UNA DIVERSA INTERPRETAZIONE di Giellegi, 20 marzo ‘12
1. Il 1° marzo un certo fourfive lasciò in questo blog un lungo commento in 4 puntate sui problemi degli anni ’70 (e seguenti), caso Moro, ecc. Ha scritto molte cose interessanti, dimostrando buona conoscenza dei fatti e assai probabili contatti con certi “ambienti”. Mi permetto, tuttavia, di asserire che ha utilizzato alcune notizie alla guisa “cossighiana”, attuando qualche distorsione e dando così, alla fine, un’idea diversa dei “fatti” (sempre soggetti, per carità, ad interpretazioni ambigue). Soprattutto, a mio avviso, non si può credere che si parli seriamente di una Unione Sovietica in cui si pensò, tra il ’72 e l’84, ad una annessione dell’Europa occidentale. Già nel 1970-71, durante il mio anno di “specializzazione” con Bettelheim a Parigi (all’allora Ecole Pratique des Hautes Etudes, oggi Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales) – un corso di studi con molte buone “informazioni” non solo “accademiche”, date le conoscenze del Maestro specialmente in Urss, e poi in tutti paesi dell’est Europa, nei paesi “socialisti” anche extraeuropei (Cina e Cuba, in particolare) e in altri paesi tipo India, Egitto, Algeria, ecc. – era già stato preso atto dell’ingrippamento del “socialismo reale”; e in modo speciale dell’Urss, in cui il periodo brezneviano rappresentò il periodo di incubazione, all’inizio silenziosa, dell’implosione avvenuta di fatto già a partire dall’ascesa di Gorbaciov (1985).
Ed è qui, detto per inciso, il motivo del mio, pur affettuoso, allontanarmi dalla “scuola” del Maestro che ebbe, per volontà a mio avviso un po’ fideistica, il desiderio di credere alla “perestrojka” (e alla “glasnost”), mentre io continuai a “teorizzare” la falsità ideologica della stessa e a prevedere il prossimo “botto”; ovviamente non “profetizzando” né il quando né il come. Semplicemente ricordando che il “socialismo”, oltre a non esserci mai stato nella forma sostenuta ideologicamente dai nuovi dominanti (in ciò seguivo le lezioni del Maestro), era finito da lunga pezza anche come creazione di una forte potenza, contraltare degli Usa. Quindi il crollo era per me vicino; e non per le sciocchezze propinateci circa la forte spesa in riarmo imposta da Reagan (quante menzogne ci hanno raccontato, perfino con la complicità degli “ultrasinistri”!), bensì per ragioni di stasi e “cristallizzazione” delle strutture dei rapporti sociali e del sistema economico sovietici. I “fatti” mi diedero ragione in pochi anni; è ovvio, però, che non sono un indovino, mi sono soltanto servito meglio di altri di quanto si poteva venire a sapere per vie traverse (e senza dubbio incerte). Figuriamoci, quindi, se l’Urss, addirittura fino all’84, poteva pensare ad annessioni dell’occidente europeo. Era in pieno fallimento, altro che storie!
Già l’ascesa di Krusciov fu l’antecedente del più tardo disastro gorbacioviano. Tutte le colpe delle difficoltà dell’Urss vennero addossate, durante il XX Congresso del Pcus (febbraio 1956), ad una sola persona, che in realtà aveva rappresentato l’unico gruppo sovietico capace di condurre, sotto il manto ideologico della “costruzione del socialismo”, l’accumulazione originaria. In realtà non socialista, ma con forte processo di industrializzazione a spese delle campagne, dove fu attuata con evidenti forzature la “collettivizzazione” delle terre. Il successo fu evidente in termini di potenza, ma ottenuto con metodi da non definire socialisti; nemmeno, tuttavia, propriamente “capitalistici” (quelli del capitalismo dei funzionari del capitale, statunitense), e quindi con debolezze intrinseche – incapacità di sollecitare e sfruttare le strategie imprenditoriali di tipo manageriale – che alla fine provocarono le varie contraddizioni, prese timidamente in considerazione da Stalin nel ’52 (egli morì l’anno dopo) come “imperfezioni” legate alle diverse forme di proprietà: quella statale e quella kolkoziana (collettiva). Comunque, devo lasciar qui perdere la questione per quanto sia rilevante per la storia del “socialismo”.
L’ascesa di Krusciov non risolse per nulla i problemi e lasciò sussistere all’interno del Pcus una sorda lotta. Due episodi cruciali – la rivolta e repressione in Ungheria (ottobre ’56, pochi mesi dopo il XX Congresso), che tutti raccontano senza analizzare i “due tempi” in cui si svolse, andamento significativo della lotta acuta al vertice dell’Urss; e la liquidazione, un anno dopo, della prima “banda dei quattro” (Molotov-Malenkov-Scepilov-Kaganovič), accusata impropriamente di stalinismo (almeno per quanto riguarda il secondo e terzo nominati), liquidazione svoltasi ancora una volta in “due tempi”, pur essi dimenticati – facevano capire, a chi voleva capire, l’involuzione dell’Urss, nascosta malamente con l’avventurismo del posizionamento dei missili a Cuba (ottobre ’62), e successiva umiliante ritirata, di cui approfittarono poi i nemici del “precursore di Gorbaciov” (sia chiaro, tenuto conto dei tempi del tutto diversi tra il 1956-64 e il 1985) per liquidarlo nel 1964, installando appunto un vertice dirigente di “compromesso cristallizzante” (con l’unica fortuna di godere sempre dei servizi di un notevolissimo Ministro degli Esteri come Gromyko, che esercitò la funzione dal 1957 al 1985, anno dell’ascesa di Gorbaciov).
