UNA AGGIUNTA, scritto da Giellegi il 2 aprile ‘12
1. Importante l’articolo di Andrea B. per far capire lo svolgimento degli eventi, tramite i quali il Pci (il sedicente eurocomunismo) è divenuto un pezzo forte dell’atlantismo. Dalle dichiarazioni di Napolitano, riportate alla fine dello scritto, si evince chiaramente il cambio di campo del partito attraverso i colloqui (pretesi culturali) avuti dal dirigente piciista durante il suo viaggio negli Usa e successivamente quelli, di cui si ammette la segretezza, con l’Ambasciatore americano a Roma, Gardner. Il presdelarep sostiene che l’atteggiamento “responsabile” (così si chiamava allora ogni passo in avanti verso l’atlantismo) del Pci era in stretta connessione con la lotta condotta contro le Br, un aspetto della quale fu il rifiuto di ogni trattativa – e magari anche la liberazione simbolica di un(a) brigatista, come era stato in fondo deciso – per salvare Moro; anzi “qualcuno” trasmise alle BR la falsa notizia che ogni indugio era finito e la polizia avrebbe fatto irruzione l’indomani nel “covo”, notizia che provocò il precipitare fatale della situazione.
Dalle “mie parti” il cambio di campo si chiama in altro modo, così come quello dell’8 settembre ’43 compiuto dai Savoia (di cui qualcuno è ancora buon erede) e da Badoglio. Tuttavia, il partito fu all’epoca considerato da certi ambienti Usa (e da altri) soltanto “moderatamente” filoamericano. Ufficialmente gli si attribuivano anzi posizioni vicine all’Urss, sia pure con contrasti sempre più marcati. Questi riguardavano soprattutto la politica estera ma anche le linee direttrici della “costruzione del socialismo”; considerata invece effettiva in Urss e in altri paesi di quel “campo”, e messa in conto a lungo quale programma politico dai partiti comunisti “occidentali” (a parte, appunto, il Pci).
Si tenga inoltre presente che tale partito – in cui esisteva ancora, sia pure solo nominalmente, il “centralismo democratico” – era una vera “Chiesa”, non poteva conoscere apertamente la divisione in correnti organizzate. Il vertice dirigente doveva compiere quindi una continua opera di mediazione tra le diverse anime esistenti, il che era ritenuto la forza di quel partito mentre in realtà comportava un grande dispendio di energie per tenere unito ciò che era ormai diviso. Importante è stata l’ideologia che ha cementato la “base” del partito, a lungo operaia e contadina, grazie alla fede in un comunismo, di cui nessuno conosceva più la sostanza. La grande opera preparatoria al cambio di campo – supinamente seguita da molti in perfetta buona fede, altrimenti non sarebbe riuscita – fu la trasformazione dell’obiettivo comunista in una “costruzione del socialismo” a tempo indeterminato; e la riduzione del socialismo a proprietà statale dei mezzi di produzione più la pianificazione dall’alto, che veniva ideologicamente considerata il pieno successo del coordinamento e cooperazione tra i “produttori associati”.
Da questa “trasfigurazione” prese in fondo le mosse l’opera togliattiana di mutazione del Pci. La proprietà statale divenne propensione per i settori “pubblici” dell’economia (ereditati dal fascismo e in mano alla Dc, che li rafforzò con l’Eni e poi l’Enel), una propensione spesso ignara dell’effettiva gestione manageriale delle imprese di detti settori. La pianificazione fu attenuata – per correggere le distorsioni “autoritarie” dell’imperio centralista – in “riforme di struttura” e in “programmazione democratica”, formule di cui mai si chiarì veramente il contenuto. Si rimase, del resto volutamente, nel generico, nel profluvio di parole incollate l’una all’altra con discreta, ma non eccelsa, maestria senza che mai si trasmettesse una concreta indicazione politica.
Il tutto per adeguarsi con lenta progressione all’atmosfera economica dominante nel capitalismo occidentale (con centro negli Usa), evitando però di perdere di colpo la base elettorale “lavoratrice”, che si dovette traghettare con cautela verso il “cambio di campo”, innanzitutto mortificandone e disgregandone con gradualità le illusioni ideologiche di stampo socialistico: ad un certo punto tra comunismo, socialismo, sinistra, ecc. si fece un enorme pasticcio, un minestrone indigeribile e di cui era impossibile distinguere bene gli ingredienti (i vari gruppi, sociali e politici, ci ficcavano dentro ciò che volevano, ciò che era nelle loro preferenze). Solo così si riuscì – alla fine del processo, in parte autonomo e in parte accelerato e facilitato dal crollo del campo socialista e dell’Urss – a mantenere ancora un certo ascendente sulla base lavoratrice, ormai totalmente amorfa e ridotta a “miscuglio informe”, dando in realtà l’egemonia del “complesso” al “ceto medio semicolto”, gonfiato dai “compromessi” (chiamati storici) raggiunti in merito alla spartizione dei vari rivoli di spesa dello Stato (e dei vari Enti locali), con cui si sono espansi il settore impiegatizio della sfera “pubblica” più quelli detti “culturali” tipo cinema, teatro (poco), e soprattutto giornalismo, editoria, mass media in genere, ecc. alimentati appunto da fiumi di questa spesa, che non è servita a creare autentici blocchi sociali, ma solo grossi grumi di interessi corporativi.
