Uno scheletro nell'armadio dello Stato: la morte di Pinelli – di Giancarlo Paciello
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Introduzione
Sono certo che molti lettori di questa rivista erano presenti il 13 dicembre 2003, a Roma, per affermare con forza, contro ogni opportunismo, il diritto del popolo iracheno a resistere e il dovere antimperialista di solidarizzare con esso. Il tempo, galantuomo, si è affrettato a confermare la giustezza di quella scelta, anche se naturalmente anche altri agitano soltanto ora, e sempre ambiguamente, la necessità di sostenere la resistenza irachena.
Ma penso che questo tema sia affrontato e sviscerato con la dovuta profondità in altre parti del giornale e non è mia intenzione invadere inutilmente il campo di tali argomentazioni. Ho fatto riferimento al 13 dicembre per un motivo molto preciso. C’ero anch’io e, in un breve intervento, di fronte ad un uditorio piuttosto stanco per aver partecipato ad un dibattito di diverse ore, ritenni opportuno ricordare un 13 dicembre di 34 anni prima, il giorno successivo alla strage di piazza Fontana.
Parlai in quella occasione, dell’opportunismo del PCI che, mandando alla malora la sua anima democratica, puntò soltanto a smarcarsi dalla sinistra extraparlamentare, sostenendo la sua totale estraneità da essa (arrivando al ridicolo di presentare la fotografia di Valpreda con un braccio tagliato per evitare che si vedesse il suo saluto con il pugno chiuso!), senza capire (o facendo finta di non aver capito) nulla dell’attacco sferrato contro le lotte proletarie e contro la democrazia. Trovavo infatti una certa assonanza tra quel comportamento e quello dei giornali “comunisti” di oggi.
Parlai anche, ad un uditorio che per il 90%, nel 1969, non era ancora nato o lo era soltanto da poco, e parlai di Pinelli. Un uomo nel quale mi sono empaticamente identificato, come mi succede nei confronti di tutti coloro che, coerentemente, hanno combattuto e combattono per un ideale di libertà e di eguaglianza.
La vicenda di Pinelli è emblematica. Convocato in questura, vi si reca con il suo Benelli, la sera del 12 dicembre 1969. Ne esce, da morto, precipitato da un quarto piano, la mattina del 16. Nessuno dei fedeli servitori dello Stato che hanno avuto rapporti con lui in quei tre giorni, ci ha saputo dare, con il passare degli anni, una spiegazione circa la sua morte e a nessuno degli stessi fedeli servitori è stata chiesta la spiegazione medesima. A nessuna delle Autorità è mai venuto in mente di ricordare la figura del ferroviere anarchico milanese, morto in questura senza essere responsabile di nulla.
Eppure, l’Istituzione dello Stato che ti convoca, oltre al diritto di chiederti quello che ritiene opportuno per proteggere la comunità, (in presenza del tuo
avvocato!) ha anche il dovere – mi pare – di proteggere il convocato. Certo, in tempi in cui si vuole legalizzare la tortura, e con le notizie orripilanti che vengono dall’Iraq, queste considerazioni possono sembrare molto strambe, ma non tanto, se si pensa che, in clima di globalizzazione, tutto si importa e si esporta com’è il caso della democrazia!
Ma come mai, a maggio (2004), ti viene in mente di parlare proprio di Pinelli, uno tra i tantissimi (milioni e milioni) con i quali dici di identificarti empaticamente? La domanda è giustissima anche se, in questo caso, me la sono fatta da solo.
Ebbene è stata talmente forte la provocazione di due articoli usciti su la Repubblica il 13 e il 14 maggio (e non ho letto quelli degli altri giornali…) che non ho potuto, né voluto resistere all’impulso di denunciarne la falsità, oltre che una debordante ipocrisia. Gli articoli sono: Il commissario senza pistola di Giampaolo Pansa (quello del 13) e La medaglia al commissario di Giuseppe d’Avanzo (quello del 14). Analizzando questi due articoli, innanzitutto cercherò di calmarmi, con una sorta di procedimento omeopatico, ma soprattutto tenterò di restituire storia e memoria ad un martire proletario: Giuseppe Pinelli.
Si dirà che ormai questo è un linguaggio desueto, ma io credo non si debba mai lasciare spazio a semplificazioni che spingono verso la falsificazione dei fatti. Proletario Pinelli lo era, anche sociologicamente parlando, quanto al suo martirio è assolutamente indiscutibile che ci sia stato, vista la sua totale estraneità alle bombe di piazza Fontana. Che sia dipeso dalla sua ideologia che non circola abitualmente per via Montenapoleone, non ci sono dubbi!