2. Nel periodo brezneviano sembrò che tutto si svolgesse tranquillamente in Urss; anche la crisi cecoslovacca apparve affrontata con unità d’intenti, mentre non fu così. Non lo fu nel Pcus e tanto meno nei partiti comunisti euro-orientali. E ciò si rifletté pure sui Servizi sovietici, e ancor più su quelli dei paesi detti satelliti; in particolare i due principali: nella DDR (la Stasi) e in Cecoslovacchia (non ricordo il nome, ma non credo importi). E’ facile intuire che i Servizi sovietici risentirono della lotta al Kremlino, sorda e, lo ripeto, cristallizzata come lo era il sistema sociale ed economico. I vertici di certi paesi europei dell’est non si sentirono affatto sicuri degli “equilibri” esistenti a Mosca; e i loro Servizi cercarono quindi di impedire, per quanto consentito dalle loro condizioni di dipendenza, “dialoghi” pericolosi del tipo di quelli ad un certo punto instauratisi tra Krusciov e Kennedy, interrotti poi bruscamente dal primo con l’avventuristica azione dei missili a Cuba, che tuttavia fu una manovra diversiva per parare le critiche dei più ortodossi fautori del sovietismo, cercando in tal modo di mantenersi al potere; operazione non riuscita tanto che, dopo l’assassinio di Kennedy nel ’63, cadde anche Krusciov l’anno dopo.
Tuttavia, lo ripeto, l’ascesa di Breznev non fu la vittoria tout court dei suddetti ortodossi, bensì un compromesso assai più instabile di quanto sembrasse, come dimostra pure il solo apparente unanimismo durante la crisi cecoslovacca del ’68 (che si fece durare fin troppo, almeno a giudizio di alcuni settori, anche fra i vertici dei “satelliti”). Tali vertici “satellitari” non si sentirono dunque sicuri e lavorarono, lo si “intuisce”, assieme a quella parte dei Servizi sovietici che stavano dalla parte degli “ortodossi”. Anzi questi ultimi si servirono, per le loro manovre, soprattutto dei Servizi tipo Stasi e cecoslovacchi. Ritengo quindi vero – non assodato perché ciò non può mai accadere – che i Servizi “orientali” furono quelli che più si misero in allerta quando già verso la fine degli anni ’60 si manifestarono sintomi di “dialogo” (molto nascosto) tra il Pci e gli Usa (in genere con gli ambienti “democratici”, ma non esclusivamente). Un dialogo che comunque non poteva certo sfuggire nemmeno ai politici italiani, soprattutto democristiani.
Sempre per inciso, ma perché ha un significato di “segnale”, ricordo che durante la dittatura dei Colonnelli in Grecia (1967-73), il Pci, approfittando anche dei numerosi studenti greci nelle Università italiane, tenne rapporti con il Pc greco clandestino; e di questo va dato atto in senso molto positivo (almeno secondo la mia opinione). In tale partito la maggioranza netta era filosovietica; solo una frazione minoritaria si avvicinò alle posizioni poi dette eurocomuniste, tenute soprattutto dai comunisti italiani; posizioni che, in modo criptico e mascherato, iniziarono a spostarsi verso l’“atlantismo”. Esse furono confuse all’epoca, facendo un gran calderone, con la parte “revisionista” del movimento comunista internazionale, a capo della quale si vedeva l’Urss, mentre si pensava che l’altra parte, minoritaria, fosse la marxista-leninista con alla guida i comunisti cinesi (anch’essi scissisi nel ’66 in “linea rossa”, maoista, e “nera”, liusciaociista e denghista, considerata a sua volta revisionista). Una semplificazione deleteria, poiché i più vicini ai socialdemocratici, nel Pci, erano i cosiddetti “miglioristi” (ala Amendola); essi erano però, come poi furono in fondo i socialdemocratici tedeschi sotto Brandt e Schmidt, per l’ostpolitik. Erano insomma ormai favorevoli a strutture capitalistiche, anch’essi critici del “socialismo reale” di tipo sovietico, ma comunque favorevoli al mantenimento dell’alleanza con l’Urss e in contrasto, dunque, con una politica di spostamento verso gli Usa.
