UN TEMPO I COMUNISTI
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Ci fu un tempo, ormai lontanissimo, in cui i comunisti – al di là del giudizio storico che adesso si potrebbe dare sull’intera loro vicenda storica – si ponevano i problemi della società tutta. Essi si consideravano l’avanguardia della classe operaia; ed essendo convinti che questa avrebbe progressivamente rappresentato la maggioranza della società, o comunque la sua parte decisamente produttiva – mentre tutti gli altri ceti (intermedi) sarebbero vissuti del plusvalore creato da quest’ultima – i comunisti avvertivano su di loro il peso di scelte che dovevano servire al complesso del sistema-paese, salvo che a un pugno di sfruttatori ormai parassiti in quanto meri rentier, semplici finanzieri.
Indubbiamente, lo sviluppo capitalistico non ha dato ragione ai comunisti ancorati all’analisi marxiana del primo capitalismo (quello con epicentro nell’Inghilterra di metà ottocento). La classe operaia in senso stretto – Marx non pensava comunque soltanto alle “tute blu”, bensì all’operaio cooperativo collettivo “dall’ingegnere all’ultimo giornaliero” (parole sue) – è diminuita in senso assoluto e soprattutto relativo; inoltre, perfino nei periodi di maggiore espansione e peso sociale, è stata una classe di rara incapacità egemonica. Tanto è vero che i partiti comunisti, postisi all’inizio come semplice avanguardia della stessa – in quanto “espressione concentrata” della volontà di quest’ultima, (sup)posta quale rappresentante degli interessi generali dell’intera società – si sostituirono poi di fatto ad essa e divennero un puro apparato di potere e di oppressione.
A coloro che iniziarono a capire la profonda degenerazione dei partiti comunisti “storicamente esistiti” nel ‘900, sia al potere (nei paesi del “socialismo reale”) sia all’opposizione nell’ambito del “campo capitalistico”, spettava il compito di analizzare le cause del fallimento e di mutare prassi e teoria che avevano condotto al disastro. Inizialmente, fu comprensibile che si pensasse ad una semplice involuzione, con possibilità di ripresa tramite una dura lotta interna al movimento comunista tesa a rovesciare le direzioni supposte revisioniste (con errato parallelo storico con la lotta primonovecentesca tra socialdemocrazia kautskiana e comunismo leninista). In seguito però, e soprattutto dopo l’indecoroso crollo e implosione del “socialismo”, dopo il rinnegamento e cambio di casacca di tutti i partiti comunisti, sarebbe stato necessario comprendere che il “difetto stava nel manico”, che il fallimento veniva da molto lontano, da una sedicente avanguardia incapace di riflettere sui suoi insuccessi e di mutare radicalmente prassi e teoria della rivoluzione anticapitalistica.
In ogni caso, soprattutto nei paesi avanzati capitalistici, ancora in sviluppo – con addirittura l’avvio di una nuova “rivoluzione industriale”, di grandi innovazioni e apertura di nuove frontiere della conoscenza – malgrado le profezie di crolli e sventure pronunciate da marxisti ormai degradati a gruppetti di fedeli di una “religione” senza più seguito di massa, ci si sarebbe aspettato che nuove schiere di critici della società capitalistica avrebbero abbandonato ogni velleità passata, mettendosi all’ “ascolto” dei nuovi fatti, con la mentalità e il metodo dei comunisti d’antan, che si sforzavano di interpretare i bisogni generali di una collettività almeno nazionale.
Manco per niente. I (sedicenti) comunisti residuati hanno dimostrato di essere come gli anarchici di fine ottocento, ma meno simpatici, più arroganti e protervi. Qualche volta anche patetici, ma più spesso irritanti nel loro voler continuare ad insegnare la
“vera religione marxista”, causa non ultima del loro totale sbandamento e sconfitta. Qualcuno è rimasto abbarbicato alla classe operaia, vista come fosse tuttora composta da tornitori, fonditori, magari perfino ancora minatori; questo qualcuno è rimasto ai tempi di Germinal di Zola. Altri si sono “modernizzati” (sic!), e sono allora diventati mera succursale di forze che hanno vitalità in completamente diversi contesti economico-politici e anche religiosi, in genere tipici di paesi capitalisticamente arretrati; le cui lotte – di liberazione nazionale o almeno di resistenza alle imprese neocoloniali soprattutto (ma non solo) di parte americana – vanno sicuramente appoggiate, ma non possono essere contrabbandate per una prassi politica in grado di coinvolgere le “masse” dei paesi dell’area in cui noi ci troviamo inseriti.
