Una vera donna

Avviso
ll mese scorso è stato l’anniversario della nascita della comunista polacca Rosa Luxemburg. Il contributo teorico di costei alla comprensione degli eventi della sua epoca storica è stato piuttosto fuorviante ma la sua passione rivoluzionaria non può essere messa in discussione, considerato che pagò con la vita il tentativo di una sollevazione socialista in Germania.
La sua polemica con Lenin sull’importanza del partito e dell’avanguardia organizzata nei processi rivoluzionari, che la Luxemburg negava perché confidava nella spontaneità della classe operaia, portò il russo ad affermare che: “le aquile possono saltuariamente volare più in basso delle galline, ma le galline non potranno mai salire alle altitudini delle aquile. Rosa Luxemburg sbagliò sulla questione dell’indipendenza della Polonia; sbagliò nel 1903 nella sua valutazione del menscevismo; sbagliò nella sua teoria dell’accumulazione del capitale; sbagliò nel luglio 1914, quando, con Plekhanov, Vendervelde, Kautsky ed altri, sostenne la causa dell’unità tra bolscevichi e menscevichi; sbagliò; in ciò che scrisse dal carcere nel 1918 (corresse poi la maggior parte di questi errori tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919, dopo esser stata rilasciata). Ma a dispetto dei suoi errori lei era – e per noi resta – un’aquila”.
La Luxemburg aveva, inoltre, fornito una interpretazione del capitalismo assolutamente errata, purtroppo recuperata anni dopo dalle correnti terzomondiste e “sottosviluppiste” che fecero perdere altro tempo sull’intendimento  delle questioni sostanziali della dinamica capitalistica. Infatti, secondo la Luxemburg non esisteva possibilità di riproduzione del capitale in un’area a modo di produzione capitalistico. Solo le aree precapitalistiche garantirebbero tale riproduzione ma quando anche quest’ultime sarebbero finite inglobate all’interno del sistema, quest’ultimo sarebbe collassato per mancanza di ulteriori luoghi esterni di sfruttamento e quindi di accumulazione: “La produzione capitalistica si basa fin dalle sue origini, nelle sue forme e leggi di sviluppo, sull’intero orbe terracqueo come serbatoio delle forze produttive. Nella sua spinta all’appropriazione delle forze produttive a fini di sfruttamento, il capitale fruga tutto il mondo, si procura mezzi di produzione da tutti gli angoli della terra, li conquista o li acquista in tutti i gradi di civiltà, in tutte le forme social…Fra ciascun periodo di produzione, in cui viene prodotto del plusvalore, e l’accumulazione susseguente, in cui esso viene capitalizzato, s’inseriscono due diverse transazioni – la trasformazione del plusvalore nella sua forma pura di valore (realizzazione) e la trasformazione di questa pura forma di valore in capitale produttivo – che si svolgono fra la produzione capitalistica e il mondo non capitalistico che la circonda. Da entrambi i punti di vista […] il commercio mondiale è una condizione storica di esistenza del capitalismo, commercio mondiale che, nei rapporti concreti dati, è essenzialmente scambio tra forme di produzione capitalistiche e non capitalistiche”.
Ovviamente, la Luxemburg non fu l’unica ad errare su simili argomenti ma le sue tesi costituivano un evidente passo indietro rispetto, ad esempio, alle concezioni di Lenin il quale vedeva nell’imperialismo non un mero colonialismo ma uno scontro intercapitalistico tra Trust, multinazionali ecc. ecc. coinvolgente anche gli Stati-potenza, insomma una concorrenza portata ad un livello estremo (appunto fase suprema ed ultima del capitalismo, prima del vero e proprio crollo sistemico).
Precisato questo, dobbiamo comunque dire: “ad avercene di cervelli come quelli della Luxemburg”; mentre ci tocca constatare che ci resta ben poco oggidì di tali vette intellettuali, soprattutto nelle elucubrazioni di certe femministe del metoo e del senonoraquando. Per queste signore e per alcuni signori, che offrono il fianco a queste scarnificazioni dopo aver perso la costola (recentemente mi sono imbattuto in uno di questi pressapochisti privo di spina dorsale), basta fare la guerra al vocabolario e riformare la lingua al fine di dare a Cesara quanto prima arraffava Cesare, senza rischiare nemmeno la messa in piega.