Diverso fu l’atteggiamento della parte del Pci che alla fine divenne il reale “eurocomunismo”; questa frazione era fondamentalmente “filo-atlantica” e quindi premeva per un effettivo cambio di posizionamento geopolitico, da attuare però molto nascostamente dati i forti legami, non solo politici, esistenti da decenni tra i vari partiti comunisti. Ebbene, come detto, il Pci teneva rapporti con il Pc greco clandestino; questo sembrava quindi in fondo un atteggiamento contrario internazionalmente agli Usa che ufficialmente appoggiavano i Colonnelli. Si tratta però sempre del frutto di un atteggiamento fondamentalmente manicheo e semplicistico o, se si preferisce, antagonistico-duale. Gli Usa, ad esempio, sono molto più elastici e spesso pronti a giocare su vari tavoli; si veda come giostrano oggi tra certi settori islamici ed Israele.
Per quanto riuscii all’epoca a capire, ebbi l’impressione che, in qualche occasione, gli aiuti del Pci ai comunisti greci clandestini si dirigessero possibilmente non verso i settori espressione della maggioranza filosovietica, ma verso quelli, minoritari, che furono poi parte dell’eurocomunismo. Il sottoscritto, quando gli sembrò di rilevare un simile comportamento, rimase semplicemente sorpreso; ho invece la sensazione che i Servizi di cui sopra (Stasi, cecoslovacchi, ecc. e quelli sovietici) ne sapessero molto di più e ben conoscessero gli “sfizi atlantici” di quella parte del Pci, che prese poi la direzione del partito nel 1972 con l’appoggio dei “sinistri”. Questi ultimi, almeno parzialmente, furono forse in buona fede, poiché nutrivano qualche simpatia verso i “cinesi”, ma soprattutto, e questo la dice comunque lunga sulla ambiguità di fondo di simili “ultrarivoluzionari”, verso i “democratici” alla Dubcek, ecc. E’ ovvio che erano di fatto antisovietici più che anticapitalisti come si dichiaravano.
A quel tempo, credo sia stato sottovalutato un altro aspetto. Gli “amendoliani” erano maggioranza nel partito (e furono i più duri nel chiedere l’espulsione dei “critici”, tipo quelli del “Manifesto”, avvenuta nel novembre del ’69); eppure, nel ’72, persero la partita con Berlinguer, l’“eurocomunista” (il sotto sotto filo-atlantico, e il cui orientamento era certo ben noto ai Servizi euro-orientali già più volte citati). Perché i “miglioristi” persero? La mia impressione fu che il loro n. 2 non si rivelò troppo fedele; e più tardi (non molto, nel 1978) divenne “visitatore” di (e conferenziere in) Università americane, dove svolse in realtà precise funzioni per il Pci della nuova linea berlingueriana (proprio mentre Moro era in cattività; detto senza alcun sottinteso maligno, solo per rilievo necessario).
3. Nella primavera del ’68 alcuni di quelli che poi furono tra i primi dirigenti delle BR entrarono nel Pcd’I (m-l). Alla fine di maggio, a Padova, ci fu la presentazione di un libretto (pubblicato dalla Libreria Feltrinelli), in cui il sottoscritto e altri due “amici” si rivolgevano agli m-l, criticando quel presunto partito. Fummo decisamente attaccati da uno di quei “primi dirigenti” (ancora non tali, è ovvio). Poi io andai a Londra e quando tornai in autunno seppi che dal Pcd’I (m-l) – spaccatosi, subito dopo, secondo l’usanza del tempo, in “linea rossa” e “linea nera” – i suddetti “primi dirigenti” erano usciti: essi andarono a Milano dove fondarono il Collettivo politico metropolitano (embrione del futuro movimento clandestino), le cui tesi grosso modo ricordo e altrettanto ricordo di averle criticate. In effetti, mi sembrò di “intuire” in quel frangente che, durante l’estate, dovevano esserci stati contatti tra questi individui e alcuni “ambienti” dell’est europeo. Su questo punto dunque concordo con “fourfive”: le future BR nacquero anche tramite contatti con tali “ambienti”, non con quelli americani.
Non sono sicuro del (non) dichiarato attentato a Berlinguer (a Sofia) [http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=attentato%20a%20berlinguer%20a%20sofia&source=web&cd=1&ved=0CCUQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.bulgaria-italia.com%2Fbg%2Fnews%2Fnews%2F01703.asp&ei=l2toT9m7MsTb4QSan_mmCQ&usg=AFQjCNEUpWdfVqJCmQlex_plYk_xYcCimg], ma non vi è dubbio secondo me che, dopo l’ascesa alla segreteria del partito di costui, si accentuò “ad est” una certa “pressione” in Italia per mettere in difficoltà il Pci. Nelle prime BR – che sostengo senza mezzi termini essere state un movimento politico e non un’accolita di delinquenti, per cui io fui tra coloro che parlarono di “compagni in errore”; sia per quanto riguarda l’analisi della situazione internazionale con la supposta prossima guerra mondiale tra Usa e Urss, sia per quella riguardante la politica interna con l’altrettanto supposto imminente colpo di Stato reazionario – vi furono anche nuclei operai e di altri lavoratori, critici verso la politica del Pci. Non credo che in quel movimento vi fosse l’esatta percezione della portata della svolta filo-atlantica, e non solo revisionista, compiuta nel Pci da quella frazione che poi divenne maggioritaria con Berlinguer negli anni ’70 e successivi, fino all’aperto voltafaccia dopo il crollo del “campo socialista”.
