UNA RIFLESSIONE MENO SCONTATA (di Giellegi 31 dic. 10)

   1. Ognuno ha le sue preferenze e prerogative nell’analisi dei fatti. In genere, preferisco quelli non proprio quotidiani o comunque, anche quando prendo in considerazione questi ultimi, cerco di guardarne aspetti generali, soprattutto se riguardano settori in cui non ho competenze specifiche e minute. Mi sentirei ridicolo se adesso mi mettessi a discutere, con fare “da Solone”, dell’accordo tra tutti i sindacati metalmeccanici, esclusa la Fiom, e la Fiat (quella autogestita  da Marchionne). Ho letto i termini dell’accordo come riportati succintamente e superficialmente dalla stampa (pro o contro), non mi sognerei perciò di “mettervi becco”. Non mi sento di assumere posizioni come quelle sostenute da favorevoli od oppositori, per puro partito preso, per pura appartenenza. Non sono demagogo e quindi non credo che i lavoratori abbiano sempre e comunque ragione (e ragione rispetto a che? Rispetto alle loro condizioni di vita immediate, alle prospettive dello sviluppo di quell’impresa e al suo mantenimento degli investimenti in Italia, ecc. ecc.?). Tuttavia, poiché sono essi a lavorarci, giudicheranno, a maggioranza, quali sono le loro prospettive migliori, a breve e a medio termine.

   Mi interessano altre questioni più generali; e assai complesse per cui bisogna procedere con i piedi di piombo, mediante supposizioni certamente il più possibile realistiche, aperte tuttavia a futuri aggiustamenti anche cospicui. Accordi del genere si inseriscono in un mondo in tumultuosa transizione verso “qualcosa” che è difficile comprendere perché chi riporta le notizie e informazioni ha una mentalità vecchia, sia che stia dalla parte dei gruppi dominanti sia che si incaponisca in vecchie abitudini di opposizione antisistema, sostenute senza più avere la benché minima idea di che sistema si tratti. Alcuni ancora parlano semplicemente di capitalismo, e quindi l’antisistema è ipso facto l’anticapitalismo, mentre non esiste un capitalismo, tanto meno un “modo di produzione capitalistico”, questo concetto che è ormai la “notte in cui tutte le vacche sono nere”.

   Esistono articolazioni, configurazioni, di quello che denominiamo solo teoricamente sistema; e la teoria è nulla più che una mappa costruita ipoteticamente per scopi di orientamento di massima in un dato “territorio”, ben delimitato da confini anch’essi stabiliti in via ipotetica e approssimativa, ben sapendo fra l’altro che non di territorio si tratta in senso proprio, bensì di un flusso dinamico e cangiante di avvenimenti, dal nostro pensiero immobilizzato e reso statico. Vengono stabilite relazioni tra variabili secondo supposte equilibrate proporzioni mentre tutto è sempre in incessante squilibrio. Chiunque, con atteggiamento da sciocco presuntuoso, sia convinto di poter parlare del sistema come di qualcosa che egli sta “vedendo”, così come io vedo adesso scorrere sul monitor le lettere battute, deve essere subito sbeffeggiato e reso inoffensivo. Si deve avere l’onestà di avvertire il lettore che di scienza si tratta, non di elucubrazioni a ruota libera pensando di galvanizzare così la lotta dei propri “beniamini”, o di una parte o dell’altra. La scienza è finzione teorica immaginata per scopi pratici (interpretazione e previsione) e mostrerà la sua bontà o meno non certo con la verifica immediata.

 

   2. Che cosa appare ai nostri (comunque ai miei) occhi? Chi sta conducendo le danze è Marchionne, un manager (finanziario più che industriale, basti pensare alle sue passate performances), che di fatto guida una Fiat auto staccatasi dal gruppo complessivo (in quale misura? Domanda che prescinde dal semplice gioco dei pacchetti azionari, dei membri del Cda, ecc.), che si dice abbia rilanciato un’impresa allo stremo, pur se questo rilancio non si nota molto. Inoltre, i “successi” ottenuti, per quanto si siano usate dosi massicce di mascheramento ideologico, sembrano frutto di accordi non esplicitati in tutti i loro fondamentali aspetti con ambienti politici americani (sembra quelli espressisi nella presidenza Obama), che hanno consentito alla Fiat di “prendersi” la Chrysler. In realtà, chi ha preso chi? Non ho alcuna certezza in proposito, visto che ci sono stati finanziamenti e chissà quali altri accordi facilitativi tra questi ambienti e la Fiat con l’acqua alla gola; e quindi pronta a ogni compromesso e subordinazione a finalità (politiche) altrui (straniere, della potenza predominante).