Comunque, non è possibile qui (e del resto è un compito da far “tremare i polsi”) analizzare l’importante processo, che ha creato una peculiarità italiana. Questo è stato il vero risultato dell’esistenza del “più importante” partito comunista occidentale. E’ quindi necessario capire che il Pci ha dovuto attraversare l’intero processo sempre mantenendo, fin praticamente al tramonto della prima Repubblica, un sostanziale “centralismo” (per evitare effetti umoristici non definiamolo democratico). Le posizioni del partito erano, di tempo in tempo, decise dal vertice supremo in un’operazione che rappresentava una sorta di vettore di composizione delle forze in campo. Ovviamente, un vettore sui generis, giacché le “forze in campo”, a loro volta, erano gruppi politici verticistici, formatisi in epoche diverse e attraverso rapporti diversi con l’Urss e “quell’area”, gruppi che svolgevano politiche sempre avvolte nel più ampio raggiro, menzogna, finzione, presentazione di una maschera per nascondere il volto effettivo.
Di conseguenza, quando il Pci fu definito, da ambienti a conoscenza dei fatti, “moderatamente filo-americano”, era ufficialmente ancora filo-sovietico (ma molto critico verso il “socialismo reale” per le carenze “democratiche” in questo riscontrate e che erano le sue stesse nella vita interna del partito); in realtà, era percorso e scosso dalle subdole manovre delle varie cosche che lo componevano, dalle quali risultava – ma non certo in superficie, alla luce del Sole – la tendenza al “tradimento” (questo il termine più esatto per definire le operazioni del tipo “Savoia-Badoglio”). In tale tendenza non vi era alcuna moderazione; essa, anzi, veniva perseguita con particolare decisione. Tuttavia, occorreva cautela, bisognava mentire e raggirare, mettere sempre più in minoranza i settori che ancora resistevano sulla sponda del filo-sovietismo. D’altronde, tali settori non avevano alcuna particolare idealità, erano filo-sovietici con lo stesso spirito (di interessi ben materiali, legati a molti “affari” con l’est) degli ambienti filo-americani. Questi ultimi prevalsero perché gli Usa erano predominanti; e non solo nel “campo” di loro appartenenza, bensì ormai anche mondialmente, malgrado la falsa apparenza creata da alcuni fenomeni tipo quello vietnamita.
Chi aveva la testa sulle spalle capiva (già a fine anni ’60, inizio ’70) che l’Urss era entrata in declino a partire dal momento in cui si credé al suo apogeo (lo “sputnik” del 1957); ed era ormai affetta da stagnante “cristallizzazione”, che nascondeva (ripeto quanto affermato in un precedente intervento) un’acuta lotta intestina, cui partecipavano, in modo subordinato ma non del tutto inessenziale, pure i vertici dei paesi euro-orientali con i loro Servizi, ecc. Sia dunque chiaro che Gorbaciov non spuntò all’improvviso, fu il prodotto di un lungo processo di progressivo indebolimento. Il Pci era ormai degenerato da tempo. In un certo senso aveva iniziato con la “svolta di Salerno” (Togliatti, 1944), che si fece passare, con l’aiuto determinante dei settori filo-occidentali (interessati a trattare i piciisti come al di fuori dell’orizzonte “democratico” dell’area), per una scelta compiuta in pieno accordo con Stalin (anzi su “suo ordine”). Credo ci sia stato soltanto qualcosa di vero; Togliatti, una volta “in salvo” in occidente, ci “mise del suo”, e ben ampiamente.
Tuttavia, ci fu senz’altro una qualche “soluzione di continuità” dopo la sua morte (1963) e, soprattutto, con l’ascesa di Berlinguer alla segreteria (1972) mediante l’appoggio di una “sinistra” sedicente radicale e l’aiutino dell’ormai ex amendoliano oggi presdelarep. Il Pci “moderatamente filoamericano” fu dunque ancora per un certo periodo di tempo ufficialmente filo-sovietico (sia pure in modo sempre più critico) mentre, in realtà, si lanciò occultamente verso gli Usa. Il partito era assai impegnato a tramare il suo voltafaccia, a ben coltivare la sua futura rappresentanza degli Stati Uniti (soprattutto degli ambienti democratici di questi ultimi) con modalità di particolare obbedienza; ovviamente attendendo l’occasione propizia per sostituire il regime Dc-Psi, presentatasi infine quando l’assetto mondiale mutò completamente tra il 1989 e il 1991.