Penso invece che gli “ambienti” euro-orientali fossero abbastanza bene a conoscenza di come stessero in realtà le cose. E probabilmente sapevano che lo slittamento filoamericano dei “comunisti” italiani non era certo il più decisivo fattore, ma comunque poteva influire in senso negativo su quanto si muoveva, dietro le quinte, nella parte orientale; nei paesi “satelliti” (importanti furono più tardi i sommovimenti in Polonia nell’80) e anche in ambienti sovietici, del tipo di quelli che vennero di nuovo in luce con Andropov e poi vinsero con Gorbaciov. In questo contesto si inserirono gli avvenimenti degli anni ’70 e il “terrorismo” brigatista, degenerato poi soprattutto negli anni ’80 per l’ormai insostenibile debolezza dell’impianto strategico gravemente errato fin dall’inizio. Una debolezza che fece da controcanto alla vittoria degli ambienti del “tradimento” filoamericano, uno dei punti salienti del quale fu la (secondo me) ricercata (dalla maggioranza berlingueriana) sconfitta alla Fiat nel 1980 (“marcia dei 40.000”), evento da considerarsi la “consegna alla storia” della ideologica e ormai fasulla direzione “rivoluzionaria” da parte della “Classe” (per antonomasia), che alcuni scriteriati vorrebbero ancora riesumare, con ciò ormai favorendo “oggettivamente” (con la pantomima dell’internazionalismo), e forse non solo oggettivamente, la dipendenza italiana dagli Stati Uniti.
Tornando al tema principale, sembra allora che io sia in fondo d’accordo con “fourfive”. C’è però un “piccolo” punto di distorsione, che cambia abbastanza il significato del tutto. Per capirlo, bisogna accennare a qualcosa, che ancora a mio avviso non è stato compreso fino in fondo. Si tratta della strategia politica Kissinger-Nixon (non portata fino in fondo per opposizioni interne) con il suo tentativo di scompaginare gli “equilibri” (ormai molto dissestati) nel “mondo socialista”. Quest’ultimo era diviso da un pezzo, a partire dal 1956 (XX Congresso Pcus), con accentuazione nel 1963 – violento scambio di accuse tra comunisti sovietici e cinesi, da noi vissuto del tutto erroneamente quale ripresa della lotta tra neorevisionismo (“kautskiano”) e neoleninismo – e infine ulteriore sconvolgimento con la rottura interna ai vertici cinesi tra linea rossa e nera in seguito alla rivoluzione detta culturale, durata in fondo tre anni (’66-’69), ma con strascichi fino alla morte di Mao (settembre ’76) e rovesciamento e imprigionamento della “banda dei quattro” dopo un mese.
Il viaggio di Nixon in Cina (febbraio ’72) fu rilevante e favorì gli accordi di pace per il Vietnam (Parigi, gennaio ’73), con sostanziale ritiro delle truppe Usa, anche se evidenti acuti attriti interni agli Usa ritardarono tale processo, portarono al Watergate (giugno ’72- 9 agosto ’74, giorno delle dimissioni di Nixon per evitare l’impeachment), cosicché l’effettiva fine della guerra vietnamita avvenne nel ’75 in modo piuttosto rovinoso per gli Stati Uniti. Non vi è dubbio, credo, che quella strategia Kissinger-Nixon ebbe comunque effetti a lungo raggio, portando il Vietnam nell’area Urss, almeno in un primo tempo, accentuando dunque i contrasti Urss-Cina con ulteriori esiti negativi nel “campo socialista” sempre più stagnante. Adesso non è il caso di cercare di ricostruire il caos sostanziale di quegli anni, le cui conseguenze più corpose divennero visibili assai più tardi. C’è solo da dire che gli “storici”, anche critici degli Usa, non hanno mai raccontato bene quanto è avvenuto in quel periodo. Non hanno raccontato l’opposizione e il malcontento di certi “ambienti” americani (del Pentagono e altri), che provocarono pure lo scandalo in grado di travolgere Nixon (solo nel 2005, se non erro, si è accertato che la famosa “gola profonda” dell’affaire era un agente della Cia; e per conto di chi agì costui?). Nemmeno si è chiarito fino a che punto – malgrado l’impantanamento delle trattative di pace, per cui ci fu ritiro delle truppe statunitensi dal Vietnam ma non dei “consiglieri militari” Usa, con la successiva vittoria “sul campo” dei nordvietnamiti – quella strategia, pur tra tortuose vie, ebbe infine ricadute rilevanti in gran parte del “socialismo” (Urss ed Europa orientale). Lasciamo da parte la questione.
