Verso un nuovo capitalismo

P r e f a z i o n e
di
Mimmo Porcaro
I saggi di Edoardo de Marchi e di Gianfranco La Grassa contenuti in questo volume non piaceranno a chi chiede alla teoria di disegnare cornicette concettuali che facciano da pendant a strategie politiche già decise in precedenza, né a chi spera che l’elaborazione teorica ci consegni una visione lineare e semplice della realtà, e quindi ci liberi dal rischio della scelta e dalla responsabilità della decisione. Si tratta infatti di due saggi che, se da un lato rivendicano la necessità, per orientare la pratica politica, di ricorrere anche ad un pensiero astratto, ossia non legato alla contingenza del momento, dall’altro dimostrano come questo stesso pensiero, e le analisi concrete che ne conseguono, non giungano a definire tendenze univoche, ma piuttosto ad indicare un campo di soluzioni possibili, una serie di varianti, tutte coerenti con le dinamiche fondamentali, ma significativamente diverse tra di loro.
Questi scritti ci invitano a non restringere la nostra riflessione e la nostra critica al solo capitalismo neoliberista, che è oggi l’oggetto quasi esclusivo della discussione, ma a volgere lo sguardo verso il capitalismo in quanto tale, verso le sue dinamiche fondamentali e le diverse forme che esso può storicamente assumere. Invito oggi quanto mai opportuno. Era infatti inevitabile che i grandi movimenti mondiali di questi ultimi anni – i quali, qualunque cosa si pensi delle loro contraddizioni e dei loro limiti, hanno comunque dato una nuova dimensione di massa al discorso anticapitalista – si rivolgessero in un primo momento contro gli aspetti più immediati ed attuali, particolarmente feroci e distruttivi, del sistema economico-politico che ci domina. Ma diviene sempre più evidente che una lotta efficace al neoliberismo non può prescindere da una ripresa dell’analisi dei tratti fondamentali e non
contingenti del capitalismo, anche per poter definire delle vere alternative, che non siano la riproposizione, in forme edulcorate, dei meccanismi di sfruttamento e di squilibrio globale che ben conosciamo.
L’invito a parlare del capitalismo in quanto tale diviene inoltre, nei nostri autori, invito a parlare immediatamente delle dimensioni mondiali da esso assunte, nella convinzione che ormai non sia possibile “giungere” all’analisi globale del capitale “dopo” l’analisi delle sue delle sue leggi di movimento o delle sue singole componenti settoriali. Il capitalismo esiste concretamente, e realizza le proprie dinamiche profonde, proprio come sistema mondiale delle relazioni fra gruppi di imprese e gruppi di paesi, territori e Stati. Relazioni inevitabilmente conflittuali, che impediscono di pensare ad un Impero unitario e deterritorializzato; ma anche relazioni mutevoli, che impediscono di pensare ad un sempre identico Imperialismo, indifferente ai grandi mutamenti epocali dell’economia e della politica. L’Impero e l’Imperialismo, questi due concetti che occupano oggi la gran parte dei dibattiti a cui siamo abituati, condividono secondo De Marchi e La Grassa un comune retroterra, ossia una erronea concezione stadiale del capitalismo: una concezione secondo la quale il capitalismo si muoverebbe verso uno stadio ultimo ed irreversibile (imperiale per gli uni, imperialistico per gli altri) che preluderebbe necessariamente ad una soluzione di tipo comunistico, o, in mancanza di tale soluzione, ad una inevitabile putrescenza dell’intero sistema. Qui si espone invece una concezione diversa, non stadiale ma ciclica, secondo la quale il sistema mondiale del capitalismo è segnato da grandi fasi che si succedono e si ripetono per ampi periodi storici. Nessuno sviluppo progressivo, dunque, e nessun ultimo stadio. Piuttosto un alternarsi di epoche monocentriche, dominate da una grande potenza mondiale, ed epoche policentriche, che segnano la disgregazione di una precedente egemonia e preludono all’egemonia di una nuova potenza (un nuovo Stato, o un nuovo insieme di stati e di potenze economico-politiche), fatta salva la possibilità, per forze alternative ed antagonistiche, di inserirsi nelle fasi critiche di questi cicli e tentare una rottura della dinamica fondamentale del sistema. Nonostante le profonde difficoltà della potenza oggi dominante, gli Stati Uniti, entrambi gli autori ritengono che siamo ancora all’interno di una fase monocentrica (anche per questo non definibile come fase “imperialistica”) e che i segnali di dissoluzione dell’egemonia nordamericana non siano molto più che segnali, date le difficoltà dei potenziali concorrenti europei ed asiatici. Merito non piccolo degli scritti che stiamo presentando, come già abbiamo accennato, è quello di non trasformare questa diagnosi nella definizione di una nuova epoca dai tratti irreversibili, ma di indagarne le possibili vie di trasformazione interna e di aprire uno scenario fatto di diverse alternative.
