, cefalea, vertigini, confusione mentale; poi annebbiamento, edema retinico, cecità, coma, convulsioni e infine, liberatrice, la morte. In fondo, se siete deboli in nemmeno un giorno ve ne andate; soffrite quindi quasi nulla rispetto a quei lungi soggiorni in Ospedale dove vi hanno tolto un cancro al polmone o alla prostata e poi vi devono fare anche la chemioterapia o simile. Poche ore e siete fuori d’ogni pensiero senza più soffrire di questa maledetta tecnologia. Del resto, dovete crepare per il bene dell’umanità; siete la nuova “peste nera”, quindi crepate per favore, ci liberate anche spazio per il blog, che non può perdere tempo con gli imbecilli o, più probabilmente, gli imbroglioni che vendono un tanto al kilo ai media dei dominanti la loro sboba antimodernista ed eco-catastrofista, con il loro orto dietro casa, il commercio equo-solidale, il no profit, il macrobiotico e, dulcis in fundo, le energie rinnovabili (per finanziare i guadagni dei loro produttori e propagandisti chiacchieroni subiamo continui aumenti delle bollette elettriche, questa l’unica realtà accertata).
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E adesso consentitemi di manifestare, io solo però, perché ve ne mostrerò le ragioni, i miei rimpianti per un’epoca che fu, in particolare quella del dopoguerra e fino al boom iniziato a fine anni ’50. Ma la mia epoca d’oro durò ancora, appena appannata, fino a metà anni ’60. Sono io che debbo rimpiangere quell’epoca (comunque non era il Medio Evo), non quelli della “rimembranza” dei “secoli bui”.
Gli unici ricordi poco piacevoli del periodo riguardano i dentisti, poiché non c’erano ancora i trapani indolori e si otturavano i denti con il piombo dopo averli devitalizzati provocando un male boia, senza anestetico. Da pochi anni era finita l’otturazione con l’oro (almeno uno diveniva “prezioso”). Inoltre, appena finita la guerra (gennaio del ’47), quel cane del mio medico di famiglia (non esisteva, nemmeno in idea, quello “di base”) mi curò un “mal di pancia” con olio di ricino, dal che si originò in poche ore un’appendicite acuta, quasi peritonite. Fui operato all’una di notte da un altro cane di chirurgo, con maschera di cloroformio per anestesia, dieci cm. di taglio, punti che erano graffette come quelle dei fermagli per capelli, ecc. ecc. E senza alcuna forma di riscaldamento né in sala operatoria né nella stanza (però singola); un freddo che ricordo tuttora. A parte questi “incidenti”, ho fatto la vita del “signorino” (anzi gli operai della mia azienda mi chiamavano “paronsìn”, padroncino). Dovevo battermi al coltello per almeno allacciarmi le scarpe da solo, poiché questo era compito dei servi di casa. Il fatto poi che addirittura pretendessi di lucidarmele (guai a chi me le tocca ancor oggi) era motivo di scandalo, di amare considerazioni genitoriali (e dei loro amici) sul mio futuro che si presentava molto problematico.
Non ho mai mangiato così bene come durante la guerra, con un’economia domestica dove nel giardino c’era tutta la frutta che si voleva (salvo banane e agrumi per il clima, ma tutto il resto compresi quintali d’uva, sia da tavola sia quella con cui si faceva il vino), tutta la verdura che si voleva, oltre cento polli e galline che davano almeno 10-15 uova al giorno, tacchini, oche per carne e grasso (per la frittura era una meraviglia), la vacchetta che forniva dieci litri di buon latte, da cui io stesso facevo il burro sbattendolo dentro l’opportuno recipiente, il maiale da sgozzare (una delle scene che mi è rimasta dentro come il peggiore dei film dell’orrore), da cui si traevano prosciutti, salame, strutto (che fritture, ragazzi!), lardo bianco e dolce. Mancava l’olio (ma friggere con burro e strutto e…. grasso d’oca dava ancor più sapore alle pietanze); e pure lo zucchero, sostituito tuttavia dal mosto concentrato (vero miele d’uva), cui avevamo diritto per la fabbricazione del vermut e altri liquori a base di vino.
