UNITED SUNNI OF AMERICA

 

Quando su questo sito/blog abbiamo inaugurato il termine “ceto medio semi-colto”, non ritenevamo di poter coinvolgere una così larga fetta di personaggi di vario genere. Difatti, questa espressione si sta rivelando sempre più pregnante nella capacità di descrivere una precisa area sociale, oggi senz’altro qualificabile come la più reazionaria e maggiormente responsabile della catastrofe dell’Italia. Chiaramente, esecutori materiali della macelleria sociale del nostro Paese sono le nostre classi dirigenti, tutte, a cominciare dal centro-sinistra degli anni Novanta, nato come (e questo ormai è risaputo da chi ci segue regolarmente) la risultante di una trasformazione di campo, avviata molti anni prima e passata per diverse fasi di “preparazione”, tra cui – sempre sottolineate da Gianfranco La Grassa – la svolta berlingueriana, la convergenza tra berlingueriani ed ingraiani ed il viaggio di Napolitano in America nel 1978. Ingrao pochi mesi fa è uscito dal letargo, salutando la sua figliolanza politica (la surreale “sinistra poetica”, poi sviluppata in modo ancora più degenerativo da personaggi quali Bertinotti e Vendola) e ribadendo come Gheddafi fosse un “mascalzone”, che meritava di essere punito.

Al coro si è aggiunta ovviamente tutta la carta stampata della sinistra italiana, che, in stile Rambo3, ha cominciato a dipingere i “ribelli” libici come dei nuovi “eroi” del popolo, dei partigiani della “resistenza” contro il “dittatore”, al massimo avanzando debolissime riserve sulle reali intenzioni delle potenze Nato, ma senza alcun serio ragionamento di ampia portata, ed anzi, richiamandosi, tutt’al più, al solito slogan della “guerra per il petrolio” e alla demagogica necessità di dover per forza individuare analogie storiche tra il colonialismo del XIX-XX secolo e la situazione odierna, in modo da sdoganare le proprie posizioni di fronte ai “paladini della democrazia e dei diritti umani”.

Qui il ragionamento da affrontare è molto più ampio, e richiamare l’attenzione sull’estetica monarchico-coloniale dei ribelli (bandiera di Re Idris) dovrebbe soltanto costituire una provocazione ed un monito di superficie, a cui poi dovrebbe seguire una ben più vasta argomentazione strategica, non certo un trito e vuoto progressismo in salsa terzomondista e pacifista del tipo “la guerra è brutta” o “war is not the answer”.

Il paragone tra l’intervento in Libia e le operazioni in Kosovo è stato tirato in ballo proprio alla fine di aprile, dalla stessa Hilary Clinton, memore dell’infame decisione del marito nel 1999, auspicando in sostanza per Gheddafi la stessa fine di Milosevic: catturato e condotto in una cella de L’Aja senza speranza di uscirne fuori vivo. Allora la teppaglia sciolta e armata dalla Nato nei Balcani era costituita dall’UCK, un insieme di bande di narcotrafficanti, criminali e terroristi islamici, assoldati ed addestrati dalla Cia negli anni precedenti, in previsione dei catastrofici scenari di conflittualità inter-etnica che sarebbero comparsi nei Balcani, all’indomani della dissoluzione del socialismo in Jugoslava e in Albania, per impedire la formazione di una Grande Serbia a maggioranza ortodossa, che – conclusasi la fase di contrapposizione aperta dalla crisi sovietico-jugoslava provocata da Tito – avrebbe spalancato un nuovo varco europeo per Mosca. Osservatore interessato di allora, così come della situazione attuale, era ed è la Turchia che, circa cinque secoli prima, proprio nei Balcani aveva lasciato le sue imponenti tracce, così come in Medio Oriente e lungo la sponda africana del Mediterraneo.