Il contributo di De Marchi si presenta come un’ampia ed efficace sintesi degli sviluppi del capitalismo dalla crisi del cosiddetto fordismo in poi, e come una parallela rassegna delle più importanti teorie che hanno accompagnato e tentato di spiegare questi sviluppi stessi.
Una particolare attenzione è dedicata alle tematiche del postfordismo, nozione di cui l’autore non nega le capacità descrittive, ma di cui critica la pretesa di indicare una netta discontinuità con la precedente epoca della produzione capitalistica. Con originalità, De Marchi non oppone alle pretese della “scuola” postfordista l’idea, insostenibile, d’una generale permanenza delle tecniche e delle strutture produttive tipiche del fordismo, ma si sottrae all’opposizione sterile frai due termini, sostenendo che entrambi non sono altro che varianti di quella produzione di massa che da più di un secolo caratterizza i sistemi economici moderni. Una produzione di massa che consiste soprattutto nel fatto che la direzione di ogni impresa capitalistica deve e sa controllare l’insieme delle condizioni della produzione, ed in particolare deve e sa sottoporre il lavoro ad una efficace disciplina produttiva. I costi capitalisticamente insostenibili del welfare state, la forza oggettiva dei lavoratori nella fabbrica fordista, le nuove turbolenze del mercato e le nuove dinamiche finanziarie costringono oggi la produzione di massa ad adeguarsi al mutato ambiente mondiale, e quindi a propendere verso una modificazione della struttura d’impresa (assumendo la forma di rete) e della disciplina produttiva (incentivando l’”autoattivazione”
dei lavoratori). Modificazione che però non intacca il nocciolo duro del controllo capitalistico, e quindi non consente di definire il postfordismo come un’epoca nuova (tanto nuova, per alcuni, da essere un’epoca postcapitalistica tout court). Altro spunto che differenzia il testo rispetto ad un dibattito spesso irrigidito da contrapposizioni dicotomiche è quello che riguarda i notevoli – e forse decisivi – problemi che sorgono dall’esaurimento d’un modello energetico fondato sui combustibili fossili. L’autore si dice convinto che questo esaurimento – da lui assunto come altamente probabile – concorrerà a determinare la forma che il capitalismo ed i rapporti internazionali assumerenno nei prossimi anni. Ma al contempo si rifiuta di preconizzare crisi decisive del capitalismo stesso sulla sola base dei limiti ad esso “esterni” (siano questi limiti naturali o sociali). Ritenendo che il capitalismo si sviluppi, più che “in estensione”, in profondità ed intensità, ovvero innovando sia i propri rapporti sociali che le proprie risorse tecnico-scientifiche, De Marchi invita ad uscire dall’opposizione tra l’idea dello sviluppo illimitato e l’ idea dei limiti insuperabili, e a riflettere sulla innegabile presenza di limiti, dotati però di una certa qual elasticità, di una relativa permeabilità all’innovazione sociale e tecnologica: l’elasticità e la permeabilità finora sempre sfruttate dal capitalismo per risolvere le sue più volte annunciate e mai realizzatesi “crisi finali”.
Ma l’aspetto più rilevante del lavoro di De Marchi è costituito senza dubbio dalle pacate quanto argomentate riflessioni sulle probabili dinamiche future delle relazioni frai diversi “blocchi” capitalistici. Fondandosi su un’analisi dei principali indicatori attuali, ma radicando quest’analisi in una significativa ricostruzione degli eventi socioeconomici degli ultimi 60 anni, l’autore ci consegna un quadro in cui non solo l’Unione Europea, ma nemmeno la Cina sembrano in grado (almeno per il prossimo decennio) di opporsi alla comprovata capacità statunitense di scaricare sugli altri competitors (e soprattutto grazie alla supremazia politico-militare) le proprie difficoltà economiche. Un’analisi, questa, che dovrà essere presa in attenta considerazione nei dibattiti futuri, anche perché, come si è detto, è formulata in maniera duttile ed elastica. E perché si confronta, con capacità di autonoma elaborazione, coi livelli concettuali proposti da ricostruzioni come quella della “scuola della regolazione”, di Immanuel Wallerstein o di Giovanni Arrighi.