Il problema non è il maschilismo o il femminismo (parole che dovrebbero richiamare la stessa connotazione negativa) ma una dilagante stupidità che si afferma trasversalmente tra i generi e l’intero genere umano.
Per questo riporto dei bellissimi brani di Karl Kraus il quale si trovò a dover difendere la Luxemburg e le sue idee dagli attacchi di un’altra donna che non era ne’ un’aquila ne’ una gallina ma una autentica arpia. Si può dire senza essere accusato di discriminazione sessuale?
Buona lettura.
“KARL KRAUS
Nel luglio 1920, di ritorno da un ciclo di letture e conferenze tenuto in diverse città europee, Karl Kraus riporta sulla «Fackel» una lettera scritta da Rosa Luxemburg nel dicembre 1917, introducendola con le seguenti parole.
L’emozione più intensa, mai prodotta prima in una sala di lettura, la suscitò la lettera di Rosa Luxemburg. La trovai sulla «Arbeiter Zeitung» la domenica di Pentecoste e decisi di portarla in viaggio con me. Nella Germania dei Socialisti Indipendenti era del tutto sconosciuta. Sia coperta di onta e disonore qualsiasi repubblica che, nonostante ogni cristianesimo dei catechismi e delle granate, non accolga nei suoi libri di scuola, tra Goethe e Claudius, questo documento di umanità e poesia, unico nel mondo di lingua tedesca, e che non insegni alle generazioni future, affinché provino orrore per gli uomini di questo tempo, che il corpo in cui era racchiusa un’anima così elevata fu massacrato a colpi di calcio di fucile. Non si danno, nell’intera letteratura tedesca del presente, lacrime simili a quelle di questa rivoluzionaria ebrea e non vi sono pause simili a quella che segue la descrizione della pelle del bufalo: «ma quella era lacerata». Nella mia lettura ho tralasciato il paragafo di argomento letterario – in sé non meno incantevole e qui racchiuso tra parentesi – così da far risaltare in modo più coeso l’osservazione delle piante e degli animali come un abbraccio amoroso all’intera natura; ho inoltre accostato direttamente il postscriptum alla conclusione della lettera, senza la firma.
A Berlino, Dresda e Praga ho introdotto la lettura con le seguenti parole:
Dedico alla memoria della più nobile tra tutte le vittime la lettura di questa lettera, scritta da Rosa Luxemburg a Sonja Liebknecht a metà dicembre del 1917, dal carcere femminile di Breslavia.”
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“ROSA LUXEMBURG
Breslavia, dicembre 1917
Sonička, passerotto mio, la vostra lettera mi ha fatto tanto piacere, volevo rispondervi subito, avevo però molto da fare, ecco perché in quel momento non mi sono concessa questo lusso. Poi ho preferito aspettare l’occasione migliore, perché è tanto più bello poter discorrere tra noi in modo del tutto spontaneo.
Leggendo le notizie dalla Russia ho pensato a voi ogni giorno e mi sono tormentata nell’immaginare come, a ogni assurdo dispaccio, l’angoscia vi abbia colta senza motivo. Quel che veniamo a sapere da laggiù sono in gran parte notizie false, e questo vale in particolare per il sud della Russia. Le agenzie di stampa (le nostre così come le loro) hanno interesse a esagerare il più possibile i disordini e gonfiano in modo tendenzioso ogni voce senza fondamento. Fino a quando la situazione non si sarà chiarita, non ha senso e non c’è motivo di agitarsi così, alla cieca, prima ancora che accadano le cose. In generale, sembra che tutto proceda colà senza spargimenti di sangue, e in ogni caso nessuna voce su presunti massacri ha mai trovato conferma. Si tratta soltanto di una dura lotta di partito, dipinta sempre, nella prospettiva offerta dai corrispondenti dei giornali borghesi, come uno scatenarsi della follia e un inferno. Quanto poi ai pogrom, tutte queste voci sono pure menzogne. In Russia il tempo dei pogrom è finito per sempre. Il potere dei lavoratori e del socialismo è troppo grande. La rivoluzione ha ripulito l’aria dai miasmi e dall’atmosfera soffocante della reazione, il tempo di Kišinev2 è finito per sempre. Riesco piuttosto a immaginarmi dei pogrom in… Germania. Di certo vi è l’atmosfera giusta, fatta di bassezza, vigliaccheria, reazione e ottusità. In questo senso potete dunque sentirvi del tutto tranquilla riguardo alla Russia meridionale. Dal momento che lì le cose sono sfociate in un aspro conflitto tra il governo di Pietroburgo e la Rada, la soluzione e il chiarimento dovranno arrivare molto presto, e di lì si potrà avere un quadro completo della situazione. Da qualsiasi punto di vista non ha assolutamente senso né scopo che voi vi consumiate per l’angoscia e l’agitazione sulla base di notizie incerte. Siate coraggiosa, mia piccola ragazza, su la testa, mantenetevi calma e salda. Tutto si volgerà al meglio, non bisogna temere sempre il peggio!