Tuttavia, anche in tal caso non in modo del tutto lineare e tuttavia abbastanza coerente, la strategia statunitense per quanto riguarda l’Italia degli anni ’70 fu improntata, con prudenza, ad accogliere le avances del Pci soprattutto dopo il colpo di Stato in Cile. E qui non mi soffermo sull’analisi che ne fece Berlinguer (tre articoli su Rinascita), con apparente condanna dello stesso, ma ammissione implicita che bisognava rassegnarsi al posizionamento italiano nel campo diretto dagli Stati Uniti (con la Nato, loro emanazione militare), tenuto pure conto dell’ormai nota (ai Servizi) debolezza dell’Urss con la sua situazione economico-sociale “cristallizzata”. Altro che intento sovietico di annettere l’Europa occidentale. Tutti i Servizi, occidentali e orientali (e quindi anche il Pci), sapevano quali erano ormai, in prospettiva, i rapporti di forza tra le due superpotenze.
4. Nella seconda metà degli anni ’60, la Dc, ma Moro in particolare, stabilì ottimi rapporti con l’allora presidente cileno Frei (democristiano). Fu anche messa in piedi una agenzia stampa che ben presto si ramificò: prima in Sud America, poi anche in Asia e Africa (cioè nel Terzo Mondo), infine in tutto il globo (ma ormai in anni in cui tale Agenzia aveva conquistato una sua autonomia e “viaggiava” per conto suo). Era anche “anticonformista” (negli anni ’70 e seguenti di essa si servì largamente Il Manifesto; cito il fatto solo per dare un’idea della faccenda). In ogni caso, non va enfatizzato l’evento; l’ho voluto ricordare soltanto per far capire che i rapporti tra Moro e Frei furono per alcuni anni ottimi, il che favorì quindi una penetrazione “affaristica” (imprenditoriale) italiana in quello che era il “giardino di casa” degli Usa (non credo comunque che essi ne fossero molto infastiditi).
Nel 1970 prese la presidenza in Cile Allende; Frei ebbe un brusco revirement e si mise nettamente dalla parte degli Stati Uniti, appoggiando il successivo colpo di Stato dell’11 settembre ’73. I rapporti tra Moro e Frei non furono più quelli di prima. Per quanto è dato di saperne, finché restò in sella Allende, il Pci intrattenne buoni rapporti con questi e, ovviamente, condannò ufficialmente il successivo colpo di Stato militare di Pinochet. In effetti, procedo sempre a “intuito”, non penso che quest’ultimo abbia avuto particolare “affetto” per i piciisti. Tuttavia, come già rilevato, il Pci invece continuò i suoi intrallazzi nascosti con gli Usa, prendendo spunto dai fatti cileni per volgerli a favore di tali “nuovi” rapporti; il tutto sfocerà appunto nel viaggio “napoletaniano” del 1978. Di questo tramestio piciista, gli ambienti democristiani (e non solo) furono sicuramente bene informati; alcuni (penso soprattutto a Fanfani e proprio a Moro) non provarono certo soddisfazione nel constatare tale andazzo, checché ne dicessero “in pubblico”. Altri (tipo il solito Andreotti) furono melliflui e sornioni, altri (penso a Cossiga) favorevoli, nel senso che stettero al gioco strategico geopolitico statunitense.
E’ sempre possibile sbagliarsi, per carità; tuttavia, continuo a ritenere che il più efficace oppositore del “compromesso storico”, così come si venne pian piano configurando, sia stato proprio Moro (cioè dati ambienti democristiani). Non penso ad una opposizione frontale e senza condizioni. Tuttavia, credo si sia intuito il possibile drastico mutamento d’indirizzo per quanto concerne l’appoggio, che certi “ambienti” statunitensi avrebbero fornito ai diversi settori dell’arco politico italiano, se si fossero verificati dati eventi del tipo di quelli precipitati nel 1989-91 (con crollo socialistico e dissoluzione dell’Urss). Negli anni ’70 è ovvio che gli Usa puntassero sul Pci solo in prospettiva, dato che in esso esistevano ancora importanti frazioni filosovietiche; far entrare il partito nel governo di un paese aderente alla Nato non era politicamente (e militarmente) senza rischi. In futuro però le cose potevano cambiare, come in effetti cambiarono. E, in tal caso, il Pci sarebbe divenuto più utile delle altre forze politiche per il momento ancora preferite dagli Usa. Vediamone brevemente il perché.
Il primo motivo è ovvio e di facile comprensibilità. I rinnegati di un dato orientamento politico – che per lungo tempo si oppose quasi frontalmente al mondo “occidentale” e perseguì, almeno a parole, il fine della rivoluzione sociale, anticapitalistica – sono sempre i più docili strumenti; anche perché sono ricattabili, hanno sempre molti “altarini” da nascondere. Chi è stato fedele a lungo, ed è convinto di essere ancora utile ai “padroni” per molto tempo, ad un certo punto si consente qualche “libertà”, punta a qualche vantaggio proprio. Se poi rappresenta comunque vasti strati della popolazione di un paese, cerca di sfruttare pure a loro favore alcune opportunità, per ottenere le quali sgarra almeno di un po’ rispetto ad un comportamento “servile”.