Nel dopoguerra, sempre meglio, l’azienda (fondata nel 1919) andava bene, avevamo campagne (con relative feste in quelle case, non quelle dei contadini, in cui, così per dire, veniva invitata anche una soprano tipo la Toti Dal Monte per allietare gli astanti). Vita in villa con grande giardino; più provinciale e un po’ meno sontuosa, ma non lontana da quella del “Giardino dei Finzi-Contini” (per chi ha letto il libro di Bassani e/o visto il film di De Sica), grandi partite a tennis (non io, solo più tardi). Se occorrevano documenti in Comune (o anche alla Prefettura o Questura di Treviso), si telefonava ed in pochi giorni arrivava tutto a casa. Quando andavo a visite mediche (dai primari del mio paese o di Treviso o d’altro Ospedale della provincia), il medico usciva dalla stanza, mi vedeva in mezzo ad altre dieci persone o più (molte arrivate prima), e diceva: “O Gianfranco, anche tu qui, che piacere vederti, vieni dentro”. Ad un certo punto, cominciai a rifiutare perché mi vergognavo di queste preferenze; l’ho pagata cara in termini di visite frettolose e freddezza massima.
Ancora: belle macchine, anche sportive (quando venne il tempo) con tutto quel che sarebbe potuto seguire; e non seguì soltanto perché ho sempre avuto resistenza alle “sciacquette” e puttanelle (per necessità, povere ragazzette, c’era povertà vera negli anni ’50!); magari avevo rapporti di 6 mesi, un anno (anche due una volta), ma sempre con del sentimento e una ragazza per periodo. Infine, assai presto (1953) e mentre ancora ero invischiato nella vita di sempre, scelta comunista e graduale “caduta sociale” (all’inizio, ti scusano e dicono “è giovane, deve avere la sua malattia infantile, un po’ di brufoli fanno da sfogo”, poi perdono ogni speranza e ti guardano scuotendo la testa). Comunque, molte frequentazioni a Roma ai Ministeri Agricoltura e Industria e Commercio con mio padre ricevuto da tutti suoi conoscenti e qualche amico o vecchio commilitone (non della Grande Guerra, degli eventi del ’22). Gli alti dirigenti erano rimasti quelli del “ventennio”; trovandosi però nella Capitale, erano più “emancipati”, non si scandalizzavano delle mie idee, anzi dicevano al “papà”: un comunista può sempre essere utile in una famiglia di industriali, se è furbo e ci sa fare; guarda il tal dei tali (abbigliamento), il tal altro (macchine e materiale elettro-meccanico), ecc. ecc. Per inciso, chiesi una volta, in anni più tardi, al mio Maestro come mai avevano mantenuto proprio tra i più alti vertici dei Ministeri il vecchio personale, visto che almeno fino al ’47 erano stati al governo pure loro (e lui era stato Ministro delle Finanze); mi guardò beffardo e mi disse: se mettevamo i nostri si sfasciava tutto l’apparato amministrativo, l’importante è mettere uomini chiave nei posti chiave, da dove si impartiscono le direttive generali.
Dal 1963 divenni “grupparolo” con scelta “filo-cinese”, emmeelleista; però mantenni a lungo ottime conoscenze nei quartieri alti del Pci: quarto piano (direzione) e quinto (segreteria) delle Botteghe Oscure n. 4. Frequentai “Critica marxista” (gruppi di studio sui modi di produzione), Editori Riuniti. Tramite questo viavai conobbi personaggi alla Banca d’Italia, al massimo livello al Mediocredito e poi in giornali, agenzie stampa, e altre cosette. Conobbi un importante imprenditore che aveva, sulla via che porta al Quirinale da via Nazionale, un appartamento eguale a quello di Gianni Agnelli (non ricordo chi stava sopra e chi sotto); voleva presentarmelo e dissi di no, ma ci tengo a precisare che non fu per questioni politico-ideologiche, dalle quali non mi sono mai fatto condizionare come gli altri “gruppettari”, la cui idiozia (o furfanteria, per quanto concerne i capetti) mi ha rotto i coglioni in continuazione da allora.