La memoria di Pansa
Cominciamo con l’articolo di Pansa. Il giornalista sa come catturare l’attenzione del lettore e dichiara di ricordare benissimo dove si trovava la mattina del 17 maggio 1972, quando fu ucciso il commissario Calabresi, e le modalità con cui venne a conoscenza del fatto. Un bell’inizio, che gli permette di tornare indietro di 32 anni, per poi procedere ad un ulteriore flash-back di cinque o sei settimane che lo porta alla questura di via Fatebenefratelli, nella stanza del capo della sezione politica Antonino Allegra, dove, in cerca di notizie, s’imbatte in Calabresi.
Passaggio brusco, eccolo descrivere il commissario:
“Aveva 34 anni, era un giovane slanciato, asciutto, il solito pullover a collo alto sotto la giacca, il volto segnato dallo stress, lo sguardo scheggiato dal risentimento e dall’amarezza”.
E siamo al dialogo assai diverso dagli altri incontri:
“Da due anni sto sotto questa tempesta. E lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere. Non posso più fare un passo. E’ bastato che mi vedessero uscire dall’obitorio dove era stato portato Feltrinelli, per sostenere che avevo già
cominciato a trafficare attorno al cadavere dell’editore, con i candelotti di dinamite […] Che Paese è mai diventato questo? A volte ti vien voglia di… “.
Al dialogo è presente anche il dottor Allegra che riprendendo alcune considerazioni su “piccoli nuclei di terroristi rossi”, si lascia andare ad uno “Speriamo che non comincino a sparare sui poliziotti”.
E così, l’abile ricostruzione del ricordo permette all’autore di chiedere a Calabresi se ha paura, per riceverne la risposta canonica:
“Paura no, perché ho la coscienza tranquilla. [ … ]. No, non ho paura. Ogni mattina esco di casa tranquillo. Vado al lavoro sulla mia 500, senza pistola e senza protezioni. Perché dovrei proteggermi? Sono un commissario di polizia…”.
Pansa può così ritornare al 17 maggio del 1972 quando preparò il servizio per La Stampa sull’avvenimento. Un abile passaggio che favorisce la ricostruzione della vita di Calabresi fino alla nomina a commissario aggiunto nel 1968. E siamo al momento clou: “Poi spuntò il giorno che avrebbe cambiato l’Italia. E che sarebbe stato anche l’inizio della condanna a morte di Calabresi”. Così Pansa definisce il 12 dicembre 1969. Ed entra finalmente in argomento.
Il 12 dicembre 1969, la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, la strage di piazza Fontana. (E’ opportuno ricordare che 16 furono le vittime immediate e 88 i feriti dei quali alcuni segnati per sempre). Il nostro è molto laconico sulle conseguenze, tutto teso a disegnare la figura del commissario che, nel bar dinanzi alla questura “ci trasferì una sua impressione: che l’attentato doveva essere cosa di anarchici”.
L’articolo continua con riferimenti al commissario che cercava di capire l’area della sinistra extraparlamentare che gli avevano affidata, piena di elogi per quest’uomo “senza alterigia né ostilità ottuse” nel ricordo dell’autore. E il ricordo va oltre, dal momento che si precisa che Calabresi conosceva bene soprattutto un anarchico sui quarant’anni, Pino Pinelli, ferroviere, capo-smistamento allo scalo Garibaldi. Lo aveva visto, con Allegra, in tanti cortei e anche in questura e aveva stabilito con lui buoni rapporti tanto da scambiarsi un regalo a Natale del 1968, (cose che si fanno soltanto tra amici soprattutto se lo scambio è costituito da un libro, a mio parere!)
Calabresi dunque ha un’impressione circa gli autori dell’attentato e convoca Pinelli in questura la sera del 12 dicembre. Questi, inforcato il suo Benelli, vi si reca seguito dalla 850 Fiat della polizia. Vale la pena citare la prosa di Pansa:
“Un tragitto lento, attraverso una Milano attonita, nebbia, smog, fari di auto, semafori rossi, adagio adagio, verso la sua fine. Pinelli morì tre notti dopo, precipitando dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dentro un’aiuola stenta, coperta di neve sporca. Una morte, oscura, ancora oggi mai chiarita. Seguita da un’incauta conferenza stampa del questore Marcello Guida, dove Pinelli venne definito suicida e complice della strage. A fianco del questore con altri funzionari, Calabresi pronunciò appena una frase: ‘Lo credevamo incapace di violenza, invece… E’ risultato legato a persone sospette'”.
