UNA RIPASSATA (14 agosto)

 

 

Credo adesso inutile parlare di questa sciagurata manovra finanziaria, e delle critiche in buona parte s-centrate che provengono dai più svariati settori. L’importante è che il malcontento è pressoché generale, ma proviene soprattutto dai settori (anche elettorali) della fazione governativa. Inoltre, si è allo sbando in quanto presi dalla paura della crisi – che doveva essere alle spalle per i mentitori di professione – non certo passeggera, ma nemmeno da affrontare con misure puramente tampone. Ci si troverà presto al punto di prima, con ulteriore paura e sempre più sbandati e senza idee. Per il momento, anche di vacanza malgrado tutto, eviterò di affrontare le questioni centrali. Darò una ripassata a quanto scritto oltre un anno fa, poiché serve a ricordare alcuni punti salienti di un’ormai deteriorata situazione arrivata, temo, al “punto di non ritorno”.

Scrivevo allora per ricordare come gli Usa acquisirono le condizioni-base della loro ascesa a prima potenza mondiale. L’evento cruciale fu la guerra civile o di secessione del 1861-65 che fu sanguinosissima. Si confrontarono l’Unione (del nord) e la Confederazione (del sud). La simpatica e nobile scusa – di cui Abramo Lincoln viene considerato, sbagliando completamente indicazione, l’idealista portatore – fu la liberazione degli schiavi, lavoranti nelle piantagioni di cotone del sud. In realtà, la questione era molto più prosaica. I confederati, produttori di cotone esportato verso l’Inghilterra della prima Rivoluzione industriale (industria soprattutto tessile), sostenevano le virtù del libero mercato e dunque del commercio internazionale senza intralci tra loro e l’Inghilterra. Questa era l’ideologia propagandata, ad es., da Thomas Cooper, mediocre economista, che seguiva le tesi ricardiane della teoria dei costi comparati.

Il Nord non se ne diede per inteso, voleva sviluppare l’industria, utilizzando il protezionismo necessario per una certa fase iniziale di irrobustimento della stessa; seguendo quindi semmai l’impostazione listiana dell’“industria nascente”. Per ottenere tale risultato, dovette però schiacciare il Sud; e per schiacciarlo incrementò non soltanto l’industria in genere, ma pure quella delle armi, con tutte le innovazioni che questa comporta quando è messa alla frusta. Si ha qui la migliore dimostrazione di due fatti in un colpo solo: a) la politica decide “in ultima istanza” le mosse da compiere, anche in campo economico, per affermare la potenza del paese; b) la politica (di crescita della potenza) ha il suo prolungamento nell’evento bellico in cui tutte le scelte, comprese quelle effettuate nella sfera economica, conoscono la torsione specifica indispensabile all’efficacia della politica in questione.

 

Facciamo un semplice esperimento ideale, immaginando per un momento che al Nord mancasse un gruppo politico di comando in grado di esprimere la presidenza e le decisioni di Lincoln. Supponiamo che tale gruppo facesse invece eleggere un presidente predicatore di “buone intenzioni”, in primo luogo quella di unificare il paese pacificamente, mediando tra i vari interessi. L’ideale (cioè l’ideologia) di questo gruppo, sempre presunto, non sarebbe stato la liberazione dei “negri” dalla schiavitù (si poteva attendere ancora del tempo), ma l’affermazione di un paese che dimostrasse la sua capacità di risolvere pacificamente i problemi interni, pur diviso tra tanti Stati con interessi abbastanza divergenti fra loro. Si sarebbe potuto riassumere questa transazione pacifica in due sostanziali scelte: a) dare soddisfazione al sud non introducendo dazi doganali sui prodotti industriali, che avrebbero provocato ritorsioni inglesi a danno appunto dell’economia basata sulle piantagioni di cotone; b) aumentare allora le imposte (anche al sud) per dare modo all’industria del nord di essere sovvenzionata in modo da superare il divario di efficienza e di costi rispetto ai concorrenti inglesi (concorrenti nel “libero commercio mondiale”).