Non posso dilungarmi adesso in proposito, ma chiunque non sia un ottuso manicheo sa bene che, per fare gli interessi di dati ceti sociali, è necessario compiere azioni che portano un utile pure a chi le compie, azioni passibili allora – qualora cambi il clima politico e quelli in sella oggi vengano sbalzati per dare il governo ad altri – di essere perseguite “penalmente”. Solo i cialtroni del “ceto medio semicolto” (la base elettorale della sedicente sinistra) – che non sanno nulla di come si lavora e si produce veramente ricchezza, della quale loro godono solo da parassiti e “magna-magna” – menano scandalo quando gli eletti (dello schieramento nemico, mai quelli del proprio) vengono investiti, per motivi politici (appunto la loro sostituzione in quanto “servi”), dal turbine giudiziario.
5. Questo è però un motivo importante ma non il più importante. Il secondo interessa di più e richiederà forse in futuro un’analisi meno frettolosa. Qui ne tratteggio soltanto i punti salienti. Nel dopoguerra, “grazie” (si fa per dire) alla presenza dei “liberatori” (angloamericani) nel nostro territorio, si affermò quello che ho più volte definito “antifascismo del tradimento”. Si tratta di quella massa di opportunisti (alcuni malauguratamente ancora vivi) che furono fascisti fino ai primi anni di guerra, guidati dai “badogliani” dell’8 settembre (’43). Fra questi, fondamentali furono gli industriali (e finanzieri), con fin d’allora in primo piano la Fiat. Tuttavia, già durante la Resistenza si fecero avanti i settori cattolici (legati alla Chiesa), sicuramente ancorati ai “liberatori” e tuttavia da non confondere con i “badogliani” e i liberali. Per le varie posizioni interne al Cln, si veda l’intelligente rappresentazione datane da De Bosio nel film “Il terrorista” (1963), su cui sarebbe piacevole discutere.
Dopo la guerra, liquidato il Governo di unità nazionale (buttando fuori i comunisti) e dopo il 18 aprile ‘48, furono i cattolici a guidare “le danze”. Più tardi vennero “recuperati” i socialisti – banderuole com’è nel loro ruolo storico – colpendo però una parte dell’imprenditoria privata (guida dell’antifascismo “del tradimento”) con la nazionalizzazione dell’energia elettrica (Enel, 1962). Già prima, e non si deve negare una certa intelligenza nella vasta operazione, ambienti cattolici avevano acquisito il controllo dell’IRI (creata dal fascismo) e messo in piedi l’Eni (Mattei nel 1953). I settori Dc più accorti tesero sempre a controllare l’industria di Stato (i cui alti dirigenti furono i Petrilli, i Cefis, i Saraceno, ecc. oltre ai vertici Eni, solo in parte indeboliti dopo l’assassinio di Mattei nel ’62). In tali settori, non si cedette molto potere nemmeno ai socialisti; neppure dopo l’ascesa di Craxi nel ’76. Questi, a mio avviso, commise l’errore di non insistere troppo per avere il controllo di pezzi dell’industria pubblica, poiché tentò invece di favorire l’ascesa di alcuni settori di imprenditoria privata, mai però in grado di impensierire troppo i vertici della Confindustria, a lungo controllata dalla Fiat agnelliana.
In ogni caso, per molti decenni lungo l’arco della cosiddetta prima Repubblica, vi fu sorda lotta tra l’industria privata e quella pubblica; quindi tra i settori industriali guidati da Agnelli e quelli legati o quanto meno molto vicini alla Dc. Fino agli anni della segreteria Berlinguer, gli ambienti maggioritari del Pci (in questo non vi fu divisione sostanziale tra i “sinistri” e i togliattiani e poi i “miglioristi” alla Amendola) difesero le prerogative dell’industria pubblica. Tuttavia, con una visione errata di quest’ultima; molto vetero-“marxista”, cioè di quel pseudo-marxismo che sempre ha confuso socialismo con statalismo, la proprietà statale con quella dei “produttori” associati (il lavoratore collettivo cooperativo), che era la reale concezione marxiana. Quando il Pci cadde in mano ai berlingueriani si produssero – in seguito a quanto già detto in merito al graduale e nascosto spostamento verso gli Usa – cambiamenti non colti dai critici del piciismo. I critici in questione continuarono a pensare all’esistenza della lotta tra i “kautskiani” (identificati soprattutto proprio con i settori amendoliani, tutto sommato ancorati all’alleanza con l’Urss) e i leninisti; e furono a lungo convinti che certi settori operaisti o quelli tipo Manifesto, ecc. (rivelatisi i peggiori opportunisti e banderuole) fossero potenziali alleati.
L’accordo sulla scala mobile (1975), con il patrocinio di Agnelli-Lama, e poi l’inizio del “compromesso storico” (governo Andreotti del 1976, ecc.) furono colpi ben messi a segno dall’imprenditoria privata, ancora però contrastata da quella pubblica, cioè da importanti settori “cattolici” (Dc in definitiva). Resto convinto che Moro e Fanfani (forse memore delle sue vecchie lezioni sull’“economia corporativa”; mi si consenta una battuta) furono tra i più convinti a difendere l’industria pubblica, minacciata da quella privata guidata da Agnelli mentre si veniva svolgendo l’ormai ambigua politica del Pci in fase di cambio di campo. I piciisti, autentici trasformisti, si congiunsero, pur se ancora subdolamente, ai settori dell’antifascismo del tradimento. La nascita di Repubblica (1976) è una conseguenza di tale evento.
