Unicuique suum (di Rita Simonitto)
Se fosse stato uno scrittore esordiente il suo incipit sarebbe stato: “si svegliò madido di sudore”. Ma non era un esordiente e nemmeno scrittore.
Ciò nonostante quello che gli stava capitando era inquietante, oltre i limiti della rappresentazione. Come si fa a raccontare che aveva l’impressione che era il suo corpo che si stava liquefacendo e che quel liquido pian piano si stava allargando sul lenzuolo sudaticcio e caldo?
Avrebbe voluto rotolarsi nel letto come quando si è presi dalla disperazione, ma con sgomento si accorse che per farlo c’era bisogno di contorni, di un perimetro ben definito entro il quale muoversi e invece tutto il corpo sembrava sfuggire al suo controllo e disperdersi nello spazio. E gli sembrava che pure il pensiero subisse la stessa trasformazione: pensieri che prima potevano sembrargli chiari e distinti adesso si sovrapponevano l’un l’altro confondendosi come onde. Un flash mnemonico gli attraversò la mente e aveva a che fare con la definizione che veniva data oggi alla società: società liquida, ma che cosa … epperò quel flash subitamente si spense senza far posto a nulla cui potersi aggrappare.
Solo l’angoscia e il cuore che tonfava colpo su colpo gli potevano dare la dimensione del suo esserci, ma era troppo poco per tentare una qualsiasi connessione.
Perché e come si trovava lì? E da quanto tempo giaceva in quelle condizioni? Ci poteva essere qualcuno vicino a lui che si sarebbe accorto di quella tragica situazione? Un altro flash si accese e scivolò via con altrettanta velocità.
L’unico brandello che riuscì a trattenere fu “discorso”, dover “fare un discorso”. Ma a chi, quando, dove?
Il soffitto della stanza, con le sue istoriazioni, sembrava guardarlo quietamente, forse lo riconosceva… questo è già un buon punto di solidità: se qualcuno (o qualcosa) ci riconosce, vuol dire che esistiamo! Forse poteva essere un sistema quello di aggrapparsi ad un particolare e da lì poi incominciare a tessere qualche cosa, ed ecco che un grido irriconoscibile gli sfuggì da una gola così riarsa (avrebbe dovuto essere umida anch’essa, no!?) che pareva il vibrare di stecche al vento.
Informazioni dissonanti che rendevano problematico ogni tentativo di connessione. Smembrato!
E se si fosse trattato di un incubo? Quest’altro flash per un nanosecondo sembrò risollevarlo ma poi ripiombò nel limbo. Nell’incubo ci sei tutto dentro però ne puoi uscire svegliandoti, mentre la sua percezione, per quanto scomposta, era la compresenza di un dentro e un fuori, ma un fuori che però non aveva alcuna possibilità di accesso. La sola parte del suo corpo che riusciva a muovere erano gli occhi perché aveva la sgradevolissima sensazione che le sue membra fossero disperse, non orientabili nel tempo e nello spazio.
Più che un flash, ci fu un lampo che stracciò quella cortina indefinita con un termine lapidario “metamorfosi”. Per quel poco di pensiero su cui poteva ancora contare fu davvero un fulmine devastante. Non era che si stesse trasformando in un ectoplasma? Peggio, molto peggio di quello che era accaduto a Gregor Samsa (*): almeno lui, in qualche modo, sia pure con difficoltà estreme, riusciva ad articolare le sue zampette! Muovendo le ciglia percepì un lieve cambiamento di luce: forse qualcuno era entrato nella stanza? Ma era inutile perdersi in congetture perché i fili delle connessioni sembravano essere del tutto recisi.
E intanto il cuore continuava a fare tumpf, tumpf. Ma, senza un coordinamento, un senso a che serviva tutto ciò? Il sudore, o almeno quello che lui percepiva come sudore, anziché fargli sentire freddo, sembrava caldo. Sussultò. E se fosse sangue? Forse stava sudando sangue? E se sudava sangue forse stava diventando santo? L’orrore di quella ipotesi gli fece chiudere gli occhi come a chiudere fuori portata ogni elemento che potesse avvicinarsi e quella idea. Nel buio nel quale si era chiuso emerse un ricordo di quando era chierichetto: stimmate? Il corpo come una grande stimmata? Ma di che cosa? E poi anche quella domanda svanì. Scoprì che più cercava di stare sveglio e attivo e meno riusciva a mettere a fuoco la situazione.
Un’altra ombra passò vicino a lui ma non riuscì ad identificarla. Chi mai poteva essere? Ma se lui stesso non riusciva a definirsi, a ritrovarsi, come sarebbe stato possibile definire l’altro? O forse l’ombra non era che una parte di sé che se ne stava vagando senza il suo legittimo proprietario? Per un attimo gli passò davanti l’immagine della sua faccia inespressiva: ma era proprio lui quello? Per avere delle espressioni sarebbe importante avere delle passioni. Ma lui, quali passioni aveva? Quali passioni aveva avuto?
Scoprì che se, da un lato, riuscire a porsi queste domande gli permetteva di avere una pur flebile percezione di sé in quel momento in cui sembrava galleggiare senza confini, dall’altro, la pochezza, la miseria delle risposte lo faceva sentire ancora di più sperduto. Ma quel sentimento di sperdutezza non era forse quello che lo aveva portato, nella vita, ad appoggiarsi a qualche spalla, più o meno compiacente, più o meno stimolante, fino a relegarlo in quel ruolo tipico in cui una persona si fa portatrice dei pensieri e dei desiderata di qualcun altro? Indubbiamente era una forma di paralisi emotiva, una immobilità che però aveva un suo lato positivo, se così lo vogliamo chiamare. Non entrava mai in conflitto con nessuno, si plasmava sull’altro senza fatica alcuna. Ovvero, un po’ di fatica c’era, soprattutto quando quell’altro manifestava personalità forti e lui aveva l’impressione di subirne il potere piuttosto che poterselo ingraziare.
Dopo essersi ritirato in questi pensieri interni, riaprì gli occhi per capire se qualche cosa stesse cambiando. Ma tutto sembrava stranamente immobile, come senza tempo.
Come ne sarebbe venuto fuori?
Ma per poterlo fare era necessario sapere chi era, quale era il suo ruolo nella società… “discorso al paese…”. Sì, ecco che ritornava quel flash di poco prima. Ma quale paese? Al suo paesello non avevano bisogno certo dei suoi discorsi e poi, lui, i discorsi se li faceva preparare….. già, ma allora doveva esserci accanto a lui qualcuno che glieli preparava, che lo aiutava a fare la voce grossa e perentoria, ma lì non vedeva nessuno.
Un attimo di scoramento lo travolse e gridò dentro di sé, perché ormai non un filo di voce gli poteva uscire dalla gola, come fece Gesù nell’orto del Getsemani “Padre, allontana da me questo calice!”
A quel muto richiamo qualcosa si stagliò in quell’assurdo chiaroscuro. Ai piedi del letto un’ombra dai contorni aguzzi e irregolari lo stava guardando sorniona. Pur nel sibilìo della sua voce le parole le uscivano chiare. Sillabava: “Eri tu quello che non voleva credere alla mia potenza? Eri tu quello che mi ha sfidato dicendo che ero poca cosa e che mi avresti debellato in men che non si dica? Invece eccomi qua.
Sono il Coronavirus.”
(*) Protagonista del Racconto di F. Kafka, La Metamorfosi.