In queste poche righe Pansa consuma tutto il suo contorto bisogno di falsificazione degli eventi relativi a Pinelli, e non solo. Si dirà: un articolo non è un
saggio di storia, il soggetto è Calabresi non Pinelli, e poi ci sono stati dei processi, insomma quanto era necessario per poter andare avanti con l’articolo è stato detto. Ma io non sono d’accordo e vi dico subito perché.
La storia di Pinelli e quella di Calabresi non si possono scrivere separatamente, almeno per quanto riguarda quei tremendi giorni che vanno dal 12 al 16 dicembre, che si concludono con la morte di Pinelli. E veniamo alla frase che Pansa attribuisce a Calabresi: “Lo credevamo incapace di violenza, invece… E’ risultato legato a persone sospette”.
Un vero gioiello! E’ l’amico che parla, quello che un anno prima, a Natale ha regalato un libro a Pinelli, subito contraccambiato. Fino a prova contraria, Pinelli è considerato da tutti, compagni ed inquirenti, incapace di violenza. Varrebbe la pena di continuare a crederlo, dal momento che è soltanto risultato legato a persone non colpevoli ma soltanto sospette! Invece, dal momento che Pinelli è morto, e che l’imperativo è: sono stati gli anarchici, occorre criminalizzarlo, altrimenti che figura ci fanno le istituzioni e che figura ci fa lo stesso Calabresi, dal momento che Pinelli è “caduto” dalla finestra del suo ufficio? Anche Calabresi dunque mentiva spudoratamente.
Io sostengo una tesi inoppugnabile: Pinelli è morto in questura e dunque la responsabilità è in primo luogo del questore (che ha mentito) e via via di tutti coloro che lo hanno interrogato. Perché mai Pinelli innocente, avrebbe dovuto suicidarsi? Ma soprattutto sostengo che Pansa tutte queste cose le sa e non può scrivere un articolo su piazza Fontana dedicando quattro righe a Pinelli, vittima innocente e tutto il resto dell’articolo a Calabresi corresponsabile oggettivamente della fine di Pinelli.
Certo l’argomento è legato alla medaglia d’oro alla memoria per Calabresi, ma est modus in rebus! Il ruolo dei servizi segreti, l’affaire Valpreda, l’infiltrato Merlino e via complottando, sono verità storicamente consolidate e non possono essere omesse, in un articolo sulla strage di piazza Fontana!
Quello che Pansa scrive continuando l’articolo è estraneo totalmente al mio modo di sentire. Il testo sapete dove trovarlo. Farò un’unica e composita citazione:
“Quel che accadde dopo, lo ricordo come un incubo…Un linciaggio feroce… Una follia che contagiò migliaia di persone… Un’infamia consapevole, capace di generare il mostro del terrorismo di sinistra. Senza una prova, Calabresi fu accusato di essere l’assassino di Pinelli … Odio allo stato puro, quello di cui ci lamentiamo oggi è uno scherzo da asilo infantile…Ma il commissario pensa ai sottufficiali che erano con lui la notte della morte di Pinelli…Mi dirà: ‘la loro vita, i sacrifici delle loro mogli, può immaginarseli… Io, ringraziando Dio, ho trovato in me stesso, nei miei princìpi, nell’educazione che ho ricevuto, la forza di superare questa prova’”.
E dell’amico Pinelli non le ha mai detto nulla, signor Pansa, e dello strazio della di lui moglie?
La prosa accattivante del Pansa parla di Pinelli che va verso la sua fine, di una morte oscura, seguita da un’incauta conferenza stampa del questore dove Pinelli
venne definito suicida e durante la quale Calabresi dice una frase che significa tutto e nulla. Sono questi i punti che intendo analizzare.
Cominciamo dalla morte oscura. Nessuno oggi sostiene più la tesi del suicidio. Penso che Pansa lo sappia, dal momento che la morte di Pinelli è stata definita, 32 anni fa, accidentale. Perché Pansa vi fa ancora ricorso?
Passiamo all’incauta conferenza-stampa. In quella conferenza-stampa, dove c’era anche Allegra, Guida dichiarò apertis verbis che Pinelli, messo alle strette, si era buttato dalla finestra gridando: è la fine dell’anarchia! Una totale falsità! Perché definire allora priva di avvedutezza una conferenza-stampa che conteneva una clamorosa bugia? Sarebbe stato forse meglio se Guida non avesse usato una forma retorica così rumorosa? Ma meglio per chi? E Pansa a cosa pensava quando ha scelto quell’aggettivo? Io credo ancora che, ipocritamente, stava assumendo non il punto di vista di chi sta rievocando un fatto, ma piuttosto quello di difensore d’ufficio delle istituzioni, anche in un caso in cui sono state ampiamente sbugiardate!