D’altronde basta dare uno sguardo alla cartina dell’Impero Ottomano nel momento della sua massima estensione (grosso modo individuabile nel 1683, poco prima dell’inizio del suo declino, avviato dal Trattato di Karlowitz del 1699), per notare la curiosa coincidenza tra i luoghi conquistati durante i tre secoli di proiezione imperiale (1359-1683) e i Paesi interessati dalle “rivolte del mondo arabo” e dalle recenti destabilizzazioni della dorsale afro-mediterranea. L’Algeria (dove soltanto la repressione del governo boumediennista di Bouteflika ha impedito il peggio), la Tunisia, la Libia, l’Egitto, il Sudan (referendum che ha spaccato il Paese nel luglio scorso indebolendo la posizione del governo di al-Bashir e la presenza commerciale cinese), la Siria e la Penisola Araba.

Proprio i regimi sunniti del Golfo sono gli unici Stati a non aver subito alcuna ripercussione determinante in seguito alle proteste di piazza, tanto che il Bahrein ha potuto tranquillamente reprimere la folla senza alcuna ingerenza ostile esterna, avvalendosi dell’ausilio dei mezzi militari dell’Arabia Saudita, mentre il Qatar ha addirittura fornito supporto logistico per le operazioni Nato contro la Libia.

Da anni, gli analisti insistono sul tema della cosiddetta politica neo-ottomana di Ankara, senza mai raggiungere un’interpretazione univoca delle intenzioni del premier Recep Tayyip Erdoğan e del ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu, vero e proprio artefice della linea di politica estera della Turchia negli ultimi anni. La riconferma dopo le ultime elezioni ha lasciato poco spazio al dubbio: il potere politico dell’AKP all’interno del Paese è schiacciante, e può contare non solo su una maggioranza relativa in parlamento, ma anche sull’appoggio del presidente della repubblica Abdullah Gül, proveniente proprio dalle stesse fila politiche. Le nette prese di posizione di Ankara in favore delle rivolte e l’ospitalità concessa proprio dalla Turchia al “governo siriano in esilio”, formato da rappresentanti dell’opposizione al governo del laico Assad, hanno delineato con nettezza la posizione della Sublime Porta, favorevole alla costituzione di nuovi sistemi politici sul modello post-kemalista che la Turchia di oggi sembra incarnare: caratteristiche culturali sunnite ed orientamento geopolitico moderatamente ma decisamente rivolto verso Unione Europea ed Occidente. Il dibattito è serrato da anni: nessuno riesce a comprendere con chiarezza cosa rappresenti la Turchia odierna e come sia possibile conciliare le suggestioni neo-ottomane con la pesante eredità laicista del nazionalismo di Mustafa Kemal Atatürk, le spinte per l’ingresso nell’Unione Europea con il ritorno ad un sentimento islamico molto profondo, la ricerca di una centralità geopolitica nel complesso mosaico del Mediterraneo con la presenza (necessariamente subalterna agli Usa) nel quadro della Nato.

Appare chiaro, tuttavia, come Washington (paese-guida della Nato) ed Ankara (membro Nato) stiano entrambe sostenendo a pieno ritmo le ragioni delle rivolte, sino a supportare militarmente i ribelli (come nel caso della Libia) o ad ospitare governi clandestini in esilio (come nel caso della Siria). Ed appare altrettanto evidente come la strategia di Obama sia chiaramente ispirata all’idea brzezinskiana di ricomporre i rapporti col mondo islamico, pesantemente rovinati durante il periodo 2001-2006, quando le tesi religiose dei neo-cons (Paul Wolfowitz e Dick Cheney) e le tendenze strategiche “fideiste” nei confronti del network-centric warfare (Donald Rumsfeld), prevalsero su quelle realiste (Condoleezza Rice), rendendo necessario l’avvicendamento alla Difesa con un ben più pragmatico e risoluto Robert Gates (2006), rimasto in carica durante il mandato Obama fino al 30 giugno scorso, quando Leon Panetta ne ha preso in dote la poltrona.