L’immaginario presidente non Lincoln sarebbe stato veramente allietato da questo accordo raggiunto in modo soddisfacente per tutti, mettendosi attorno ad un tavolo a discutere in modo pacifico, con la volontà reciproca di non farsi del male e di sentirsi tutti uniti negli….. Stati Uniti. Ah, la meraviglia dell’Unità, fa compiere miracoli. Solo che, una volta raccolte le imposte, sarebbe stato necessario stabilire a quali impieghi dedicare i fondi, quali industrie sovvenzionare. Innanzitutto, in nome dello spirito pacifico che pervadeva i rappresentanti dei vari Stati federati, non si sarebbe dato in pratica nulla all’industria delle armi; a che sarebbero del resto serviti i sussidi in tale direzione, se l’accordo tra nord e sud fosse stato siglato in perfetta armonia, tra sorrisi e abbracci e un nuovamente fiorito spirito di armonia e unità dell’intero paese? Di fronte c’era l’Inghilterra con la sua potente flotta, ma insomma sarebbe bastato non darle troppo fastidio. Si sarebbe cercato di lasciar perdere magari alcuni settori industriali fra quelli di punta, di maggior guadagno, ecc. per non infastidire tale paese, concentrandosi invece su altri più tradizionali; fra l’altro, per questi ultimi sarebbe esistito un vasto mercato interno, il consumo delle masse americane avrebbe messo tutto a posto.

Dopo un po’, però, gli effetti delle scelte compiute si sarebbero mostrati modesti, l’efficienza dell’industria sarebbe migliorata in modo stentato perché i “mitici” consumatori americani avrebbero trovato ancora convenienti i manufatti inglesi sia per qualità che per prezzo. Si sarebbe allora deciso di aumentare di un altro po’ le imposte, onde accrescere i sussidi alla propria industria (dislocata al nord). Si sarebbe continuato a non centrare gli obiettivi prefissati; nel mentre i cittadini del sud, soprattutto gli abbienti, avrebbero cominciato a protestare di nuovo per il salasso subito senza grandi risultati, ma soprattutto senza alcun loro interesse, sempre concentrato sul cotone. Anche al nord più d’uno avrebbe iniziato a fare le stesse considerazioni. Infine, due-tre concreti liberisti a tutto tondo sarebbero sbottati: la si smetta con i sussidi, si lasci che i vari settori economici competano in “libero mercato internazionale” e raggiungano così livelli soddisfacenti di produttività e di conseguente diminuzione dei costi e prezzi: così facciamo il benessere dei consumatori. Alla fin fine, si sarebbe proposto di abbandonare, o comunque di non sviluppare troppo, molti settori industriali e di ridare la prevalenza ad una “sana” agricoltura. Il sud aveva il cotone, il nord si sarebbe dovuto magari arrangiare con il grano o prodotti adatti a quel clima. Sarebbe stato inoltre vantaggioso sedersi attorno ad un tavolo con i “cugini” inglesi, cercando di migliorare i rapporti di scambio delle reciproche merci, sempre però tenendo conto della “specializzazione” dei diversi paesi nei differenti beni prodotti, specializzazione imposta dal libero commercio mondiale in base ai “costi comparati” degli stessi.

Per fortuna degli Usa (che non è la nostra d’oggidì), ci fu il “gruppo” che espresse Lincoln; esso manifestò la nobilissima intenzione di rendere liberi gli schiavi (non sempre trovando poi loro lavoro, a guerra finita, e consentendo tutto sommato ancora il razzismo per oltre un secolo) e scatenò una bella guerra, mantenendo i dazi, incrementando l’industria bellica (importante per battere il sud, ma anche per contare a livello internazionale, perfino in contrasto con i propri “cugini” inglesi); si ebbe Gettysburg e le altre varie “belle pagine di storia patria”, “Glory, glory, Allelujah” rese flebile “Dixie”. Così gli Usa iniziarono la loro secolare ascesa a prima potenza mondiale. La superiorità del gruppo di Lincoln rispetto ai liberisti fu manifesta.