… e quella di d’Avanzo
Il giornalista de la Repubblica sceglie un taglio narrativo del tutto diverso. Parte dall’oggi, quando Gemma Calabresi “si appunta quel piccolo disco d’oro alla giacca con un largo sorriso”. E si serve dei ricordi di lei per tornare indietro di 32 anni. “Andai all’obitorio. Tutto intorno la folla ci insultava, sputava…”. Per poi dire “… che un ragazzo di 34 anni, commissario di polizia, aveva affrontato in solitudine e con il coraggio di chi ha le mani pulite, un dovere da assolvere, una menzogna da affrontare”.
Dunque d’Avanzo colloca Calabresi tra la verità e la ragion di Stato. E, pur non attribuendo alcuna responsabilità precisa ad altri (“Pinelli volò giù di sotto nel cortile”), sostiene che il commissario non era nella sua stanza durante l’ultimo interrogatorio di Pinelli, presentando perciò questa presenza come “la menzogna che per due decenni si è trasformata in una convinzione diffusa”. Per d’Avanzo, sembra di capire, se ci sono responsabilità per la morte di Pinelli non possono essere attribuite perciò a Calabresi. Ora, a parte che l’assenza dalla stanza è stata certificata frettolosamente da quei servizi segreti che sappiamo essere coinvolti ampiamente almeno nella campagna di depistaggio, è ragionevole pensare che Calabresi sia stato messo al corrente di quanto era avvenuto nella stanza durante la sua assenza, (dove c’erano sicuramente il tenente dei carabinieri Savino Lo Grano, e i brigadieri di polizia Vito Panessa, Pietro Muccilli, Carlo Mainardi e Giuseppe Caracuta) e che perciò fosse stato, diciamo così, messo al corrente sulle cause della tragedia.
Invece d’Avanzo fonda tutto sulla manipolazione assenza -presenza perché Calabresi passi da dottor Jekill a Mister Hyde nell’immaginario di una generazione che aveva intuito “che una parte consistente dell’apparato statale declinasse
consapevolmente verso l’illegalità”. Quest’ultima citazione è tra virgolette nel testo ma è anonima.
Ma se d’Avanzo, e non abbiamo ragione di dubitarlo, la condivide, perché insistere soltanto sulla storia personale di Calabresi? Perché fidarsi ciecamente delle sole parole della moglie?
Procediamo con ordine. L’autore dell’articolo attribuisce a Calabresi gli stessi dubbi della sua generazione, che non era perciò convinto delle apparenze. Ci sarebbe la possibilità di approfondire. Ed invece che fa? Cita Gemma Calabresi:
“Gigi si convinse che la matrice degli attentati non fosse da ricercarsi esclusivamente nella sinistra eversiva. Egli prese a dubitare sempre più fortemente finché un giorno, non molto tempo prima di essere assassinato, mi disse: ‘Gemma, ricordalo: menti di destra, manovalanza di sinistra’. Aveva capito che chi tirava i fili era gente molto più su, gente seduta dietro la scrivania: gli strateghi della tensione, appunto”.
Le cose, caro d’Avanzo, non sono andate proprio così. L’auspicata convergenza degli estremismi non ha svolto alcun ruolo nella strage di piazza Fontana, per il semplice motivo che non c’è stata. Era una sola la matrice, di marca fascista in stretta collusione con i servizi. Perché allora riprendere vecchie storie da un testo autobiografico?
L’autore va avanti poi con la sua tesi della solitudine. Calabresi è icona della violenza dello Stato e “capro espiatorio di uno Stato che, per allontanare da se stesso l’accusa di stragismo e di tradimento, scarica su un suo limpido servitore ogni responsabilità per la morte di Pino Pinelli. Luigi Calabresi fu costretto a difendersi da solo. Era come rassegnato. Gli spararono alle spalle”.
Una tesi debole, se si pensa al tempo trascorso tra le bombe di piazza Fontana e l’uccisione di Calabresi, con la possibilità per lui per contrastare quella parte consistente dello Stato declinato verso l’illegalità. E del vero capro espiatorio, Pinelli, nemmeno una parola. Ma io non intendo giudicare Calabresi, non è mio compito né mio desiderio.
Il resto dell’articolo è dedicato per intero alla moglie del commissario. Un cittadino colpito nei suoi affetti familiari subisce una menomazione, una privazione che non può in alcun modo essere compensata o attenuata. Ma il mio diritto alla verità resta sempre identico al suo!