E’ ovvio che anche Craxi, per motivi di “competizione” (e per non essere sostituito al governo dal Pci), fu tra gli avversari dell’industria privata condotta da Agnelli (con cui polemizzò accesamente, ma non sui termini reali dello scontro, da tutti coperti) e di dati ambienti statunitensi (ciò spiega Sigonella, ad esempio). Interessante l’attacco al leader socialista da parte dei piciisti (coadiuvati dagli “ultrarivoluzionari”), travestito da fascista in molte vignette; si trattò dell’antecedente storico di quello stesso tipo di attacco portato pure a Berlusconi dagli “antifascisti del tradimento”, ormai raggruppati nell’ultimo ventennio (dopo il crollo dell’Urss) attorno ai rinnegati del Pci e postisi al servizio della Confindustria e degli ambienti (democratici) americani.
Tornando adesso a trattare degli eventi cruciali degli anni ‘70, chiarisco innanzitutto che a mio avviso la sorte di Moro non dipese soltanto dall’avere capito dove tendeva il Pci. Egli fu senz’altro consapevole del netto, per quanto mascherato, avvicinamento tra la maggioranza di tale partito e l’imprenditoria privata guidata da Agnelli (pur con contrasti di facciata per non perdere di colpo gran parte della base elettorale, costituita da operai e salariati); comprese dunque il pericolo rappresentato, almeno in prospettiva, dalla politica berlingueriana per la supremazia della Dc in Italia. Tuttavia, il crollo socialistico era lontano, nessuno poteva predire l’andamento futuro della storia, pur se era probabilmente messo in conto, dagli strateghi americani, l’indebolimento progressivo dell’Urss e perciò lo spostamento dei voltagabbana dell’eurocomunismo verso l’atlantismo.
In ogni caso, nutro pure io, come “fourfive” la convinzione che nell’affaire Moro abbiano messo lo zampino anche i Servizi orientali. Di un fatto sono però piuttosto sicuro: egli non aveva alcuna intenzione di lasciar procedere il “compromesso storico” lungo il percorso che stava seguendo. Di conseguenza, è per me del tutto assurda la tesi secondo cui lo statista democristiano fu eliminato perché favorevole all’avvicinamento tra Dc e i piciisti. E’ del tutto illogico sostenerla considerando che, proprio durante il rapimento e la detenzione del dirigente Dc (quasi due mesi), si ebbe il viaggio di quello che di fatto fu l’“ambasciatore” del Pci negli Stati Uniti, viaggio sui cui risvolti politici vi sono state, alcuni anni fa, affermazioni piuttosto esplicite dell’allora Ambasciatore a Roma Gardner. In definitiva, la vicenda Moro non va interpretata così come ce l’hanno raccontata in modo del tutto truffaldino. Questo è un punto fermo.
6. Ho in altra occasione ricordato alcuni fatti ormai noti (ma non certo ai più) di quel rapimento. Si sapeva che il “detenuto” era in via Gradoli. La sera prima della soppressione, si dice che vi fu una riunione dei vertici Dc, indetta da Fanfani, in cui si decise di annunciare il giorno dopo la liberazione di uno o due brigatisti, quale atto di buona volontà per la liberazione del leader democristiano (posso ritenere maliziosamente che si erano già avuti contatti discreti con chi sapeva come comunicare con i carcerieri?). Posso continuare ad essere malizioso? Qualcuno trasmise ai brigatisti in via Gradoli la falsa notizia che si sarebbe entrati di forza il giorno dopo nel loro appartamento; e che quindi scappassero lasciando “sul terreno” il cadavere. In ogni caso, adesso qui interessano meno le supposizioni rispetto alle posizioni tenute dai vari schieramenti.
Fanfani, nella Dc, e Craxi furono nettamente per la trattativa e il salvataggio di Moro. Andreotti, mi parve di capire, si tenne in posizione intermedia. Cossiga fu contro. Molto più tardi, ormai dopo la fine della prima Repubblica, egli sostenne di essere pieno di rimorsi per la sua posizione di allora. Per carità, anche un Cossiga può provare rimorso. Io però continuo a seguire il ben noto consiglio andreottiano circa il “pensare male”. Cossiga ebbe “rimorso”, a mio avviso, perché comprese che Moro aveva visto “più lontano” di lui, aveva quanto meno intuito il pericolo rappresentato, per il “regime” ancora allora in sella, dalla segreta svolta filo-Usa del Pci. Da buon democristiano conosceva la doppiezza dei “comunisti” quando decidono di “tradire”; non se ne fidava affatto, altro che mediare in loro favore, in favore di un accordo Dc-Pci. Per questo, sia Fanfani che Craxi volevano che Moro si salvasse; dopo avrebbe regolato certi conti in sospeso, anche all’interno del suo partito, e ancor più con i piciisti. I quali furono, non a caso, i più ostili, direi forsennatamente ostili, ad ogni e qualsiasi trattativa.