2. Sull’affare Moro è bene aggiungere qualche breve considerazione. Escludo intanto ogni tesi che vorrebbe il dirigente democristiano in collegamento stretto con il KGB o altri Servizi di quell’area. Qualsiasi uomo politico di rilievo ha contatti con ambienti – e di conseguenza anche con comparti dei Servizi che a questi fanno capo, contatti in genere tenuti da comparti dei Servizi del paese cui appartiene l’uomo politico in questione – dei paesi geopoliticamente più importanti. Se così non fosse, ci troveremmo di fronte ad un personaggio di assai scarso spessore e intelligenza, come si è mostrato essere Berlusconi, troppo spesso “braccato” dai nostri stessi Servizi che evidentemente rispondono ad altri “stimoli” provenienti da settori politici stranieri (quasi sempre statunitensi). Soprattutto, lo statista Dc ha vissuto una vicenda senz’altro drammatica e tale da suscitare l’emozione della gente, per cui i mass media ne hanno trattato con lo spirito di una “spy-story”, di un bel soggetto cinematografico. Tutto sommato, l’affaire è stato solo un episodio di quegli anni e delle vicende connesse alla lotta “tra i due campi”, che nel contempo era anche una lotta tra fazioni all’interno di ognuno dei due, ma soprattutto in quello in cui si andava indebolendo il suo centro (l’Urss) e si era verificata e approfondita la scissione tra le due grandi partizioni del “comunismo”, la più grossa capeggiata dall’Unione Sovietica e l’altra dalla Cina.
Moro non è stato un obiettivo preciso alla stregua di quel che fu Mattei, anche lui comunque non ucciso dalle “sette sorelle” così come si preferì credere, un altro bel soggetto da film. Credo che Moro sia stata una delle due-tre personalità di rilievo del mondo politico italiano, le cui mosse furono seguite per mesi o più (un simile rapimento non si organizza in poco tempo) onde decidere infine quale fosse l’obiettivo meno difficile cui mirare. Forse la scelta è caduta su di lui in poco tempo, ma, lo ripeto, dopo lunga attesa e pedinamento dei movimenti quotidiani delle possibili “prede” prescelte. Operazioni di questa portata non erano sicuramente nelle capacità delle BR; ed è molto probabile che gli “studi preliminari” siano stati compiuti con provenienza “da est” piuttosto che “da ovest”.
Ciò che conta, a mio avviso, non è tanto la scelta finale dell’obiettivo quanto le reazioni che essa mise in moto. Importante è rilevare come i socialisti craxiani (e settori tutto sommato minoritari della Dc) volessero salvarlo mentre il Pci lo preferiva morto. Non penso che Moro sia stato ucciso perché era favorevole al compromesso tra Dc e Pci, foriero del “trasloco” di quest’ultimo partito nel campo filo-atlantico; ma nemmeno, in modo speciale, per il motivo contrario, perché ne fosse magari fiero oppositore. Certamente, però, se il Pci ha scelto con estrema decisione di non salvarlo, è assurdo pensare che il rapito fosse elemento chiave per favorire il cambio di campo di tale partito; tanto più che la “giravolta” era già in pieno svolgimento da tempo e trovò il “passaggio” ben noto (viaggio di Napolitano negli Usa) proprio durante la carcerazione di Moro.
Se vogliamo che la storia ci insegni qualcosa, non dobbiamo enfatizzare il caso Moro, dobbiamo prenderlo come un tassello dell’insieme delle vicende che portarono il Pci a “tradire” la sua tradizionale posizione nel campo della lotta ideologica e politica in atto nel mondo bipolare. In effetti, non bisogna dimenticare che quei trasformisti sono ancora oggi in piena attività. Certo non si tratta più di affabulare una fantasiosa “via italiana al socialismo” (vera chiave di volta del “mutamento di campo”); ormai il socialismo è sparito dall’orizzonte salvo che per alcuni ritardati. Oggi appare in chiara luce che i voltagabbana sono semplicemente un’assai attiva “quinta colonna” degli Usa in Italia e, tramite essa, in Europa. E il loro “tradimento” è sempre condito di sostanziale appoggio a certi ambienti americani (e ai Servizi che essi muovono) nell’intimorire e coartare chiunque si metta di traverso; per qualsiasi motivo lo faccia, anche per interessi personali come, ad es., un Berlusconi.