Tra fine anni ’60 e quelli ’70 ho avuto modo di conoscere molte cose: sul colpo di Stato in Cile e su tutto quello di cui si è parlato recentemente nel blog circa il sedicente terrorismo, il caso Moro e altre cose. Mi sono reso conto della “complessità” dei rapporti tra Pci e ambienti statunitensi, della possibilità (comunque rischiosa) che un “eurocomunista” si recasse magari in Grecia durante il regime dei Colonnelli per incontrare comunisti greci clandestini. E tante altre cosette. Ho avuto, per altre vie, contatti con ambienti Fiat (dopo il 1980 e la sconfitta “operaia”); li ebbi tramite fraterna amicizia con un alto manager, purtroppo della parte industriale che perdette di fronte a Romiti. Dopo il ’90, finita nel cesso ogni politica, mi sono ritrovato nella merda e non mi sono mai adattato a blaterare come quei vermi di rinnegati piciisti (e rimasugli diccì e piesseì) e i vari coglioni degli ambienti berlusconiani. Avevo visto cose migliori e non potevo adattarmi a scendere così in basso.
Ultima notazione. Di “verdi” ed eco-marxisti (molti trotzkisti, che si distinguono sempre in ogni occasione storica) ne ho conosciuti a bizzeffe. Ho cominciato con le polemiche all’epoca del Club di Roma (di cui conoscevo qualche furfante), diretto da Aurelio Peccei e finanziato dalla Trilateral (parallela al Bilderberg, anzi intrecciata). E poi ho continuato a trovarmeli tra i piedi. Non tutti indegni, per carità; un Giorgio Nebbia è una persona preparata e seria tanto per dirne uno; così pure un simpatico personaggio come il fisico Angelo Baracca. Una volta su di lui (difendendolo) ebbi a questionare un po’ con Geymonat nei lontani anni ’80; quindi non sono contro in modo esclusivo e viscerale. Molto meno positivi altri personaggi, di cui mi permetto solo di citare Alain Lipietz perché se ne sta in Francia; individuo intelligente, sia chiaro, ma a mio avviso negativo. E poi quanti ne sono ormai scomparsi (non sto dicendo morti!). Proprio i più preparati e meno chiacchieroni. E però anche altri meno seri: pensate a Rifkin, quello del XXI come secolo dell’idrogeno; ma ci credete ancora?
Un conto è Georgescu Roegen, un conto certi suoi seguaci. Così come un conto è Marx, un altro gli orridi marxisti rimasti oggi a blaterare in suo nome. In ogni caso, adesso basta. Ci sono utopie, di fronte alle quali quelle presunte di Marx relativamente al comunismo sono la concretezza più concreta che ci sia. Non dico che si debba buttare a mare tutto un filone di pensiero. Si gettino però nel cestino dei rifiuti i banaloni che lo portano a conseguenze estreme e ridicole. Come, in altro campo, quelli della crisi dovuta ai cattivi finanzieri, cui tagliare le grinfie; o quelli del signoraggio, dell’impadronirsi della banca o della moneta per risolvere ogni cosa. Sono questi che, in realtà, ci danneggiano, danneggiando pure i personaggi da cui hanno preso le mosse. In quanto marxista, volete che non sappia che sono stati i marxisti (non tutti, ma perfino alcuni che passano per grandi) i peggiori sputtanatori del povero fondatore della critica dell’economia politica, espressione che la maggior parte – sia dei fautori del marxismo sia dei suoi critici – ha interpretato alla lettera senza afferrare la complessità e molteplicità di significati dell’affermazione: il capitale non è cosa, ma rapporto sociale. Sono i seguaci ignoranti che rovinano sempre ogni innovatore.