A conclusioni in parte analoghe giunge anche Gianfranco La Grassa, in un saggio che è però dedicato soprattutto all’analisi del concetto di capitalismo. Un concetto che ci viene presentato dall’autore in forme molto diverse da quelle a cui ci hanno abituato sia la scolastica marxista che l’apologetica liberista. Da un lato, infatti, La Grassa consolida e conferma l’idea secondo cui il capitalismo non può, ormai da tempo, essere pensato semplicemente come effetto della proprietà privata dei mezzi di produzione. Non i proprietari, ma i funzionari del capitale, ossia i membri delle strutture direzionali delle imprese, sono i veri agenti dominanti del processo sociale capitalistico, anche se è assolutamente vero che la proprietà non scompare, ma tende piuttosto ad aggiungersi ai ruoli direzionali, agendo come “scudo protettivo” per questi ultimi. Dall’altro, a questa idea (che vanta una pluridecennale tradizione di elaborazione e discussioni, originata in gran parte dal dibattito sul “capitalismo manageriale”1) La Grassa aggiunge un’altra importante considerazione: gli agenti delle strutture direzionali capitalistiche non costuituiscono un blocco unico, ma si dividono in due principali funzioni. Una funzione tecnica (organizzazione e sfruttamento del lavoro, produzione di merci secondo la razionalità del minimax, ovvero del massimo risultato col minimo dispendio di risorse) ed una funzione strategica, che ha per scopo precipuo quello di assicurare il dominio economico-politico dell’impresa e dei suoi agenti su tutti i rivali. La funzione strategica, che si muove appunto in base alla razionalità strategica e non in base a quella tecnico-produttiva, è la funzione dominante: cosicché appaiono del tutto ideologiche le tesi che giustificano il persistere del capitalismo col suo essere una più razionale forma di produzione.
1 Chi sia interessato ad approfondire l’idea di un capitalismo “non proprietario” potrà utilmente rivolgersi anche al recente lavoro di Ernesto Screpanti: Il capitalismo. Forme e trasformazioni, Milano, 2006.
La vera razionalità del capitalismo è quella della lotta e del dominio, mentre lo sviluppo tecnologico-produttivo non è che un mezzo per procurare le risorse necessarie a questa lotta. Da queste considerazioni, che offrono notevoli suggestioni alla ripresa di un’analisi scientifica del capitalismo, La Grassa trae poi conclusioni che non mancheranno di stupire coloro che lo ricordavano come teorico della centralità del processo di lavoro: se la razionalità strategica, ossia il conflitto, è la “legge interna” del capitalismo, e se la produzione di plusvalore non è che mezzo per questo conflitto, il capitalismo non può essere considerato essenzialmente come un modo di produzione, ma come una rete di conflitti – di dimensione mondiale – trai diversi agenti delle diverse imprese. E a corollario di questa tesi va aggiunto sia che il conflitto più importante non è quello verticale (tra capitale e lavoro), ma quello orizzontale (tra imprese, gruppi di imprese, Stati), sia che gli agenti delle direzioni capitalistiche non si trovano più semplicemente nella “produzione” in senso stretto, ma anche negli ambiti – un tempo detti sovrastrutturali – della cultura, della politica e così via: e solo l’analisi concreta può dire, di volta in volta, dove si situino i gruppi effettivamente dominanti.
Come si vede si tratta di tesi assai forti, che – se i tempi fossero propizi al dibattito teorico rigoroso e non alla chiacchiera mediatica ed al corto respiro della politica quotidiana – meriterebbero un’altrettanto forte discussione, capace di riconoscere che esse indicano in ogni caso fenomeni assolutamente innegabili (l’attuale prevalenza delle direzioni politico-finanziarie d’impresa sugli staff tecnici, l’intreccio inestricabile tra economia e politica, il momentaneo cedimento delle lotte di classe di fronte a quelle intercapitalistiche) e problemi finora non risolti dalle più importanti teorie critiche, e segnatamente dal marxismo. A quest’ultimo, in particolare, La Grassa rimprovera di aver sempre considerato la gran massa delle contraddizioni sociali, e soprattutto le contraddizioni geopolitiche mondiali, come secondarie rispetto a quella principale, costituita dal conflitto capitale/lavoro. Ma queste contraddizioni “secondarie”, a parere dell’autore, si sono mostrate, alla fine, più efficaci di quella “principale”, sempre sussunta da nazionalismi e localismi vari2, ed esplosa veramente, ma in forme ambigue, solo in condizioni di brutale immiserimento delle masse. E ciò è dovuto semplicemente al fatto che la contraddizione tra capitale e lavoro non può essere assunta, in generale, come chiave esplicativa del capitalismo (e qui l’autore si differenzia da De Marchi, che tenta invece di riarticolare processo di lavoro e dinamiche geopolitiche).