Speravo davvero di vedervi qui presto, a gennaio. Ora mi si dice che in gennaio vuole venire Mathilde Wurm. Per me sarebbe difficile rinun“ciare a una vostra visita nel prossimo mese, ma certo non sono io a decidere. Se voi dite che vi riesce di venire soltanto a gennaio, forse le cose potrebbero restare così, magari Mathilde Wurm potrebbe venire a febbraio. In ogni caso vorrei sapere al più presto quando vi rivedrò].
È ormai un anno che Karl è rinchiuso a Luckau. Ci ho pensato spesso in questo mese e proprio un anno fa voi eravate da me a Wronke e mi regalaste quel bell’albero di Natale… Quest’anno me ne sono procurata uno qui, ma è misero, spoglio di molti rami – non c’è paragone con quello dell’anno scorso. Non so proprio come farò a metterci gli otto lumini che ho rimediato. È il mio terzo Natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia. Sono calma e serena come sempre. ieri sono rimasta a lungo sveglia – adesso non riesco ad addormentarmi prima dell’una, però devo essere a letto già alle dieci –, così, al buio, i miei pensieri vagano come in sogno. Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre in un’ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza. Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare. E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio. In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso, perché anche voi possiate sentire questa ebbrezza e camminare su un prato dai mille colori. Non intendo in alcun modo saziarvi d’ascetismo, di gioie immaginarie. Vi concedo, anzi, ogni reale piacere dei sensi. Vorrei soltanto donarvi, in aggiunta, la mia inesauribile letizia interiore, così da poter essere serena riguardo a voi, pensando che attraversate l’esistenza avvolta in un mantello trapunto di stelle, in grado di proteggervi da quanto è meschino, dozzinale e angosciante. “Avete raccolto un bel mazzo di bacche, nere e rosaviolacee, nello Steglitzer Park? Quanto alle bacche nere potrebbe trattarsi di sambuco, i suoi frutti pendono in grappoli fitti e pesanti tra grandi foglie pennate e a ventaglio, di certo li conoscete. Oppure, più probabilmente, si tratta di ligustro: dritte pannocchiette di bacche, slanciate e graziose, e foglioline verdi lunghe e sottili. Le bacche rosaviolacee, nascoste sotto minute foglioline, potrebbero essere quelle del cotognastro; invero dovrebbero essere rosse, ma in questa tarda stagione sono già un po’ troppo mature, cominciano a guastarsi e spesso allora assumono un colore tra il rosso e il viola; le foglioline somigliano a quelle del mirto, sono piccole, appuntite alle estremità, sulla parte superiore sono di color verde scuro e di consistenza coriacea, mentre sulla parte inferiore sono ruvide.[Sonjuša, conoscete la commedia di Platen La forchetta fatale? Potreste mandarmela oppure portarmela? Karl una volta disse di averla letta a casa vostra. Le poesie di George sono belle, ora so da dove viene quel verso che voi spesso recitavate quando passeggiavamo nei campi: «Und unterm Rauschen rötlichen Getreides» («E nel fruscio di spighe rosseggianti»). Se ne avrete l’occasione, potreste ricopiarmi Il nuovo Amadigi? Amo tanto quella poesia – naturalmente grazie al Lied di Hugo Wolff – e non l’ho qui con me. Continuate a leggere la Leggenda di Lessing?3 Io ho ripreso in mano la Storia del materialismo di Lange, che mi è sempre di stimolo e di conforto. Mi piacerebbe se anche voi la leggeste un giorno]. Ahimè, Sonička, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto «vae victis»… Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano. Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. «Neanche per noi uomini c’è compassione» rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi… Scrivetemi presto
Vi abbraccio, Sonička
La vostra R.
