UNIONE EUROPEA E ECONOMIA NAZIONALE di M. Tozzato

Sul Corriere del 03.04.2011 l’editoriale di Panebianco vorrebbe porre il problema del riaffacciarsi dei nazionalismi all’interno dell’Unione europea. Secondo il politologo appaiono ormai in crisi le “due forze che hanno sempre dato coesione al mondo occidentale”: la credibilità della leadership americana e la solidarietà infra-europea. L’”esplosione” della depressione economica ha agito particolarmente sulla prima, la bocciatura del trattato costituzionale nel 2005 e le difficoltà dell’euro avrebbero determinato l’indebolimento della seconda. Panebianco, inoltre, mantiene l’assunto che

<<La comunità euro-atlantica (lo storico legame fra Europa e America) e l’integrazione europea, direbbe un giurista, simul stabunt vel simul cadent, sono legati a corda doppia, staranno o cadranno assieme.>>

Evidentemente la nostra valutazione è totalmente differente e praticamente si situa all’estremo opposto; a questo proposito in un recente intervento in questo blog Giuseppe G. scrive:

<<Il primo limite, vero peccato originale, è il suo [dell’Ue n.d.r.] tropismo, la sua impossibilità ad esistere ed alimentarsi senza l'impulso esterno americano. Le vicende di politica estera, in cui sono coinvolti i paesi europei, sono emblematiche. Se nel dopoguerra questa dipendenza era sostenuta discretamente dai confini circoscritti della Comunità, dalla relativa omogeneità delle condizioni di partenza e dal potente contrappeso ideologico del sovietismo che spingeva ad una grande cautela nella gestione dei rapporti politici e sociali interni, dagli anni '90 cambiano totalmente i parametri di riferimento entro cui muoversi. Nel nuovo scenario la pressione americana per giungere ad un suo allargamento repentino agli stati centro-orientali e alla Turchia è insistente e fruttuosa, tanto più perché accompagnata al sostegno efficace alle forze separatiste nei Balcani e ai confini della Russia. L'obbiettivo strategico era allargare la propria area di influenza, destabilizzare e umiliare la Russia, con il corollario non trascurabile di indebolire l'Europa e, con l'ulteriore frammentazione, poterla manipolare meglio; accentuare, quindi, il carattere economicistico del sodalizio, vista l'eterogeneità della condizione dei singoli stati.>>

Non ha torto l’editorialista, però, quando osserva che nell’attuale crisi libica le tensioni tra gli stati europei sono alimentate dal “deficit di leadership americana” anche se si potrebbe forse parlare più propriamente di una tattica dell’attuale amministrazione Usa mirante a lavorare sotterraneamente lasciando, invece, il davanti della scena agli attori europei. E anche lui è costretto ad ammettere che il risultato si vede nel fatto che l’Italia è stata

<<lasciata fin qui sola dall’Europa a vedersela con gli sbarchi e, in più, con il sospetto che il vero scopo dell’impresa sia accrescere l’influenza anglo-francese in Libia a scapito dell’Italia>>

Naturalmente il “sospetto” a noi pare ben fondato ed altrettanto fondata ci pare l’opinione dei tedeschi su una Ue politicamente acefala e con un sistema giudico–istituzionale che la rende strutturalmente incapace di fare scelte politiche e di prendere decisioni significative, unitarie ed autonome. Panebianco vorrebbe anche considerare quella che a lui pare l’altra faccia della medaglia:

<<L’altra faccia è che una compattezza europea, e anche una leadership tedesca, ci sono e si manifestano su un diverso terreno, quello della governance economica dell’Europa. L’intesa raggiunta dal Consiglio europeo del 24-25 marzo, la riscrittura delle regole del “Patto di stabilità e di crescita” non segnano forse un salto di qualità proprio sul piano cruciale della governance e non annunciano progressi in tema di integrazione dei mercati ?>>