   Mi sembrano esservi pochi dubbi (ma comunque anche questi pochi vanno tenuti in conto) che la Fiat (in specie auto, quella ormai diretta dal manager Marchionne) sia divenuta strumento dell’azione statunitense, credo nella sua tattica “del serpente”, per accentuare la presa in Europa (e in Italia ovviamente) nell’ambito della sempre più complessa partita apertasi con l’incipiente, ma in accentuazione, multipolarismo. Quest’aspetto è completamente e volutamente oscurato da tutti: ambienti economici e finanziari (internazionali e soprattutto italiani), UE, governo italiano, sindacati lavoratori, ecc. Basti vedere la recita della commedia, cui tutti – “capitalisti” e “lavoratori” (veramente, i loro rappresentanti!) – partecipano quali guitti, per cui l’impresa, agendo nel famoso “mercato globale” (questa invereconda ideologia da analfabeti in politica o da consapevoli bugiardi), si dirigerebbe dove il lavoro (la merce forza lavoro) verrebbe acquistato al meglio, sia per il salario sia per costi aggiuntivi sia per la flessibilità e produttività nel suo impiego, ecc.

   Consapevoli imbroglioni. Il costo del lavoro, e tutto il resto, nella situazione di multipolarismo crescente, è la minore delle preoccupazioni. Interesserà quei manager, che sono meri dirigenti dei processi produttivi e applicano perciò la razionalità del “minimo mezzo o del massimo risultato” nell’organizzazione dei “fattori produttivi”. L’impresa, soprattutto di grandi dimensioni e multinazionale (e che oggi ha il “cuore” negli Usa), non è affatto una “combinazione di fattori produttivi”, nemmeno con l’aggiunta dell’attività “innovativa” dell’imprenditore. Si tratta di una unità strategica, che partecipa al conflitto tra più poli; con un occhio alla sua redditività, ottenuta con un mix di misure tra produttive e finanziarie, ma ancor più alla strategia complessiva, anch’essa un misto di varie operazioni: alcune per consolidare e accrescere le “quote mercantili”, altre per aprirsi un varco (conquistando favoritismi vari) tra “agenti politici” dei paesi in cui ci si vuol espandere, altre ancora per rispondere alle aspettative degli “agenti politici” del paese (Stato) in cui sta appunto l’effettivo “cuore” dell’azienda.

   La Fiat (auto) è appunto tutto questo, ed è un’impresa che oggi gioca in senso complessivamente filo-americano per motivi fin troppo ovvii (dove esisterebbe la sua redditività senza il sostegno Usa a lei e alla “comprata” Chrysler? Con quali soldi appunto?).

 

   3. Qui arriviamo per&ograv
e; al punto cruciale e assai grave. E’ ormai sempre più chiaro che esiste una conflittualità latente tra questa impresa (guidata dal manager Marchionne, insisto nel ricordarlo) e i vertici confindustriali, che sempre più mostrano come i cambiamenti avutisi tra Montezemolo e Marcegaglia siano assai poco sostanziali. Questa Confindustria, debole e confusa, ha rapporti ambigui con i sindacati quali apparati di Stato (ma di uno Stato vecchio, non riformato, lo Stato dei parassiti e dell’espansione dell’impiego e della spesa pubblici), un vero peso per lo sviluppo italiano (non per la semplice crescita, specifico!).  

   E’ venuto a galla, ed io credo sia del tutto vero, che simile Confindustria, già da tempi antichi (quelli di Agnelli), finanzia gli apparati sindacali. Per inciso: cos’hanno fatto questi ultimi quando è stata svenduta l’industria pubblica ai privati? Hanno protestato, hanno fatto scioperi, hanno spinto per referendum, ecc.? Ma nient’affatto, i “padroni” non avrebbero più “unto” l’ingranaggio arrugginito e parassitario. Incredibilmente, in questo momento, perfino quando due dei sindacati maggiori firmano l’accordo con Marchionne, si nota una certa linea di contatto (o persino di convergenza sotterranea?) tra la Confindustria e il vertice Cgil, che non ha sconfessato la Fiom, non l’ha nemmeno incidentalmente sfiorata con critiche (in separata sede non sappiamo, al momento, se si sono manifestati malumori). Nella sedicente “sinistra” (nel Pd essenzialmente) sono stati espressi dissensi (ad es. da Fassino), ma questo fa parte di un quadro dell’intero PAB (pattume o poltiglia anti-Berlusconi) ormai sottosopra, in sostanziale disfacimento, che speriamo si accentui, diventi più rapido.   

