USA, RUSSIA, CINA di G. La Grassa
La crisi in Georgia ha senz’altro, almeno ne sono convinto, il significato di un piccolo tornante storico; e probabilmente dà un ulteriore segnale in direzione di quella fase policentrica, della cui instaurazione sono altrettanto convinto. Non però tanto presto. Ho l’impressione che certuni stiano vendendo la pelle dell’orso prima del tempo e si aspettino un declino fin troppo rapido degli Usa. L’ottica, che si tratti di fintomarxisti o di personaggi che provengono da orientamenti pressoché opposti (ma sempre antiamericani), è quella economicistica della crisi finanziaria negli Usa, che li devasterebbe a breve.
Innanzitutto, si mantenga la testa un po’ fredda su questa crisi, di cui si parla da ben più d’un anno con previsioni alterne e con catastrofi annunciate ogni due minuti. Comunque, i prossimi mesi dovrebbero essere il momento della verità. I catastrofisti hanno rinviato a novembre l’ora X; ma concediamo loro anche più tempo, fino alla primavera prossima. Nel frattempo, a differenza di appena due-tre mesi fa, la sensazione è che quelli messi peggio saranno gli europei più che non gli americani. Tuttavia, non starei sempre a ragionare in base alle volatili e volubili previsioni dei “tecnici”. Allargherei la memoria a vicende d’altri tempi. Qualcuno ha mai letto la cronistoria della crisi del 1929? Si sono letti i romanzi di allora, fra cui quello non male di Steinbeck, Furore, e magari visto il film che ne trasse Ford, forse ancor migliore del romanzo? E’ stato un periodo di una durezza e di sconvolgimenti sociali di rara intensità dal quale gli Usa emersero con apparente difficoltà, e tanta lentezza da non superare il periodo di stagnazione se non con la seconda guerra mondiale, durante la quale sconfissero radicalmente tutti i più forti capitalismi competitori: non solo Germania e Giappone ma pure Inghilterra e Francia, emergendo come il grande paese centrale e pienamente egemone su tutto il capitalismo occidentale, quello dei funzionari del capitale, così diverso da quello borghese dell’ormai lontanissima epoca del predominio ottocentesco inglese.
Eppure, lo ripeto, salvo che nella Germania di Weimar – sconfitta e umiliata con la prima guerra mondiale e succube per oltre un decennio della finanza del paese già allora più forte (gli Usa appunto) – non ci fu altro paese capitalistico attraversato da una bufera finanziaria, con rapidi sprofondamenti anche dell’economia reale, così violenta come quella che si abbatté sugli Stati Uniti. I quali però emersero netti vincitori su tutti gli altri, proprio perché non sono affatto le crisi economico-finanziarie a sconfiggere un paese, ma la sua eventuale debolezza in termini di potenza politica e, se e quando necessario, militare. E gli Usa si dimostrarono i più forti. E che piaccia o meno agli antiamericani con le traveggole, lo sono ancor oggi. E’ meglio che se ne tenga conto. Tale paese non è per nulla in declino per quanto concerne questo lato, ultradecisivo, della potenza; e del progresso scientifico-tecnico che ne è fattore di grande rilevanza. Gli illusi tengano un po’ la testa a posto, altrimenti si sveglieranno proprio con il mal di testa.
Non credo che la crisi attuale avrà – non ancora per una fase di durata abbastanza lunga – la stessa portata di quella del ’29; e temo ci sia effettivamente una parte di verità nella sensazione attuale che di questa crisi risentirà alla fine l’Europa (Italia in testa) più ancora degli Stati Uniti. Tuttavia, pur se così non fosse, se si realizzassero – come nelle fiabe – i desideri degli antiamericanisti più accesi e un po’ scervellati, gli Usa ne sortirebbero – e questa volta senza nemmeno guerra mondiale – come il più forte dei paesi del capitalismo occidentale, con un’egemonia su questo ancora più salda. Diventerebbe invece più articolato il discorso sul piano globale, tenuto conto appunto delle nuove potenze in crescita ad est.
