UN ULTIMO CHIARIMENTO, POI UN PO' DI SILENZIO

 di P. Pagliani

Un ultimo chiarimento, poi me ne starò zitto per un bel po’ a studiare gli ultimi due libri di Gianfranco La Grassa. I suoi precedenti lavori li conosco, altrimenti non avrei parlato di “Paradiso da cui nessuno ci scaccerà”. E dato che questo “Paradiso” è per l’appunto antideterministico, non si vede come e dove avrei accusato Gianfranco di determinismo. Non mi è mai passato per la testa e nessun medico mi ha ancora diagnosticato la schizofrenia.

Per simmetria, però devo avvisare Gianfranco che se anche lamento, ad esempio, la situazione nelle campagne indiane derivanti da vent’anni di sviluppo liberista (prima c’era sviluppo capitalistico ma di altro tipo), non sono nemmeno lontanamente un terzomondista.

Gianfranco valuta che le rivolte contadine saranno “gli ultimi sussulti di un movimento “antico”, probabilmente rinvigoriti, del tutto temporaneamente, dai processi di sviluppo”. Bene. Non voglio obbligare Gianfranco a leggere il mio “Naxalbari-India. La rivolta nella futura terza potenza mondiale” e quindi riporto per comodità una conclusione ivi contenuta, a proposito della guerriglia maoista in India che attualmente raccoglie sempre più ampi settori contadini:

La lotta tra la guerriglia maoista e le forze di repressione si sta configurando come un conflitto a bassa intensità. … . A quanto si può prevedere questo è il destino della guerra di guerriglia che potrà caratterizzare il prossimo decennio, a meno di cambiamenti drastici della situazione che a nostro modo di vedere non dipendono però dalla guerriglia stessa. 

Non mi sembra una professione di fede terzomondista. E se qualcuno vuole andare sul sito “Ripensaremarx” e leggere il mio contributo sull’India, può rendersi conto che reputavo già sbagliate le premesse teoriche dei maoisti indiani riferite all’India del 1967. E quindi non si capisce come potrei pensare che siano corrette oggi, nel 2008, e men che meno come possano avere una valenza mondiale.

Ribadisco però la mia idea che gli spazi di soluzione possano essersi ridotti. Dico “possano”, perché non ne ho la certezza. E anche se lo fossero, per quanto mi riguarda da ciò non se ne potrebbe comunque dedurre alcuna tesi neo-catastrofista.

Se durante lo sviluppo occidentale l’emigrazione costituì una valvola di sfogo delle tensioni sociali nelle campagne, se la corsa all’West negli USA costituì per un lungo periodo una valvola di sfogo delle tensioni sociali nell’industria della costa orientale, mi chiedo semplicemente quali saranno le valvole di sfogo delle tensioni sociali che in Asia sono destinate ad investire più di un miliardo di persone, dato che le Americhe e l’Australia non li accoglieranno, e men che meno la California. E questa domanda non la faccio con un riferimento confinato e isolato alla numerosità di questi ceti sociali, ma anche in relazione, ad esempio, alla possibilità che le nuove innovazioni tecnologiche e di processo possono avere per risolverli e in relazione alle forze telluriche messe in moto dalle dinamiche geostrategiche.

E, sicuramente, questa domanda non la faccio pensando a una rivoluzione con la falce e il martello.

 

Sono d’accordo con G. P. che ciò che accade in Eurasia (un termine che uso per comodità, con riferimento, ad esempio, alle categorie geostrategiche di Zbigniew Brezinski e non ai miti neonazisti, ovviamente) va valutato per cercare di cogliere le possibilità di "deviazione". E infatti lo faccio da tempo. Ma sono sempre in guardia a non ridurre tutto a geostrategia, perché la geostrategia usa necessariamente categorie di grana molto grande che possono nascondere le contraddizioni che questi cambiamenti epocali inducono nelle singole nazioni, sulle loro dinamiche sociali e i risultati e le reazioni di queste contraddizioni.

La grande lezione di Lenin è che per cogliere le “deviazioni” bisogna essere anche un po’ strabici e vedere le tendenze storiche in grande e le contraddizioni specifiche che esse generano.

Certo, anche la periodizzazione  di Nanni Arrighi è basata su grandi categorie (e quindi – sia detto incidentalmente – è del tutto vero che l’analisi di Gianfranco del ruolo e delle dinamiche della finanza sono più articolate e politiche di quelle di Arrighi). Come ipotesi metodologica Arrighi fa partire la storia del capitalismo  dalle città-stato italiane, ovvero quando il potere territoriale e quello del denaro iniziano a separarsi e ad esprimere logiche diverse anche se sempre intrecciate, a volte in modo contraddittorio.
E’, per l’appunto, un’ipotesi metodologica che serve a capire l’origine di questo scambio necessario ma contraddittorio tra due logiche e due poteri (sempre segmentati al loro interno) differenti. E, ad ogni modo, anche Marx arrivava indietro fino a Venezia nel cercare l’origine del capitalismo. Io non leggo tutto ciò come una teleologia. Ogni esposizione storica può apparire come una teleologia. Ma Arrighi stesso avverte che lui non sa se la crisi sistemica attuale sfocerà in un nuovo ciclo o genererà qualcos’altro. Niente di sovradeterminato, quindi.

Ad ogni modo bisogna ammettere che abbiamo appena sgombrato il campo da importanti equivoci, ma siamo solo all’inizio. Non solo abbiamo frantumato la sfera di cristallo del marxismo storicista, ma abbiamo anche perso gli occhiali. E tocca farsene degli altri.

Non è facile. Occorre molta ricerca sia teorica, sia sul campo. E molto dibattito, non solo “tanta pazienza”.

Penso che ci siamo liberati da ostacolanti  miti fondatori e dalla confusione e dagli errori che essi hanno generato. E ribadisco che molto del merito sia da attribuire a Gianfranco. Spero però che non ci si voglia rinchiudere in un piccolo accampamento sicuro alzando lance contro chi non è ostile ma, al contrario, è interessato a vedere cosa sta succedendo dentro.

 

Piero Pagliani