   Tutto ciò permette al Governo di pavoneggiarsi, di fare la ruota, schierandosi con la “modernizzazione marchionniana” contro la sciocca Confindustria che, senza attendere il risultato del 14 dicembre ed evidentemente convinta di avere nel sacco Berlusconi, era partita, uno o due giorni prima, in un attacco anti-governativo quasi frontale e nemmeno troppo coerente e giustificato. Non sottovaluterei comunque quella che in molti si affretteranno a giudicare una montatura della “reazione in agguato”: le firme degli operai critici verso la Fiom. Ricordiamoci di analoghi atteggiamenti di svalutazione nel 1955 e 1980 quando si verificarono, e sempre alla Fiat, brucianti sconfitte del sedicente “movimento operario”, nemmeno così mal ridotto come oggi.

   4. Il vero fatto è che, ricordando quanto ho scritto nei miei due precedenti interventi in merito alla transizione (tra capitalismo borghese e il suo successore affermatosi per la prima volta negli Usa già un secolo fa) non ancora perfezionatasi in Italia, si deve constatare che questa “modernizzazione” sembra fare un passo avanti, con la Fiat auto in mano ad un manager, rispetto ad una Confindustria ancora legata ad un capitalismo famigliare (o quasi), il cui aspetto retrivo viene supportato da quella che un tempo rappresentava, o sembrava rappresentare, la parte più avanzata degli “operai” (lasciando perdere il mito della Classe). Sia chiaro che qui non si contesta la lotta per migliori condizioni di vita e anzi per impedire il loro peggioramento, il che è assai più grave. Lo sciocco pietismo, che a volte è invece soltanto l’imbroglio del farabutto, impedisce però di ragionare e andare al fondo delle questioni.

   Non vi è dubbio che i malumori, appena mascherati, del vertice attuale della Confindustria – molti pensavano ad un reale cambiamento d’impostazione rispetto al precedente mentre si è solo realizzata una più subdola continuazione della medesima politica – si sono intrecciati con l’opposizione più dura della Cgil e la non firma della Fiom, facilitando così in realtà l’opera di Marchionne. Questi si presenta appunto come il modernizzatore, colui che può realizzare infine l’adeguamento della formazione sociale capitalistica italiana – ancora, diciamo così, semiborghese – a quella dei funzionari del capitale. Ed è qui che si constata come il capitalismo italiano sia sempre semidipendente, sempre una fase indietro rispetto ad altri capitalismi. E’ la solita storia del “capitalismo straccione”, dizione impropria e per certi versi mistificatoria e deviante rispetto al vero carattere dei nostri dominanti. Non sono straccioni, bensì subdominanti in collegamento con gruppi predominanti, che sono quelli statunitensi in questa fase storica (già iniziata con la sostanziale sconfitta nella seconda guerra mondiale).

   Il fatto che l’apparente completamento della transizione intracapitalistica in Italia sia appannaggio dell’apparato manageriale di un settore industriale “maturo”, della passata epoca dell’industrializzazione – resa complementare alla struttura del capitalismo predominante addirittura nella forma del legame diretto tra Fiat e capitalismo americano – dimostra il carattere semidipendente e subdominante di quello italiano, nient’affatto semplicemente “straccione”. Non ci si salva però da questa subdominanza con la resistenza opposta dalla Cgil in combutta sostanziale con la Confindustria. La situazione di pura mistificazione è particolarmente grave poiché consente alla sedicente “destra”, anzi perfino ai settori berlusconiani, di ammorbidire la loro rappresentanza dei settori di punta e strategici, collocati – nel regime Dc-Psi, e lo sono ancora, sia pure parzialmente per l’opera di smembramento effettuata dopo la caduta di quel regime – nell’area  caratterizzata dalla forma giuridica della proprietà “pubblica” (che già prese avvio, per le vicende della crisi del ’29, sotto il regime fascista, ma fu decisamente rafforzata nel dopoguerra con Eni, Enel e Finmeccanica, proprio le tre che hanno resisto alla ventata distruttiva favorita dalle operazioni iniziate nel ’92-93).