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Procediamo per gradi. Intanto, indubbiamente e per motivi su cui tornerò un’altra volta, gli Usa commisero – dopo la svolta del 1989-91 – un errore di valutazione strategica; che tuttavia credo avrebbe compiuto qualsiasi altra superpotenza al loro posto. Essi pensarono fosse ormai liquidata per sempre l’Urss (ma anche la semplice Russia) e – per contenere soprattutto le potenze asiatiche, in specie la Cina, in forte avanzata; più che altro economica, ancora poco come reale potenza politico-militare – hanno allungato a dismisura, fino all’Afghanistan (e Pakistan), le proprie “linee” strategiche, rendendole relativamente più fragili; fra l’altro allentando fin troppo la “sorveglianza” del continente sudamericano. Da tale errore, che l’entrata in scena della Russia ha adesso sottolineato bruscamente, è nato l’indebolimento – molto più pericoloso della crisi da subprime o da derivati – postosi in evidenza e che richiederà ri-adeguamenti delle strategie (e tattiche).
Già adesso si notano difficoltà crescenti in Afghanistan e Pakistan – penso che, in tempi medi, gli Usa dovranno o andarsene o ridurre assai la loro influenza nella zona, magari condividendola con “qualcun altro” – mentre sarebbe sciocco non accorgersi che in Irak, purtroppo, sono stati conseguiti dei successi innegabili, riuscendo a far si che i “resistenti” si massacrino fra loro (e la si smetta con la storia ormai poco credibile degli attentati organizzati dagli americani o dal Governo fantoccio iracheno; la situazione si è proprio imbozzolata). Al di là delle chiacchiere elettoralistiche di Obama, non credo affatto che, se anche questi vincesse, ci sarebbe un puro ritiro dall’Irak; si appresteranno una serie di manovre che, al di là della facciata, siano in grado di garantire la netta presenza statunitense in tutto il Medio Oriente, senza di che rischierebbe fra l’altro grosso il loro “garante” (e sicario) in quella zona che è Israele. Figuriamoci se certe posizioni possono essere mollate, non lo si pensi nemmeno. Si vedrà da vicino di quale “bel declino” statunitense si tratterà! Ci si prepari! E si guardi un po’ meno alla crisi finanziaria.
Ad aprile è stato ripristinato in pieno l’uso della IV flotta, quella dedicata al Sud America. Anche qui, ne vedremo delle belle. E se fossi in Chavez, Morales, ecc. comincerei ad avere la famosa “strizza” e a non puntare proprio per nulla sul declino degli Usa, colpiti “a morte” dalla “crisi immobiliare”. Finché si fa un po’ di propaganda, per esempio sul socialismo del XXI secolo (quello del Venezuela o, ancor più cervellotico, quello brasiliano), non si fa troppo male a nessuno. Magari, ci si limiti a raccontare le favole alle “masse”; i dirigenti non ci debbono credere e prepararsi invece ad altre eventualità del tutto più probabili e meno trionfalistiche. Perché in casi del genere – Allende docet – gli errori di valutazione si pagano con la vita. Tuttavia, poi, i massacri sono spesso “di massa” (e non si neghi che gli americani hanno una notevole scientificità in queste operazioni); di conseguenza, forse, sarebbe bene, e perfino più morale, non raccontare nemmeno ai popoli le favole dei Movimenti, del social forum e altre scemenze del genere, per almeno metterli sommessamente sull’avviso. Ma dov’è l’etica dei movimentisti, dei pacifisti “senza se e senza ma”, degli imbonitori che debbono soddisfare il loro narcisismo di intellettuali “rivoluzionari” falliti, catturando l’attenzione degli scriteriati “fanciulli” dei centri sociali? Non esiste: abbiamo a che fare o con dei fasulli e banaloni o con degli autentici disonesti che ingannano “per qualche voto in più” (ci fosse ancora Sergio Leone, potrebbe farne un film; ma non western, un “comico demenziale”).
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La faccenda Russia-Georgia, in una visione non giornalistica ma appena un po’ strategica, è una piccola cosa, un modesto passo che dovrebbe indicare una direzione di sviluppo degli avvenimenti, ma senza immaginare che si tratti di una linea retta; chissà quante altre svolte e inversioni di rotta subirà. Mi è sembrato in questi giorni di rivivere – in chiave farsesca come sempre la seconda volta – certi periodi di quasi cinquant’anni fa. Li ricordo brevemente.