Prendevano così due piccioni….ecc. Si erigevano a cultori assoluti del senso dello Stato ed eliminavano quello che rappresentava in realtà un ostacolo nel loro cammino di voltagabbana. Ripeto che Moro capì una serie di comportamenti piciisti fin dal colpo di Stato in Cile, tramite percorsi che “non cerco di intuire”. Egli era comunque un inciampo per il Pci. Pensare che fosse favorevole agli accordi con tale partito, e che fu eliminato per questo motivo, è un vero cazzotto assestato ad ogni logica e al buon senso. Favorevole all’accordo con il Pci, che tuttavia non volle trattare per liberarlo? Certo, la “sinistra dei rinnegati”, l’“antifascismo del tradimento”, ha fatto passare la favoletta del meraviglioso senso dello Stato di questi “bei tomi”. Nessun senso dello Stato. Moro sapeva quel che avevano in testa; probabilmente conosceva bene una serie di pourparler già avuti in gran quantità con ambienti Usa, poiché un viaggio come quello del loro “ambasciatore” non si prepara se non in molti anni di accurato e silenzioso “mutar di campo”.
Evitiamo fraintendimenti. Non penso alla Cia (o Fbi ecc.) come principali organizzatori del rapimento, ecc. Così come credo poco al ruolo delle “sette sorelle” nell’eliminazione di Mattei. Sia quest’ultima, sia quella di Moro, sono con ogni probabilità maturate più sul piano interno che su quello “estero”, che tuttavia diede aiuto. L’eliminazione non avvenne, in ogni caso, perché Moro era favorevole ad accordi Dc-Pci ma per il motivo esattamente opposto; il fattaccio è stato fondamentalmente preparato in ambienti filo-atlantici. Poi, possono aver dato una mano anche Servizi orientali. Molti erano interessati alla massima confusione, in un momento in cui chi sapeva, era ben a conoscenza delle mene del Pci. Pochi però sapevano, l’inganno per la maggioranza – e pure per noi coglioni, tutti “in piedi” contro i colpi di mano della “reazione” – era molto ben riuscito. Il Pci era revisionista, filosovietico; bisognava combatterlo in nome del neoleninismo (che era il maoismo, il “filo-cinesismo”) e, in questa battaglia, anche certi ambigui “ultrasinistri” e “ultrarivoluzionari” (poi riciclatisi a ondate successive, ondate non ancora terminate nemmeno adesso!) sembrarono allora potenziali alleati; non più adesso, sia chiaro, abbiamo capito che fottuti sono, cialtroni e ambiziosi opportunisti, alcuni dei quali hanno continuato in tutti i decenni successivi a mascherarsi e a manifestarsi, lo ripeto per i sordi, in successive ondate.
Questa la mia interpretazione (“intuita”) della vicenda Moro e, più in generale, di quelle degli anni ’70 e successivi. Oggi può sembrare quasi inutile “ripescare” quegli eventi. Gli assetti internazionali e nazionali sono totalmente mutati. Verissimo. Tuttavia, i rinnegati e traditori del passato sono ancora in lizza, per quanto “scorbacchiati”. E, come detto più volte, la risposta data finora (e già a partire dal tracollo della prima Repubblica) a questi subdoli malandrini è stata “malata”; l’organismo è ormai radicalmente “infetto” e appare privo di “anticorpi” e dunque di difese immunitarie adeguate. Adesso, i filo-Usa stanno tentando una diversa risposta, ma per il momento non è nulla più di una manovra di stallo per cercare di appurare l’evoluzione della crisi in corso, nel mentre si tenta di dare il colpo definitivo ad ogni sovranità del paese, anche a quella minima consentita fino al recente cambio della strategia Usa (che hanno adottato quella “del pantano”).
Per ora si tenta ancora di concentrare l’attenzione popolare sulla crisi finanziaria, da attribuire ai “cattivi ambienti” internazionali (e per diffondere tale menzogna ci si serve anche di intellettuali ignoranti che si fingono ipercritici del capitalismo). Assai presto, si dovrà affrontare quella reale, che batte alle porte e si presenta al momento con caratteri di “stagnazione” probabilmente prolungata. Altri inganni verranno posti in atto. Studiare quelli passati non è inutile, pur se le coordinate geopolitiche e interne sono mutate. In particolare, è d’obbligo non cadere più nella rete dei cialtroni pagati dai dominanti per diffondere idee di riforma – o perfino di rivoluzionamento – del sistema, che in realtà lasciano in piedi il reale predominio dei centri strategici più abili e manovrieri. Stiamo attenti, gli intellettuali ereditati dal ’68 sono ancora presenti per contaminare le nuove generazioni. Scuola e Università “generano mostri”. Come nella seconda metà dell’800 e all’inizio del ‘900, i reali critici devono formarsi al di fuori delle sedi intellettuali “ufficiali”, ben finanziate dai peggiori fra i subdominanti e popolate da intellettuali ormai putrefatti, senza alcun pudore per la loro sostanziale ignoranza, mascherata da una cultura eclettica, di mera erudizione e soprattutto menzognera. La crisi reale apporterà comunque “aria nuova” pur se terribilmente mefitica; bisogna posizionarsi adeguatamente in essa.