I vecchi piciisti – in questo è vero che sono sempre gli stessi, ma non come comunisti, come piciisti appunto – mentono, raggirano, pervertono ogni pur minima verità, pugnalano alle spalle, sono esseri umani temprati apposta per i più vili tradimenti. Il caso Moro – che essi vollero comunque morto perché era preferibile che così fosse; in ogni caso, si eliminava uno che aveva individuato le loro trame, sempre meglio non averlo più tra i piedi – ci insegna e ci ragguaglia circa la paura che ha preso il Cavaliere, ormai divenuto un coniglio privo di dignità, un altro che ha “tradito” tutti, compresi i suoi elettori totalmente attoniti e smarriti.
La storia passata va dunque rivisitata nel suo complesso, oltre la vicenda in cui fu coinvolto lo statista Dc, per capire, se possibile, come siamo sprofondati nella cloaca odierna. Un punto da sondare è precisamente il “tradimento” che venne perpetrato (sempre mascherato comunque) soprattutto a partire dagli anni ’70, ma che ha origini ancora più lontane. Il “tradimento della Resistenza”, che alcuni volevano vendicare, è in realtà l’inizio del mutamento di campo con l’accettazione del carattere antifascista della resistenza (questa volta in rigoroso minuscolo!). Agitando l’esempio greco, dove nella guerra civile (1946-49) i comunisti di Markos furono battuti dall’intervento angloamericano, si condannarono i cosiddetti “secchiani” (da Pietro Secchia) per primitivismo politico, per non aver voluto tenere conto della lezione di Yalta. Non è esattamente così, si mentì per poter attuare i propri trasformismi. Certamente vi fu chi non aveva compreso come non fosse possibile trasformare la Resistenza in movimento di rivoluzione sociale. Da tale impossibilità non discendeva però automaticamente la trasformazione di un evento (che lo stesso Cossiga ammise essere stato per l’80% promosso e sostenuto dai comunisti) da lotta con intenti di trasformazione sociale a semplice “cacciata dei fascisti”.
Questa cacciata fu ottenuta dagli angloamericani, questo va da sé. Tuttavia, nel dopoguerra, pur accettando politicamente la battuta d’arresto dovuta a Yalta – e dunque un’Italia “assegnata” al campo “occidentale”, anche per l’occupazione del territorio da parte delle truppe “alleate” – era possibile ripensare il problema della lotta sociale e dell’opposizione ad una classe dirigente (savoiardo-badogliana) di vili traditori, di ambienti felloni che non erano semplicemente il capitalismo, bensì una sorta di “borghesia compradora”, di perfetti conniventi con la subordinazione allo straniero. Avemmo qualche sprazzo di autonomia grazie all’esistenza di settori strategici (l’Iri ereditata dal fascismo e poi l’Eni, ecc.), di cui si è scritto qualcosa di sensato, ma forse non ancora tutto il necessario.
Una cosa è però ormai chiara. Il “tradimento” dei piciisti – quelli che ancor oggi sono in campo per lo straniero Usa – è consistito nell’andar oltre la svolta togliattiana, nell’accettare che la Resistenza (comunista all’80%) fosse dichiarata soltanto antifascista; nel qual caso erano morti inutilmente migliaia di comunisti perché il semplice antifascismo, privo di aneliti sociali, risaliva soltanto al tradimento dei Savoia, al tradimento dell’8 settembre. Questo mero antifascismo è stato appunto il tradimento della Resistenza, cui alcuni gruppi politici vollero rimediare negli anni ’70. Tuttavia, lo tentarono con improntitudine politica, con un “soggettivismo” che li condusse invece a favorire le mene piciiste per il completamento del loro trasformismo e il passaggio di campo verso gli Usa.
Comunque, avete capito. E’ tutto da riscrivere. Siamo stati dentro un grande inganno. Negli anni ’70 non ci furono delinquenti – o meglio, questi ci furono tra la “gente per bene”, tra i politici e giornalisti antifascisti e reazionari tipo quelli che diedero vita a La Repubblica, ecc. – ma semplicemente, per usare un linguaggio leniniano, degli “estremisti infantili”; cioè giovani anche generosi eppur “troppo frettolosi” nelle loro analisi (interne e internazionali) che li condussero a scelte dettate da un’impazienza in grado di fornire ulteriori chances ai “traditori”. Oggi ne abbiamo un altro, “l’ominicchio di Arcore”. Ripensiamo la storia per capire il presente. Analizziamo (e riscriviamo) l’evolversi delle vicende passate relative ad un “grande tradimento” e alle nefandezze commesse (di cui Moro è solo un episodio) per comprendere quelle attualmente in svolgimento su scala forse ancora più ampia e con intensità più acuta. Perché oggi tentano di ridurci realmente ad una semplice “espressione geografica”. I “sovranisti”, se ci sono, “battano un colpo”; le nostre orecchie sono abbastanza buone, odono gli eventuali “rintocchi”. E speriamo non siano funebri!