Dopo il XX Congresso del Pcus (1956, con rapporto anti-Stalin di Krusciov, ecc.), iniziarono i dissidi tra i partiti comunisti “fratelli”: sovietico e cinese. L’urto si accentuò nel 1960 alla Conferenza degli 81 partiti comunisti (sempre “fratelli”) a Mosca. Dopo la crisi di Cuba (ottobre 1962), nella primavera dell’anno successivo, il conflitto scoppiò apertamente con il violento scambio di accuse (sui “sacri” principi del marxismo-leninismo) contenute nelle lettere di “botta e risposta” stilate dai Comitati centrali del Pcus e del Pcc. Ricordo al lettore che, in quel momento, si era ancora abbastanza lontani dalla Rivoluzione culturale cinese (ovviamente “proletaria”) e dalla rottura tra “linea rossa” (maoisti) e “nera” (la maggioranza degli alti vertici del partito con Liu-sciao-chi e Teng-siao-ping in testa). Le violente critiche dei comunisti cinesi nel 1963 al “neorevisionismo” kruscioviano (e al nostro Togliatti) erano più farina del sacco di Liu-sciao-chi (allora, se non erro, segretario del partito) che di Mao.
Tra il ’60 e il ’63, i filo-occidentali (e filo-capitalisti) gongolavano per il dissidio che si stava aprendo tra sovietici e cinesi, indebolendo il fronte “comunista”, mentre noi comunisti negavamo ogni possibile rottura; si trattava di semplice discussione appunto tra “fratelli” (si doveva ben sapere che tra fratelli si è più feroci che tra estranei). Si ripeteva la stupida frase che Pcus e Pcc erano “uniti come le labbra ai denti” (non so bene cosa significhi). In ogni caso, la rottura ci fu; e non era poi tanto sui “sacri principi”, ma per motivi di contese molto frequenti tra paesi che “insistono”, con le loro aree di influenza, su alcune zone vicine ad entrambi. Adesso, siamo alle solite. Di fronte alla freddezza con cui la Cina ha accolto le mosse (puramente difensive, come dovrebbe mettere a breve in luce perfino un rapporto dell’OSCE, secondo quanto leggo oggi sui giornali) della Russia in Georgia, gli occidentali, i filo-americani, gongolano. Vi è stata però una riunione del “gruppo di Shanghai”, dove la Cina non ha, per ovvii motivi diplomatici, criticato la Russia; allora gongolano i filo-russi, tra i quali oggi vedo non solo alcuni post-piciisti, ma anche settori antiamericani con posizioni opposte ai precedenti.
Ritengo un po’ ridicola la situazione; e noto che alcuni non possono mai fare a meno di essere manichei, debbono stare sempre da una parte; e, quando stanno da quella, non c’è dubbio che su quel fronte tutto va bene, tutto è saldo, i nemici stanno in faccia e rappresentano ovviamente il Male che si oppone al Bene (la parte che essi appoggiano svisceratamente e senza ragionare). Tra Cina e Russia esistono, ci si decida a prenderne atto, dei sordi conflitti: nella stessa area delle Repubbliche centroasiatiche (dove ancora permangono influenze anche americane), forse pure con riguardo al nodo Pakistan-Afghanistan, ecc. Non parliamo del contenzioso, ben noto, tra Cina e India; quest’ultima accetta armi sia da Russia che da Stati Uniti, e cerca di tenere buoni rapporti con entrambi i paesi, pur se temo che, messa alle strette, starebbe più con i secondi che con la prima (a meno che la Russia non accentui il suo dissidio con la Cina). Quanto al Giappone, dopo le “sventole” prese negli anni ’90 e non ancora del tutto assorbite, credo che seguirà gli Usa per una buona fase storica.
