UNA SECONDA MOSSA di G.P.
Vi invito a scaricare dal nostro sito (www.ripensaremarx.it) il saggio di Gianfranco La Grassa intitolato “Una seconda mossa” la cui prima parte, riguardante le funzioni coercitive dello Stato e il ruolo delle ideologie (tanto di destra che di sinistra) nell’ambito delle formazioni capitalistiche odierne, è già apparsa con il titolo “Una prima mossa”.
In questa seconda trattazione, La Grassa si concentra su quelle che sono le rimodulazioni internazionali a livello di formazioni sociali (ovvero di paesi intesi come interi ed in confronto/scontro tra loro) in un’epoca di monocentrismo a predominanza statunitense.
Quando Gianfranco mi ha inviato il file stavo concludendo un articolo, che apparirà sul prossimo numero della rivista Comunità e Resistenza, al quale ho dato un po’ pretenziosamente il titolo Ideologia, Stato, Geopolitica. Il nostro maestro, nel trattare l’argomento della configurazione dei rapporti internazionali, ha invece esordito spiegando che preferisce parlare di politica internazionale piuttosto che di geopolitica, in quanto questo termine implica la “manipolazione” di un materiale troppo vasto per il quale occorre prendere in considerazione più tematiche (di carattere politico, culturale, storico, etnico, ecc.). Comunque, ciò che più gli interessava con tale stesura, era giungere al nocciolo del problema, così come lui intendeva affrontarlo, evitando possibili “sviamenti” rispetto ad esigenze euristiche impellenti, senza le quali risulta difficile capire la riconfigurazione dei rapporti di forza a livello mondiale.
In realtà, nonostante le sue avvertenze iniziali credo che l’analisi dispiegata, paragonata a ciò che in giro viene spacciato per approfondimento geopolitico, possa essere legittimamente inserita tra quelle più chiarificatrici, benché si basi su fonti informative poco o per niente privilegiate. Ma questo non fa che dare maggiore credito all’estensore dello studio. Detto ciò avrei preferito avere prima questo scritto perché anche la mia disamina si sarebbe arricchita.
La Grassa esordisce con una giusta denuncia nei confronti del marxismo tradizionale, in quanto lo stesso si rivela scarno di strumenti analitici quando si tratta di affrontare l’analisi internazionale. L’origine di tanta “distrazione”, su questioni così importanti alla luce delle evoluzioni attuali, deriva da due problemi nodali che hanno sempre angustiato i pensatori marxisti. In primo luogo, la natura del pluslavoro (la sua provenienza, la sua distribuzione, e la sua forma specifica nella società capitalistica) e, per secondo, la descrizione della struttura “tipizzante” il modo di produzione capitalistico, in funzione di “una dinamica comportante la formazione intrinseca delle condizioni di base della sua trasformazione”(G. la Grassa) dalla quale partiva poi la previsione, rivelatasi errata, del prevalere del lavoratore collettivo cooperativo associato (mente+braccio) nei processi produttivi rispetto ad una più parassitaria proprietà capitalistica cedolare. Questa fossilizzazione (dettata da motivi che in un’epoca precedente hanno dato qualche risultato ma che oggi rivelano tutta la loro debolezza) fu, ad esempio, superata nella prassi rivoluzionaria da Lenin, grazie alle sue tesi sullo sviluppo ineguale dei capitalismi e della lotta tra potenze nella fase imperialistica (concepita erroneamente quale ultimo stadio) che generava delle possibilità di sovvertimento del sistema negli anelli più deboli della catena imperialistica.
Non si vogliono qui gettare alle ortiche le acquisizioni sulla lotta di classe. Queste continuano a costituire, almeno sul piano dei rapporti economici, un motivo di resistenza tradunionistica e di “ginnastica contrastiva” tra chi mette al lavoro le forze produttive e chi sopporta, inerme o quasi, il peso di tali decisioni. E’ rendere risolutivo il conflitto Capitale/Lavoro – nell’ambito di una dinamica capitalistica che decompone e ricompone costantemente i corpi e i gruppi sociali, in orizzontale e in verticale, in funzione del superamento dei suoi limiti – che provoca la distorsione teorica più evidente. Occorre comprendere che il conflitto Capitale/Lavoro non esaurisce il discorso sul capitalismo il quale, anzi, deve essere indagato a partire dallo scontro interdominanti, quale momento di massima tensione sistemica, sia all’interno di ciascuna formazione sociale sia nello scontro spaziale tra formazioni sociali differenti. Questo conflitto, sul piano logico e dinamico, costituisce il nucleo caldo della performatività capitalistica e scandisce i tempi della sua progressione.