Per gli Stati Uniti, il pericolo principale, tanto in Africa quanto in Medio Oriente, è chiaramente l’espansione della sfera d’influenza della Cina, enucleatasi nella trama cooperativa che Pechino ha intessuto negli ultimi dieci anni, specialmente attraverso il Forum On China-Africa Cooperation, evidente dai crescenti scambi energetici e tecnologici con Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Yemen, Oman e Sudan. Non appare casuale quanto emerso all’interno del rapporto stilato nel febbraio scorso dal ministro per il commercio della Repubblica Popolare dove si stimava che “al 24 febbraio erano stati attaccati e devastati 27 cantieri e stabilimenti cinesi: unità dell’esercito e gruppi di ribelli hanno attaccato edifici, distrutto veicoli e macchinari, rubato denaro e quant’altro potevano”, come riportato da Asianews. Ben 36.000 lavoratori cinesi erano attivi nei cantieri e nelle strutture aperte in Libia dalle compagnie del gigante asiatico durante gli ultimi anni, tutti costretti alla fuga e puntualmente soccorsi da mezzi di aria e da una nave militare cinese che ha raggiunto le coste libiche in pochi giorni, attraverso l’Oceano Indiano, per favorirne l’evacuazione dal Paese.

Se l’obiettivo americano è chiaramente quello di estromettere la Cina (e in subordine la Russia) dallo scenario africano e mediorientale, per Ankara il compito appare più suggestivo ma molto più complesso. La Turchia, infatti, è l’unico paese islamico a godere di un livello di sviluppo sostanzialmente identico a quello occidentale: una solida industria, avviati e stabili rapporti commerciali con l’Unione Europea e con gli Stati Uniti, ed un forte esercito, tra i più imponenti e forniti all’interno dell’area Nato. Una maggiore e più diretta influenza sul mondo islamico a maggioranza sunnita, implicherebbe per la Turchia rapporti molto stretti con i Paesi produttori di petrolio nel Golfo, un soft-power indirizzato alla diffusione del sunnismo militante nelle aree ancora legate ai lasciti culturali del ba’athismo (la Siria anzitutto, ma anche diverse regioni dell’Iraq, dell’Egitto e del Libano) consentendo agli Stati Uniti di eliminare la presenza navale russa nel Mediterraneo (porti siriani di Tartus e Lakatia) e di isolare l’Iran sciita degli Ayatollah, stringendolo nella morsa del ricatto economico o militare. Si concluderebbe così la stagione dei tradimenti interni al fronte Iran-Siria-Turchia, nato sotto i migliori auspici qualche anno fa e, oggi, già prossimo all’implosione dopo le posizioni completamente contrastanti ed inconciliabili, emerse durante i sei mesi di rivolte nel mondo arabo.

Resta inoltre da capire il vero obiettivo turco nel quadro dei pesanti contatti commerciali e culturali tra Ankara e l’Azerbaigian – vero motore petrolifero del Caucaso – ma soprattutto tra Ankara ed il Turkmenistan, paese che – raggiunta l’indipendenza dopo il 1991 – si è rinchiuso in un orgoglioso isolamento dettato dall’ex presidente Nyyazow, e ancor oggi unico Paese centro-asiatico rimasto fuori dall’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, malgrado l’avvicendamento alla guida della repubblica con il più “aperto” Berdimuhammedow.

La formidabile potenzialità strategica di una vera e propria proiezione “sferica” (a 360° gradi, verso nord, sud, est ed ovest) come quella della Turchia, può dunque trasformarsi in un pericoloso fattore di destabilizzazione per la Russia – costantemente alle prese con le infiltrazioni terroristiche e separatiste di matrice islamica nelle regioni caucasiche del Dagestan, dell’Inguscezia e della Cecenia – e per la Cina, regolarmente impensierita dalla questione uigura e dall’estremismo islamico nell’immensa e decisiva regione dello Xinjiang.

Probabilmente non assisteremo ad alcun ritorno dell’Impero Ottomano, né tanto meno alla rinascita di un “feroce saladino”. Molto più presumibilmente, entro breve, la Turchia potrebbe rivelarsi come una decisiva testa di ponte per gli interessi strategici americani all’interno della massa eurasiatica.