   Quanto sta accadendo mi convince sempre più che in quegli anni decisivi, in cui si sviluppò la più volte ricordata azione degli Usa e della subordinata Confindustria agnelliana, Berlusconi fu quasi obbligato, obtorto collo, ad assumersi – mentre però il PAB faceva degenerare completamente in senso personalistico la lotta politica, occultando così il reale significato di quell’assunzione – la rappresentanza e difesa dei settori “pubblici” investiti dalla furia dei rinnegati e della deviata magistratura al fine di favorire i mandanti appena nominati. Del resto è probabile che “quinte colonne” siano infiltrate negli stessi apparati manageriali “pubblici”. In ogni caso, tutto ciò spiega sia la durata, che sempre mi ha sorpreso, del fenomeno Berlusconi (poiché non era soltanto lui ad opporsi al tradimento del PAB e alla Confindustria legata agli Usa) sia l’eccessiva timidezza dello stesso, che mai ha portato veri affondi contro i mandanti del PAB (ripiegando sulle fesserie dei comunisti ancora all’opera, delle “toghe rosse” e di altri veri e propri scempi del semplice buon senso), oltre a circondarsi di personale non solo scadente ma anche sostanzialmente filoatlantico.

   5. Su questa ambiguità non del solo personaggio Berlusconi, ma dell’intero “fronte” oppostosi all’operazione devastante di cui fu strumento “mani pulite&
rdquo;, sarà però necessario tornare ancora e anzi in continuazione, perché incomincia a intravedersi una svolta. E’ indubbio che la sedicente “sinistra” – ora confusa con gli altrettanto sedicenti “centro” e “destra” (per il momento finiana, ormai in panne) – è stata lo strumento di tutta una fase del tentativo americano e confindustriale di azzerare quel po’ di autonomia dell’Italia, conquistata grazie alle opportunità createsi nel mondo bipolare. Quello specifico tentativo è di fatto pressoché abortito, ma le forze autonomiste, evidentemente deboli e poco decise, non sono riuscite ad aumentare i loro spazi; o almeno non troppo. Hanno condizionato Berlusconi, che ha fatto una politica estera capace di comunque irritare gli Usa e i loro servi italiani, senza però dare adeguata “pubblicità” a tale politica, anzi quasi avendo timore di esagerare e fornendo continuamente qualche pesante contraccambio. Insomma, la politica autonomista berlusconiana è sempre stata una sorta di stop and go.

   Adesso, c’è il pericolo che – una volta esaurita, com’è probabile, la funzione della vecchia GFeID (grande finanza e industria decotta), mandante del PAB – si riprenda comunque lo stesso tentativo realizzando una distorta “modernizzazione”, quella legata alla transizione intracapitalistica tramite la Fiat auto di Marchionne, cioè appunto mediante un settore in grado di rendersi complementare al sistema predominante, mentre viene ridotto il potenziale dei settori capaci di assicurarci ben altra autonomia. Politicamente, si potrebbe arrivare ad un rimescolamento delle carte, in cui abbiano posizione centrale uomini del “centrodestra”, con nuove alleanze e pateracchi, per dare vita ad un assetto di infine più stabile subdominanza italiana. Questo il pericolo della “modernizzazione” affidata a Marchionne, cioè a un settore della passata fase d’industrializzazione. Ribadisco che si tratterebbe di una subalterna attuazione del passaggio dalla formazione ancora semiborghese a quella più avanzata (per inciso: l’impantanarsi della seconda Repubblica, il continuo marcire della prima, è appunto l’aspetto formale e istituzionale della non ancora finita transizione).

   Se l’unica opposizione è affidata a settori politici fallimentari e che cercano solo di protrarre questo marcire, senza transitare definitivamente alla più avanzata formazione sociale, è evidente che ne uscirà rafforzato il progetto di attuare il passaggio tramite il mantenimento della subdominanza agli Usa. Per il momento, i settori di punta e strategici (Eni, Enel, Finmeccanica) sembrano ancora in grado di agire con una certa efficacia. Non facciamoci illusioni; la transizione di cui si tratta non può essere affidata alla sola sfera economica, è necessario che intervenga anche la politica, quella vera. E bisogna tener conto certamente che chi vede peggiorare le proprie condizioni di vita può essere reso succube di operazioni o apertamente reazionarie, come quelle della Confindustria in “concertazione” con i propri subordinati sindacali; o modernizzatrici ma in chiave di subdominanza agli Stati Uniti, come quelle di Marchionne (Fiat) e di gruppi oggi al Governo, anch’essi appoggiati da altri settori sindacali e da quei comparti operai che firmano contro la Fiom. Quindi in allerta! Tuttavia, penso che qui ci sia già un bel po’ di carne al fuoco, su cui le persone interessate a capire qualcosa (non i soliti pietistici sempre in lacrime per i “dominati” senza capire alcunché della congiuntura odierna) possono cominciare, io credo, a pensare e lavorare.