Sonjuša, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti – nonostante tutto. Buon Natale!”
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“UNA NON-SENTIMENTALE RISPONDE
A ROSA LUXEMBURG
Innsbruck, 25 agosto 1920
Egregio Signor Kraus,
per caso mi è capitato fra le mani l’ultimo numero della Sua «Fackel» (ero abbonata fino al 4 febbraio dell’anno corrente) e vorrei permettermi di obiettarLe qualcosa in merito alla lettera di Rosa Luxemburg da Lei tanto ammirata, anche se una missiva proveniente dalla sospetta Innsbruck non Le sarà forse troppo gradita. Dunque, la lettera è davvero molto bella e commovente e condivido in pieno il Suo parere: potrebbe benissimo figurare come brano di lettura nei libri scolastici delle elementari e delle secondarie. A mo’ di premessa si potrebbe allora fare anche qualche istruttiva considerazione su quanto più fruttuosa e piacevole sarebbe trascorsa la vita della Luxemburg, se ella anziché fare l’arruffapopoli avesse lavorato, che so io, come guardiana in un giardino zoologico o qualcosa del genere, nel qual caso le sarebbe stata verosimilmente risparmiata anche la «gattabuia». Con le sue competenze botaniche e la sua passione per i fiori avrebbe potuto in ogni caso trovare impiego proficuo e appagante anche in un vivaio di una qualche grandezza, e così non avrebbe di certo conosciuto tanto da vicino i calci dei fucili.
Quanto alla descrizione vagamente patetica del bufalo, mi è facile credere che non abbia mancato d’effetto sulle ghiandole lacrimali delle mogli dei consiglieri di commercio e dei giovani esteti in quel di Berlino, Dresda e Praga. Chi come me però è cresciuta in un vasto podere dell’Ungheria meridionale e fin dalla giovinezza conosce queste bestie, la loro pelle per lo più logora, spesso ulcerosa e la loro «espressione» sempre ottusa, guarda alla cosa senza scomporsi troppo. La buona Luxemburg si è fatta abbindolare ben bene da quei soldati e ha preso, è proprio il caso di dirlo, una bufala (simile alle bufale prese a suo tempo dal Benedikt, buonanima);4 vaghe reminiscenze dei racconti sull’Ultimo dei Mohicani, con mandrie di bufali selvaggi che corrono nelle praterie e via dicendo, hanno avuto qui probabilmente la loro parte. Sarebbe cosa ben degna di ammirazione se in Romania i nostri prodi in grigioverde, oltre a sostenere alcune dure battaglie, avessero avuto anche il tempo, l’energia e la voglia di catturare centinaia di bufali selvaggi per poi farne in un baleno bestie da soma, sarebbe cosa davvero ammirevole e ancor più sorprendente del fatto che bestie così possenti si siano prestate a un simile trattamento. Bisogna però sapere che da tempi immemori, in quelle regioni, i bufali sono allevati e impiegati in genere come bestie da soma, oltre che per il latte. Quanto al foraggio, non hanno particolari esigenze e sono di una forza eccezionale, benché di andatura assai lenta. Non credo pertanto che l’«amato fratello» della Luxemburg potesse essere particolarmente sorpreso nel dover tirare un carro a Breslavia e nel buscarsi un bel colpo sul groppone con «il manico della frusta». Cosa che a ogni buon conto – se non avviene con eccessiva brutalità – è di tanto in tanto necessaria con le bestie da tiro, giacché queste non sempre sono accessibili ad argomenti razionali; allo stesso modo, come madre, posso assicurarLe che un ceffone ha sovente effetti alquanto benefici sui ragazzi più gagliardi. Non bisogna pensare sempre al peggio e compiangere per principio gli uomini (e gli animali), senza conoscere più da vicino le circostanze. Questo non può che recare danni anziché benefici. La Luxemburg avrebbe certo predicato volentieri la rivoluzione ai bufali, se solo avesse potuto, e avrebbe fondato per loro una repubblica bufalina, per quanto resti assai opinabile se le sarebbe mai riuscito di provvedere per loro a quel paradiso – da lei – sognato con «il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori», e se i bufali diano un peso particolare a quest’ultima faccenda. Ci sono davvero molte donne isteriche a cui piace immischiarsi in ogni cosa, e sempre vorrebbero aizzare l’un partito contro l’altro; quando sono dotate di spirito e di bello stile vengono docilmente ascoltate dalla massa e seminano nel mondo grande sciagura, sicché non ci si può poi stupire troppo se chi tanto spesso ha predicato la violenza, la trova poi anche, una morte violenta.Una silente energia, un lavoro nella cerchia a noi più prossima, una tranquilla bontà d’animo e uno spirito conciliante: di questo abbiamo bisogno, assai più che di sentimentalismi e sobillazioni varie. Non lo pensa anche Lei?