Possiamo dire che attualmente siamo ancora invischiati in una fase monocentrica, con gli Stati Uniti a fare la parte della potenza predominante, per quanto vi siano avvisaglie di un maggiore policentrismo derivanti dell’affacciarsi di altri paesi nella “contesa” internazionale per la conquista delle aree d’influenza. In una fase come questa, o anche in prospettiva, appare fuorviante affidarsi al vecchio linguaggio comunista o alle ormai superate teorizzazioni sull’imperialismo. L’imperialismo è stata una specifica fase, seguita ad un’intera epoca di predominanza inglese, sfociata infine nella guerra mondiale, dopo la quale venne a determinarsi il riposizionamento delle potenze mondiali sullo scacchiere internazionale (emersero gli Usa come potenza centrale). Oggi questa situazione di caos geopolitico è ancora molto lontana e, probabilmente, l’entrata in una fase policentrica, per quanto inevitabile, potrebbe manifestarsi in forme che non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle precedenti.
Si tratta, primieramente, di fare qualche previsione, dato lo stato dell’arte, sugli interi che si propongono quali reali antagonisti degli Usa, portando ad accelerazione l’auspicata entrata in un periodo di tumulto geopolitico. Come sostiene La Grassa, quest’ultimo è quello che davvero ci interessa perché apre delle finestre di possibilità con le quali anche i cosiddetti dominati possono sperare di modificare i rapporti di forza a proprio vantaggio.
Molti opinionisti della materia ritengono che la Cina diverrà, nel prossimo futuro (per le sue dimensioni demografiche e per le potenzialità egemoniche che riesce ad esprimere), il vero antagonista mondiale degli Stati Uniti. In realtà, la strategia dell’Impero di Mezzo, fortemente orientata a ridurre i ritardi rispetto al mondo occidentale è, per ora, volta alla competizione economica più che a quella propriamente militare e geopolitica. Esistono, comunque, sintomi di crescita della Cina anche su questa strada e ne sono testimonianza i rapporti militari che essa stringe con altri partners asiatici. Ma su ciò non ci si può sbilanciare perché la società cinese continua ad essere afflitta da mille contraddizioni e molto dipenderà dall’intelligenza della sua classe dirigente, nel riuscire a direzionare tali antinomie (superando anche gli irretenti stilemi ideologici del fu socialismo) in funzione della potenza complessiva del paese.
Da questo punto di vista, la Russia sembra invece aver imboccato una cammino più deciso. Dopo lo sprofondamento della sua società, a causa delle politiche servili di Gorbaciov e El’cin (con l’eterodirezione americana), Putin sta riesponendo il paese quale superpotenza autonoma. Il gigante russo, in virtù di queste sue aspirazioni, è sottoposto a molte provocazioni non da ultima quella della scudo spaziale, spacciata per una forma di difesa integrata internazionale contro un’improbabile attacco nucleare iraniano.
Infine, vi sono ampie zone in ribollimento, soprattutto nell’area asiatica (Pakistan, Afghanistan), che potrebbero spingere le potenze più intraprendenti sul piano egemonico (Cina, Russia e India, anche se quest’ultima resta ancora fortemente legata agli Usa), a coordinare la propria azione, costringendo gli americani ad optare per una posizione maggiormente conservativa. Ciò potrebbe accadere presto perché non è pensabile un controllo “imperiale” assoluto senza il minimo di puntellamento delle zone d’influenza fin lì conquistate. Se questa previsione dovesse giungere a concretazione muterà l’atteggiamento dei dominanti americani anche nei confronti del Sud America, da sempre considerato alla stregua di un cortile di casa. Sarà allora che vedremo di che pasta sono fatti gli attuali gruppi al potere (sedicenti socialisti) in Venezuela, Bolivia ecc. ecc.
Resta per noi la necessità di dare appoggio tattico a tutti quei paesi che mostrano l’intenzione di smarcarsi da Washington, siano essi democratici e, quindi, culturalmente a noi più vicini o governati dall’ “emiro dell’Afghanistan” e perciò più distanti per costumi e tradizioni.