Si è così prodotta una vera degenerazione “imprenditoriale” dell’attività politica. I vari grupponi, gruppi, gruppetti, che si ritrovano nell’agone politico, non fanno altro che applicare le politiche delle grandi, medie, piccole imprese. Ci sono i partiti più grossi, gli oligopoli; ci sono medie imprese che cercano di trovare spazi non proprio infimi, lasciati liberi dalle più grandi per l’impossibilità di sostenere i costi crescenti necessari alla produzione di merci atte a soddisfare i bisogni di fasce abbastanza marginali di consumatori, lasciate un po’ in disparte dalla “produzione di massa”. Infine, ci sono le imprese piccole e piccolissime, alla ricerca spasmodica di qualche “nicchia”, che garantisca quel minimo di sopravvivenza sia pure a scartamento del tutto ridotto. Così abbiamo in Italia FI e DS come imprese di tipo oligopolistico, subito dopo AN e Margherita e appena appresso Rifondazione, Lega e UDC. Poi via via dei partiti piccoli, ma che riescono a far valere con i più grossi una loro “utilità al margine” non del tutto trascurabile. Infine i “disperati”, i gruppetti e gruppettini di comunisteggianti, di terzomondisteggianti, di non violenti che mimano malamente Gandhi e di violenti che assicurano la sopravvivenza a qualche “centro sociale”, ecc. E tutti, in catena (“di Sant’Antonio” ), trattano sottobanco quella anche minima fetta di reale o potenziale elettorato che possono controllare a favore di qualche “impresa” di maggiori dimensioni.
L’idea che sia da ripensare una politica generale per l’intero paese non sfiora nessuno, nemmeno gli “oligopoli”, che tuttavia si possono sempre accordare per dividersi in qualche modo il “territorio” (sociale): il lavoro dipendente ad uno (magari quello del settore pubblico ad un collaterale); il lavoro autonomo ad altri, ma differenti a seconda che si tratti di professionisti o invece di commercianti o di “artigiani” (microimprese dei settori trasformativi), e così via. I manager poi la pensano diversamente, quelli del giornalismo o dello spettacolo si sentono intellettuali più raffinati e pretendono di avere una speciale rappresentanza qualificata. I più ridicoli sono gli avanzi che si dichiarano ancora comunisti, qualcuno anche marxista. Fanno una fatica boia a piazzarsi ma, in un sistema capitalistico con pur sempre buone risorse finanziarie, qualche piccolo sito dove alloggiare si può sempre trovare; tanto più che viviamo in un paese che, per una parte, distrugge la sua storia, ma ha pure qualche settore sociale sensibile a conservare l’archeologia industriale o perfino quella ancora precedente.
Credo non si debba più seguire gente simile, per quanto pochi si sia. Si fosse anche in 5 o 10 soltanto, è bene riprendere la “vecchia” mentalità (e metodologia) di pensare ai problemi più generali. Siamo talvolta costretti, dall’autentica cloaca politica con cui ci scontriamo ogni giorno, ad interessarci di bassezze, nelle quali, lo ribadisco, si distingue particolarmente la sinistra, trasformista, opportunista e ipocrita come in tutta la sua storia; peggiorata in questo dopoguerra dall’emergere del cattocomunismo, che forse, in
un primo tempo, ha avuto una sua dignità in quanto unione di due “fondamentalismi”, ma che è adesso ridotto ad una accozzaglia informe di due pratiche politiche untuose, parrocchiali, meschine, senza strategia, solo dedite alla menzogna e al raggiro, la cui immagine visiva abbiamo in: Prodi, Rutelli, Marini, Fassino, D’Alema, Veltroni, Bertinotti, Diliberto, Pecoraro Scanio, Mastella, Boselli, Bonino, ecc. Si tratta di una riedizione – certo in mutate, meno drammatiche ed invece farsesche, condizioni storiche – della badoglian-monarchia dell’ 8 settembre 1943, con la sua viltà e infamia; una classe sedicente “dirigente” che tradì l’alleato e passò dall’altra parte, ma senza dare al popolo (e all’esercito) alcuna indicazione precisa, se non quella di “resistere e difendersi da attacchi da qualsiasi parte provenissero” (capolavoro, si fa per dire, di codardia e di pilatesco atteggiamento di fronte ad ogni possibile conseguenza della propria precipitosa fuga e abbandono di responsabilità). La sinistra attuale è l’erede di questa classe “dirigente”.
Nel mentre indichiamo al ludibrio e alla vergogna il ceto politico italiano, i gruppi dominanti (la GFeID) che lo comanda, il suo elettorato decerebrato e cocciuto, dobbiamo però dedicare sempre più tempo ad analisi di lungo respiro, a vari livelli di “astrazione teorica”, onde capire la situazione nazionale e internazionale nell’attuale fase di notevole, pur se ancora squallido, movimento. Bisogna aprire le nostre menti ai problemi più generali del paese e del contesto più complessivo in cui è inserito.
28 marzo