Con stima
Frau von X-Y”
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RISPOSTA DI KRAUS ALLA LETTERA
Quel che penso è: assai poco mi cale se un numero della «Fackel» sia giunto «per caso» o per altre vie nelle grinfie di una simile belva, e se costei sia stata abbonata fino al 4 febbraio dell’anno corrente o lo sia ancora. Se lo è stata, è motivo di sommo rammarico che non lo sia più, perché se ancora lo fosse smetterebbe di esserlo dal giorno in cui è giunta questa lettera, ovvero dal 28 agosto dell’anno corrente. È noto infatti che la «Fackel» sa come contrastare una sorte che vorrebbe farla giungere a certi indirizzi. Quel che penso è che questa missiva dalla sospetta Innsbruck mi è assai gradita per un solo motivo, perché non altera in nulla l’immagine da me avuta e poi diffusa circa il livello intellettuale di quella cittadina, anzi mi conferma che tutto è davvero come ha da essere. Quel che penso è che, nel caso le cosiddette repubbliche riuscissero a trovare la forza di tramandare alle generazioni venture la lettera di Rosa Luxemburg attraverso i libri di scuola, dovrebbero allora giustapporvi anche la lettera di questa megera, onde instillare nella gioventù non solo il profondo rispetto per la grandezza della natura umana, ma anche il ribrezzo per la sua meschinità e provocare in tal modo, davanti al più concreto degli esempi, un brivido di orrore per l’inestirpabile mentalità di queste fattrici tedesche, che vogliono deturparci la vita fino a quando la prospettiva di nuove guerre non sia certa come la morte, e sembrano aver giurato a Satana di far accadere ancora e sempre quanto nel 1914, infoiate all’idea della morte eroica, non fecero nulla per impedire. Quel che penso – e con questa abbrutita genia, possidente di terreni e sangue, e con il suo codazzo voglio qui parlar franco una volta per tutte, giacché costoro non comprendono il tedesco e dai miei Contraddetti non riescono a dedurre la mia vera opinione, voglio parlar franco dal momento che ritengo la Grande Guerra un inequivocabile dato di fatto e l’epoca, che ha ridotto la vita umana a un cumulo di rifiuti, uno spartiacque invalicabile – quel che penso è: il comunismo in quanto realtà è solo l’opposto speculare della loro ideologia profanatrice della vita, ma in virtù di una più pura origine ideale è pur sempre un mezzo sghembo alla ricerca di un fine più puro e ideale. Che il diavolo si porti la sua prassi, ma Dio ce lo conservi come costante minaccia sulle teste di coloro che possiedono dei beni e, per preservarli, vorrebbero spedire tutti gli altri a combattere sui fronti della fame e dell’onor patrio, magari con il viatico che la vita non è poi il più alto dei beni. Dio ce lo conservi, affinché questa genia, che da tanta impudenza ormai non sa più cosa escogitare, non diventi ancora più impudente – affinché quelli che hanno accesso esclusivo ai piaceri e sono convinti di aver dato all’umanità loro soggetta una bastevole prova d’amore attaccandole la sifilide, vadano almeno a letto con un incubo! Affinché se non altro passi loro la voglia di predicare la morale alle proprie vittime, e il buon umore per beffeggiarle! Per avanzare considerazioni su quanto sarebbe trascorsa più fruttuosa e piacevole la vita della Luxemburg se fosse stata la guardiana di un giardino zoologico anziché la domatrice di quelle belve umane che poi l’avrebbero sbranata, per chiedersi se avrebbe potuto trovare impiego più proficuo e appagante nel coltivare fiori preziosi (dei quali era senz’altro molto più esperta di una possidente terriera), invece che nell’estirpare erbacce umane – per fare simili considerazioni mancherà il fiato, fintanto che l’impudenza sarà tenuta a freno dalla paura. E ci sarebbe pure il pericolo che un qualsiasi motteggio sulla «gattabuia» in cui è rinchiusa una martire possa trovare immediata risposta nel costruirne una per chi ha osato dire una simile infamia, sempre che non si preferisca un bel ceffone, che, come posso assicurarLe, è mezzo assai benefico con le energiche madri degli eroi. Quanto poi