Quindi, con buona pace di coloro che si sono entusiasmati di fronte agli ultimi fatti – e guardate che ne sono entusiasta anch’io, solo con una prospettiva di lungo periodo – ci sono tra le varie nuove potenze in crescita ad est una serie di conflittualità, al momento sopite e sorde, che di fatto avvantaggeranno gli Stati Uniti e ritarderanno il policentrismo di cui ho spesso detto. Se poi vogliamo usare un po’ di economicismo – e un po’ è del tutto lecito usarlo – ricorderò che la Cina è abbastanza invischiata in affari finanziari con gli Usa; non a caso, molti commentatori pongono la recente risalita del dollaro rispetto all’euro a carico di certi comportamenti cinesi. Si tenga inoltre conto che la Cina ha una gran parte delle sue riserve valutarie in dollari, e ha fatto investimenti in apparati finanziari americani. Per esempio, il China’s Investment Corporation (fondo sovrano) ha investito 3 miliardi di dollari per acquisto del 10% delle azioni della Blackstone (a 31 dollari per azione, prezzo caduto subito dopo piuttosto in basso); e poi altri 5 miliardi per un altro 10% della Morgan Stanley sempre ad un prezzo più alto di quello attuale in borsa.
Darei però soprattutto importanza alle diverse strategie seguite oggi da Russia e Cina per crescere in potenza. Ogni paese che miri a tale obiettivo combina sia misure economiche che operazioni più direttamente politiche (e militari): non semplicemente in armi e truppe, ma in servizi segreti, ricatti e pressioni, influenza su partiti o lobbies interne a certi paesi, ecc. L’importante è vedere la proporzione secondo cui economia e politica sono fra loro intrecciate. A me sembra che la Cina abbia scelto soprattutto l’economia; e promuova un veloce sviluppo, con giusto impulso dato alla ricerca scientifico-tecnologica nei settori di punta, ma anche con impegni finanziari (in specie verso gli Usa), su cui forse dovrebbe essere più guardinga e oculata. Saranno solo voci – fra cui quelle del Premio Nobel per l’economia James Heckman (che abbia preso tale premio è quasi un buon motivo per non ascoltarlo troppo) – ma si segnalano tensioni finanziarie crescenti proprio in Cina. Comunque, non diamoci troppo peso. Il vero problema è che la Cina sta puntando più sull’economia (e finanza) rispetto ad altri fattori (politico-militari) della potenza; non ho detto che trascura questi ultimi, si stia attenti, è solo una questione di proporzioni nell’uso dei vari fattori in questione.
La Russia segue una politica opposta, in cui le proporzioni sono invertite. Certamente non trascura l’economia; e anzi qualcuno vuol vedere la sua debolezza nel fatto di sfruttare troppo il fattore gas e fonti energetiche, il cui prezzo è ora calante (però sempre ben remunerativo). In realtà, non c’è solo tale fattore economico, pur se è il più evidente e centrale. Ci sono fior di miliardari russi che hanno cointeressenze in aziende occidentali, quasi tutte tedesche (anche in Istituti finanziari ma più ancora in aziende industriali e dei servizi). Faccio alcuni esempi: Oleg Deripaska, primo azionista della Strabag di Colonia (gigante nel settore delle costruzioni) e che adesso cerca di entrare anche nella Thyssenkrupp; Alexej Mordashov, grande azionista della TUI di Hannover (maxigruppo nel settore turismo); Sulejman Kerimov, con buone partecipazioni in Goldman Sachs, UBS, Morgan Stanley, Crédit Suisse e Deutsche Bank; e altri ancora. Soprattutto, c’è la Siemens che sta tentando contatti con soci russi, al limite perfino con il Fondo sovrano del paese; naturalmente, sono frapposti ostacoli dal Governo tedesco, che sta facendo approvare dal Bundestag una legge di tipo protezionista (già preannunciata dalla Merkel), ma la Siemens non sembra al momento demordere.