A parte i dubbi sulla maniera in cui sono posti i vincoli alla spesa e al debito pubblico e sulla capacità di questi – in sinergia con la politica monetaria della Bce – di rilanciare la crescita e l’innovazione nei settori di punta, dobbiamo rilevare che il “nostro” politologo è costretto ad ammettere, comunque, che per permettere ad un ambito, ad una sfera specifica, della formazione sociale europea complessiva di funzionare è necessario che uno Stato – o un ristretto gruppo di stati – prenda il comando e diriga le operazioni. Il panorama attuale appare in proposito del tutto scoraggiante, ma il nostro auspicio – come ricordato più volte – sarebbe orientato verso una alleanza tra alcuni stati che possano assumere un ruolo direttivo e trainante come, ad esempio, Germania, Francia ed Italia. Sempre che il nostro “povero paese” sappia liberarsi finalmente della zavorra di un ceto, politico ed economico, parassitario ed incapace, ritrovando dentro di sé delle forze che ancora sembrano inesistenti o nascoste.

Sul Sole 24 ore di oggi, 03.04.2011, vengono riportati alcuni passi dell’intervento di Tremonti tenuto ieri al workshop di Cernobbio:

<<Per come è cambiato il mondo, in una competizione tra giganti sarebbe meglio adesso avere l’Iri. Mi rendo conto che è come violare il tempio del dio mercato, ma i cinesi ti dicono che dovremmo avere una struttura collettiva pubblica o una grande multinazionale capace di trattare con i giganti. E’ quello che vediamo fare fuori, l’economia tedesca è un gigante che parla tra giganti. A noi servirebbe la vecchia Mediobanca. Una volta c’era la grande Mediobanca e l’Iri, c’erano strutture capaci di organizzare il sistema. Invece noi continuiamo a fare spezzatini… Ora abbiamo una norma, come quella francese, che consente alla Cassa depositi e prestiti, che è già privata con soci privati, di fare un fondo aperto ai privati identico al fondo strategico francese.>>

Senza sopravvalutare le parole del ministro dell’economia bisogna dire che in queste frasi è presente una prospettiva di sviluppo “nazionale”; Tremonti afferma che è necessario – proprio di fronte all’esasperata competizione globale e in presenza di una formazione sociale mondiale in cui un coordinamento centrale è ormai venuto meno – ricostruire delle strutture nazionali in cui lo Stato possa promuovere e coordinare uno sviluppo autonomo delle nostre potenzialità economiche. Queste strutture ci permetterebbero di acquisire la forza per muoverci in contrapposizione, anche con eventuali alleanze tattiche, nei confronti delle altre potenze nell’arena globale e nei settori strategici. Anche la Fiat-Crysler è una grande multinazionale ma il suo “ruolo strategico” è quello di perpetuare ed approfondire la nostra subordinazione nei confronti degli Usa soprattutto in termini politici e finanziari; si tratta, quindi, di fare in modo che Eni e Finmeccanica non siano le sole imprese con un ruolo internazionale significativo e ancor più di acquisire una dimensione politica-statuale che in situazioni cruciali come quella attuale ci permetta di intervenire in loro difesa (leggo proprio adesso che Eni sta reagendo bene alle difficoltà libiche: nel Mare di Barents [Norvegia] avrà in gestione un maxi pozzo appena scoperto, mentre il governo americano ha dato proprio ieri il permesso alla nostra azienda di &
ldquo;perforare” nel Golfo del Messico). In un altro articolo l’economista e dirigente d’azienda G.M. Gros-Pietro dopo aver affermato che l’Iri nella sua ultima fase di vita era solo

<<un conglomerato che aveva perso l’originaria ispirazione per i grandi progetti e che creava posti di lavoro in perdita e posti di comando di clientela, per costruire consenso>>

non può rinunciare a puntualizzare che

<<anche nelle industrie non finanziarie il mercato concorrenziale dei libri di testo non è quello che funziona nei settori di punta; immensi investimenti in innovazione e penetrazione dei mercati costituiscono barriere all’entrata che possono essere affrontate solo da soggetti talmente grandi da essere per definizione estranei alla concorrenza classica.>>

E, in sostanza, il professore spiega che la “partita” si gioca su altri “tavoli”; e su questi tavoli agiscono in maniera prepotente i grandi “fattori di sistema”: dinamica demografica, dotazione di risorse naturali e tecnologiche, posizione geografica, potenza militare e altri di impatto minore. E in conclusione la gestione di questi fattori non può non essere affidata allo stato sia per motivi funzionali che per la dimensioni degli interventi.

Mauro Tozzato 03.04.2011