all’ironia sul fatto che Rosa Luxemburg abbia «conosciuto tanto da vicino i calci dei fucili», non sarebbe eccessivo ripagarla con qualche batosta, assestata però solo con il manico di quella frusta che colpì il bufalo di Rosa Luxemburg. Niente sentimentalismi, però! Delle descrizioni lacrimevoli di simili prassi non sappiamo che farcene, non è cosa per i libri di lettura. Chi è cresciuto in una vasta tenuta dell’Ungheria meridionale, dove la pelle comunque già logora e ulcerosa dei bufali non suscita alcuna pietà e la loro «espressione» sempre ottusa si discosta in modo sgradevole dal sembiante ideale dei latifondisti magiari – e dunque è un’espressione che non merita la devozione di una Luxemburg, ma semmai le virgolette a caporale, o meglio le bastonate di una caporalessa – chi è cresciuto da quelle parti sa per certo che in Ungheria, senza batter ciglio, si ricorre anche a ben altre pratiche con le creature di Dio. E sa inoltre che, al riguardo, le possidenti terriere sono in pieno accordo con le mogli dei consiglieri di commercio, e lasciano fare di buon grado. Io penso dunque che certo non ci si debba accendere d’entusiasmo per i tribunali rivoluzionari, né si possa simpatizzare con la prospettiva di quegli ufficiali che, non essendo rimasto loro null’altro fuor che l’onore, si sentono così portati a castrare il prossimo. Sono però abbastanza ingiusto da voler per esempio infliggere alle dame che ancor oggi dicono «i nostri prodi in grigioverde», la condanna di pulire la latrina di una caserma, dopodiché imporrei loro la rinuncia immediata al titolo nobiliare da cui ancora non riescono a separarsi, nemmeno nel gettar fango in modo anonimo su una morta. Invero penso altresì che in Romania, oltre a dover affrontare dure battaglie – e questo proprio perché i libri di lettura fino al 1914 non erano ispirati dall’animo della buona Rosa Luxemburg, ma da quello delle possidenti terriere – i nostri uomini in grigioverde di fatto abbiano avuto anche il tempo, l’energia e la voglia di rubare e domare bufali, e penso poi che, fino a quando le valchirie tedesche e ungheresi guarderanno con ammirazione all’addestramento militare dei bufali, anche gli uomini non saranno al sicuro dall’essere ridotti a bestie da soma. Quel che penso – giacché qui si vuol intendere il mio pensiero e non soltanto la mia parola – è inoltre questo: se anche la parola della buona Rosa Luxemburg non trovasse conferma in alcun dato di fatto e già da molto tempo non ci fosse più alcuna creatura di Dio sulle verdi praterie e tutto fosse ormai asservito al commercio, ebbene, al cospetto di Dio, ella avrebbe detto il vero assai più di questa possidente terriera, che nell’animale apprezza la mancanza di pretese in fatto di cibo e ne deplora soltanto l’andatura lenta. Penso che l’umanità che guarda all’animale come a un amato fratello abbia assai più valore della bestialità che trova sollazzevole una cosa del genere, e se ne fa beffe sostenendo che un bufalo non può essere «particolarmente sorpreso» di dover tirare un carro a Breslavia e buscarsi «una batosta sul groppone» con il manico di una frusta. Perché qui c’è quella ripugnante furbizia che «fin dalla giovinezza» fa credere ai signori del creato e alle loro dame che nell’animale non vi sia alcun moto dell’anima, che esso sia privo di sentimenti proprio come lo sono i suoi padroni, soltanto perché non ha avuto in sorte la stessa dose di superbia e non è in grado di dar voce alle proprie sofferenze in quel confuso gergo di cui costoro, invece, dispongono. Poiché però, rispetto a questa specie, l’animale ha il privilegio di non essere sempre accessibile «ad argomenti razionali», essa ritiene che il manico della frusta sia «di tanto in tanto inevitabile». In verità, lo usa solo per una cupa rabbia davanti a un incerto destino, che sembra riservarle un giorno analogo trattamento. Anche quando schiaffeggiano i propri figli, misurandone le forze con la loro, o quando li fanno vessare da aspiranti teologi dalle vivide inclinazioni sessuali, si comportano così