Se si leggono i commentatori nei giornali finanziari, questi – economicisti come sono – vedono prossime difficoltà per la Russia, appunto a causa della sua eccessiva unilateralità in merito allo sfruttamento delle fonti energetiche, delle tensioni inflazionistiche in atto (sul 15%), e altre. Ebbene, personalmente “scommetto” sulla Russia perché ha invece, quatta quatta, rimesso abbastanza in ordine il suo esercito e la sua politica estera. E poiché al presente non mira ad espansioni “mondiali”, ma opera in zone a lei vicine, non “stira” troppo le sue linee logistico-strategiche e sfrutta al meglio le capacità delle sue truppe di terra. Certo, ci vuole ancora tempo, data la decadenza fatta subire alla potenza sovietica da Gorbaciov, prima, e da Eltsin poi (con contemporanea dissoluzione dell’Urss). Tuttavia, a me sembra che il fattore, su cui attualmente i russi stanno prevalentemente insistendo, sia proprio quello politico-militare, con unito quello, complementare, nazionale, che va riacquistando tutta la sua rilevanza alla faccia dei sempre “internazionalisti” a “bischero sciolto”. Anche la Cina, per emergere definitivamente, dovrà imparare a sfruttare molto di più tale fattore nazionale, contrastando a muso duro le influenze di un “occidente” ormai macerato e sfibrato dall’americanizzazione.
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Come già rilevato, le contraddizioni triangolari tra le nuove potenze in crescita (Russia, Cina, India) avvantaggeranno probabilmente, ma momentaneamente, gli Usa. In termini di tempi storici non penso si tratterà di un ritardo eccessivo prima che si instauri una nuova fase di policentrismo. Tali tempi non sono però brevi, se valutati secondo i canoni giornalistici sempre in voga presso i frettolosi che già roteano beati gli occhi – parlo ovviamente degli antimericani, di parti opposte – a causa della vicenda georgiana. Oltre tutto, nemmeno ci si rende conto che si è trattato di un “assaggio” americano nei confronti delle reazioni russe. E quando si sonda, non lo si fa per vincere ad ogni costo, ma per valutare meglio la situazione complessiva e attuare secondo le più opportune modalità la revisione delle proprie strategie di medio-lungo periodo. Gli Usa adesso conoscono un po’ più a fondo la consistenza della potenza russa, e acquisiranno informazioni sulla probabile velocità e direzione della sua ricostituzione. Gli americani hanno fior di strateghi; la smettano gli sciocchi – fra l’altro spesso pacifisti del piffero – di prenderli come rozzi e impreparati. Fanno errori come tutti, hanno avuto inoltre la grossa illusione – ma tutti noi l’abbiamo creduto per una quindicina d’anni – di poter restare l’unica superpotenza per buona parte del secolo XXI. Prenderanno atto che così non è, e correranno ai ripari.
Smettetela di sognare antiamericanisti "duri e puri". Avete sbagliato sull’Irak, avete sbagliato sulla Palestina, avete scioccamente creduto alla rivolta delle “masse diseredate” contro l’imperialismo (e magari non solo quello americano, ma contro tutti gli imperialismi, ivi compreso l’italiano, che vi frullavano per quel capoccione duro e cristallizzato che avete). Passerà qualche anno, a dir tanto, e resterete malissimo anche con il vostro “socialismo” sudamericano. Adesso, ricomincino le persone sensate e dotate di cervello a ripensare al “Trio asiatico”, alle contraddizioni esistenti fra tali paesi, ma certamente anche alla loro crescente potenza. Del resto, se i loro reciproci contrasti più o meno latenti e sotterranei rappresentano un vantaggio (temporaneo) per gli Usa, e probabilmente allungheranno i tempi dell’entrata nella fase policentrica, “non tutto il mal vien per nuocere”. All’allungamento dei tempi corrisponderà un più accentuato multipolarismo, che impedirà (forse; nessuna certezza per carità) l’esplodere dei vecchi, e terribili, guerroni mondiali; e consentirà a chi avrà intelligenza – anche in questa Europa sfatta e della cui unità è bene cominciare a farsi beffe – di sfruttare le molteplici (appunto multipolari) contraddizioni per perseguire i propri interessi, imparando ad abilmente navigare tra queste ultime. O è invece meglio continuare a sognare la catarsi finale e universale con un bel “Sole dell’avvenire” che sorge? Per fortuna, i visionari e sognatori sono ormai al lumicino.