 

Nessuno oggi pensa all’uso dei dazi doganali. Veramente, non troppo tempo fa, qualcuno (che va ancora per la maggiore, in specie nell’ultima manovra finanziaria) propose di metterli non sui prodotti tecnologici avanzati degli Usa ma sui tessili cinesi; come dire, nell’esempio fatto prima, difendiamo le nostre piantagioni di cotone e mandiamo in malora l’industria. Hanno invece senso compiuto solo soluzioni politiche che dirigano, tenuto conto dei nostri limiti, verso il potenziamento dei settori industriali di punta (strategici). Simili scelte, per avere un minimo di forza, si devono necessariamente accompagnare ad alleanze con le potenze in contrasto con “l’Inghilterra odierna”, cioè con gli Stati Uniti.

Oggi il mondo non è unipolare o monocentrico; e nemmeno bipolare come quello uscito dalla seconda guerra mondiale. Malgrado le titubanze e i ritorni all’indietro, del tutto in linea con l’epoca che si sta aprendo, sembra evidente l’incamminamento verso una situazione tendenzialmente multipolare. Ovviamente, si è in presenza di un ben più potente polo, che tuttavia vede crescergli “intorno” alcune altre potenze e subpotenze. Non esiste nemmeno più, come un tempo, il primo mondo e il terzo chiaramente dipendente e semicolonizzato o quanto meno decisamente sottosviluppato (o arretrato). Non esiste insomma più quella situazione, che fece diventare di moda il principio di “causazione circolare cumulativa” (Myrdal) per cui il divario tra “nord” e “sud” (sviluppo/sottosviluppo) si sarebbe dovuto accentuare. Ormai, simili teorie appartengono ad un passato talmente passato da sembrare perfino “sognato” (e forse in effetti lo fu). Siamo proprio alla ben più concreta tesi dello sviluppo ineguale, che non riguarda però le potenze imperialistiche di pari forza di oltre un secolo fa; come appena rilevato, una è ancora la più robusta e temibile, ma altre sono comunque in formazione.

Nell’ambito di una simile configurazione dei rapporti a livello mondiale, occorre uno scatto in avanti. E’ necessario imparare a giostrare nel disordine crescente tipico della mancanza di un centro riconosciuto e relativamente in grado di organizzare l’insieme (quando la sua predominanza è accettata). In Italia, nulla si vede al proposito. Qualcosa sembrò esserci con Berlusconi, ma troppo debole e ormai tramontato. Forse in alcuni ambienti “trasversali”, del tutto minoritari, s’intravvedono qua e là barlumi di consapevolezza in tal senso; al momento del tutto insufficienti. E’ certo spiacevole limitarsi ad una sorta di fotografia della situazione, ma non ci si può inventare quanto è ancora inesistente.

Una scelta è però chiara fin d’ora: bisogna liberarsi degli imbroglioni che intendono varare Governi di presunta salvezza nazionale. Questo ceto politico lavora invece per la predominanza centrale degli Stati Uniti. Qualsiasi etichetta si mettano (europea, nazionale, ecc.), si tratta di nemici nostri, nemici degli interessi vitali del nostro paese. Le “masse” ancora non se ne accorgono, molti credono che dobbiamo sempre riconoscenza ai “Liberatori”, ai nostri difensori contro l’“Impero del male”, ecc. Lo sforzo va prodotto contro i fossili di questa ideologia; in pratica quasi tutto il ceto politico, quasi tutta la grande finanza e l’industria di altre epoche, che gioca il ruolo che fu, centocinquant’anni fa, quello dei “cotonieri” sudisti negli Usa. Addosso ai “confederati”, ci sarebbe bisogno di una moderna Gettysburg che ci liberi infine dei finti salvatori della Patria e, nel contempo, europeisti “a bischero sciolto”.