solo perché hanno da temere qualcosa dalla vita o dal cielo. Ai loro figli è dato tuttavia il vantaggio di poter cancellare l’onta d’essere nati da cotanti genitori decidendo di diventare migliori di loro, a meno che non vogliano vendicarsene sui propri figli. Agli animali, che solo con la violenza o l’inganno sono ridotti in servitù, l’umano consesso riserva altra sorte: quella d’esserne prima disonorati e poscia divorati. L’uomo offende l’animale quando, per offendere i propri simili, li chiama con nomi di animali, sì lo stesso «bestia» non è per lui nient’altro che un insulto. Di nulla più sa stupirsi, e all’animale, che ancora non l’ha disimparato, non concede lo stupore. All’animale non è permesso di stupirsi per l’oltraggio subito più di quanto non si stupisca l’uomo che glielo infligge; un bufalo non deve stupirsi di Breslavia, così come il possidente terriero non si stupisce se un essere umano trova una morte violenta. Là dove il mondo va a rotoli per il loro ordine, costoro trovano che tutto sia in perfetto ordine. Cosa vuole la buona Luxemburg? Naturalmente lei, lei che non possedeva altri beni se non il proprio cuore e voleva guardare a un bufalo come a un fratello, lei avrebbe ben volentieri predicato la rivoluzione ai bufali, se solo avesse potuto, avrebbe fondato per loro una repubblica dei bufali, magari con il canto armonioso degli uccelli e il melodico richiamo dei pastori – laddove resta dubbio se «i bufali diano un peso particolare a quest’ultima cosa», giacché ovviamente preferiscono che tutto il peso venga posto soltanto su di loro. Purtroppo non ci sarebbe riuscita in alcun caso, essendovi al mondo più bestie che bufali! Che le sarebbe comunque piaciuto provarci dimostra appunto come ella fosse una delle molte donne isteriche che volentieri si immischiano in ogni cosa e sempre vorrebbero aizzare l’uno contro l’altro. Ora, quello che penso è che nella cerchia delle possidenti terriere questo quadro clinico si staglia in modo così netto sullo sfondo delle faccende domestiche e campestri da indurci a credere che costoro siano delle rivoluzionarie nate. A guardar meglio ci accorgeremmo, però, che sono soltanto delle oche. In tal modo ricadremmo tuttavia ancora una volta nella delittuosa superbia della razza umana, pronta ad accusare dei propri difetti e delle proprie pecche gli animali indifesi, mentre per esempio a un bue che vive a Innsbruck o a un’oca cresciuta in un latifondo dell’Ungheria meridionale non è mai passato per la testa di offendersi a vicenda dandosi del «cittadino di Innsbruck» o della «possidente ungherese». E anche quando avessero l’ardire di pronunciarsi su cose pertinenti l’intelletto, non comincerebbero a parlare di «bello stile», né riconoscerebbero con sussiego una qualità che a loro fa difetto in modo tanto vistoso. Benché non siano sempre «accessibili» ad argomenti razionali, avrebbero fin troppo tatto per inviare una lettera così malscritta e fin troppo pudore per scriverla. Non c’è oca che abbia una penna tanto cattiva da riuscirvi. Non lo pensa anche Lei? È intelligente, docile di natura e può essere certo mangiata dalla sua padrona, ma scambiata per lei no. Quel che quest’ultima, da parte sua, ha in più rispetto all’altra è che in casi estremi, qualora prendano pure lei per il collo, davanti al cielo sa comunque arrangiarsi con il suo catechismo e ha ancora la bontà verso se stessa di mettere in guardia gli altri, affermando che non «bisogna pensare sempre al peggio e compiangere per principio gli uomini (e gli animali), senza conoscere più da vicino le circostanze; questo non può che recare danni anziché benefici». Danni soprattutto per chi è predestinato a essere padrone di genti (e animali), il cui possesso risale a una disposizione divina che solo alcuni sobillatori – gente estranea al paese come ad esempio quel tal Gesù Cristo – vorrebbero mettere in discussione, e che nondimeno resta in vigore, giacché la brama di beni materiali, vivaddio, è più antica della dottrina cristiana e sopravviverà a essa. Ecco quel che penso!”