Conclusioni
Quest’articolo è stato soprattutto un’occasione per ricordare in modo non canonico Giuseppe Pinelli. Ma anche per esprimere la mia crescente difficoltà logica nell’accettare l’illogico quanto oppressivo pensiero dominante. Ma perché, di fronte alla morte di un onesto cittadino, in questura, tutto finisce nel dimenticatoio e invece i responsabili della sua morte vengono promossi elogiati commemorati? Mi si dirà che detti responsabili non sono mai stati riconosciuti come tali, che
promozioni elogi commemorazioni sono legate ad un tempo successivo al ferale evento.
Ma, in ogni onesto cittadino, l’ansia di verità può placarsi per questo? Sia ben chiaro, non parlo di chi è stato colpito nei suoi affetti, la moglie di Pinelli e tutti i suoi parenti ed amici, ma di me e di milioni come me che, dalla morte di Pinelli in poi, hanno visto segnato il loro futuro, di violenza e di attacco alle libertà di vita e di lavoro.
Ma perché professionisti noti preferiscono dimenticare la storia o, peggio, propinarcene un’altra, pur sapendo di poter essere smentiti da alcuni loro coetanei, facilmente sul piano storico e logico, ma molto più difficilmente sul piano pratico, dal momento che non hanno accesso ai mezzi di comunicazione di massa? E si tratta poi degli stessi protagonisti, Pansa in particolare, che si presentano come paladini della verità a tutto campo, non di quella ingessata dei vincitori!
Prendiamo il nostro caso. Un anno dopo la morte di Pinelli, uscì un libretto La strage di Stato – Controinchiesta, che puntualmente evidenziava le contraddizioni dello Stato, mentre nasceva la strategia della tensione. Puntuale, pignolo, questo testo, mai abbastanza lodato, ricostruiva, con dati inoppugnabili, la rete delle complicità fasciste con i servizi segreti, la necessità di coinvolgere immediatamente gli anarchici, l’infiltrazione del fascista Merlino nel circolo 22 marzo, e il suo ruolo di spia, come espressione di una nuova tattica mentre il fascismo squadrista entrava in crisi, e, nel suo quarto capitolo, come e perché fosse morto Pinelli.
Ebbene, delle risultanze di questa controinchiesta, mai smentita, i nostri autori, per come raccontano i fatti, sembrano non esserne nemmeno venuti a conoscenza! Altrimenti saprebbero che la polizia ha fornito in un mese, oltre alla tesi del suicidio, tre versioni contrastanti sulla meccanica del suicidio.
“La prima: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo senza riuscirci. La seconda: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo e ci siamo parzialmente riusciti, nel senso che ne abbiamo frenato lo slancio: come dire ecco perché è scivolato lungo il muro. Ma questa versione è stata resa a posteriori, dopo cioè che i giornali avevano fatto rilevare la stranezza della caduta. Infine l’ultima, la più incredibile, fornita ‘in esclusiva’ il 17 gennaio al Corriere della Sera: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo e uno dei sottufficiali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo ‘cercò di afferrarlo e salvarlo: in mano gli rimase soltanto una scarpa del suicida’. I giornalisti che sono accorsi nel cortile subito dopo l’allarme lanciato da Aldo Palumbo [cronista de l’Unità di Milano, NdA], ricordano benissimo che l’anarchico aveva ambedue le scarpe ai piedi”.
E saprebbero anche che la polizia ha fornito due versioni contrastanti del movente del suicidio:
“Primo: Pinelli era coinvolto negli attentati, il suo alibi è crollato e sentendosi ormai perduto ha scelto la soluzione estrema, gridando ‘è la fine dell’anarchia’. Seconda versione, fornita anche questa a posteriori, dopo che l’alibi era risultato
assolutamente valido: Pinelli innocente, bravo ragazzo, nessuno di noi riesce a spiegarsi il suo gesto”.
Quando a maggio del 1970, il magistrato Giuseppe Caizzi cui era stata affidata l’inchiesta sulla morte di Pinelli, la concluderà con un sibillino verdetto di ‘morte accidentale’ (non suicidio quindi!), risulterà chiaro a tutti che la polizia aveva mentito e che un onesto cittadino aveva inspiegabilmente perduto la vita in uno dei posti più sicuri di Milano. Le ricordano queste cose i nostri, e in particolare Pansa che aveva le mani in pasta, come ci ha ricordato con dovizia di particolari?
Io spero soltanto che non pensino alla ragion di Stato, rifugio spesso ignobile, come ragione alla quale fecero ricorso, per anni, i fedeli servitori dello Stato corresponsabili della tragica morte di Pinelli. Quanto a loro, devono pur mangiare e dunque se gli ordinano “un pezzo”, è bene che sia in sintonia con l’idem sentire del potere.