Qualunque cosa si voglia pensare di questa conclusione, essa ha comunque il merito di riportare alla ribalta una discussione iniziata, ma non conclusa, molti anni fa, sulla scorta delle tesi formulate da Louis Althusser in Lire le Capital. Ragionando nel corso di un’epoca in cui il socialismo si affermava in paesi assai diversi tra di loro, e attraverso molteplici contraddizioni, non riducibili al solo conflitto di classe, il grande marxista francese tentava di dar conto dell’articolazione tra la complessità del reale e l’apparente “semplicità” delle leggi fondamentali dell’accumulazione, superando la banale opposizione tra “struttura” e ”sovrastruttura”, e immaginando una causalità strutturale “che esiste solo nei propri effetti”, un meccanismo di sfruttamento che non si realizza, e non può essere afferrato, solo o soprattutto “in fabbrica”, ma nell’insieme degli ambiti sociali, culturali e politici. Ragionando dopo il crollo del socialismo di Stato, e senza alcuna fiducia nei movimenti anticapitalisti di questi ultimi anni (che per lui anticapitalisti non sono, nemmeno in nuce), La Grassa risolve nettamente il problema dicendo che la causalità in questione non è quella dello sfruttamento, ma quella del conflitto intracapitalistico, e che quindi non c’è bisogno di “articolare” il primo al secondo, ma di prendere atto che quest’ultimo è l’unica vera causa direttamente operante. A noi pare, però, che si debbano ancora trarre tutte le conseguenze dalle premesse althusseriane, e che, oggi che la dinamica capitalistica produce contraddizioni e conflitti della più diversa natura, sia assolutamente necessario ragionare teoricamente sui rapporti tra quei molteplici conflitti e le dinamiche di valorizzazione del capitale e
2 Conclusioni in parte simili sono quelle a cui giunge Luciano Canfora, in La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari 2006.
sfruttamento del lavoro, per chiedersi attraverso quali vie, magari impensate e sorprendenti, il “proteo” capitalista possa essere afferrato ed il discorso socialista possa essere riformulato. La chiarezza delle posizioni di La Grassa su questo punto non può che servire da pungolo alla riflessione3.
Ci sembrano così sufficientemente delineati i forti motivi di interesse di questo libro. Si aggiungerà, per chi ha assolutamente bisogno – e forse non del tutto a torto – di desumere da subito indicazioni politiche da qualunque riflessione, per quanto astratta, che nelle pagine che seguono vengono formulate alcune tesi che possono già da ora contribuire ad orientare l’azione, se non altro come inviti alla cautela nei confronti di un’interpretazione troppo “ottimista” della situazione attuale.
Ad esempio De Marchi, che pure, a differenza di La Grassa, continua a ritenere decisivo (anche se non esclusivo) il conflitto tra capitale e lavoro per spiegare le evoluzioni del capitalismo, non ne deduce che, grazie a questa sua centralità teorica, il lavoro possa avere sempre una centralità politica reale, costringendo il capitale quantomeno ad onerosi compromessi. Insomma: il fatto che nella fabbrica postfordista il “consenso attivo” del lavoratore sia considerato essenziale, non implica che, solo per questo, il movimento operaio possa chiedere ed ottenere un nuovo compromesso sociale complessivo, sostitutivo di quello fordista, nell’ambito del quale scambiare consenso contro benefici in termini di salari, occupazione e servizi. Il compromesso fordista fu l’effetto cumulativo di una serie di condizioni (lotte di classe, guerre mondiali, presenza minacciosa del “blocco socialista”, esigenze di regolarità della produzione in regime di mercati nazionali relativamente chiusi) che oggi non esistono più. Nelle condizioni nuove i compromessi di classe appaiono improbabili. Oppure, ci permettiamo di aggiungere, appaiono confinati al livello corporativo della singola impresa (contratti individualizzati, benefits aziendali e così via), oppure ancora sono raggiungibili solo in forza di grandi conflitti e di condizioni assai particolari, e sembrano poter avere per ora soprattutto un contenuto tattico, senza preludere ad un nuovo modello di regolazione coerente ed organico come quello sorto dalla seconda Guerra mondiale. E La Grassa, se da un lato, con la sua analisi dei funzionari del capitale come un insieme differenziato e contradditorio, ci consente di individuare i conflitti frai diversi agenti capitalistici, ed eventualmente di utilizzare questi conflitti al fine di sviluppare progetti politici alternativi, dall’altro ci avverte che non esiste un contrasto insanabile tra un “buon” capitalismo produttivo ed un “cattivo” capitalismo finanziario. Ogni impresa che si rispetti è oggi un intreccio di attività produttive e finanziarie, e, in un universo economico turbolento come l’attuale, le stesse attività speculative sono necessarie a reperire risorse che sono essenziali per l’impresa nel suo insieme. Per quante difficoltà e crisi la finanziarizzazione dell’economia possa comportare, essa non può essere affatto vista univocamente come un fattore di perversione del ciclo produttivo (ennesimo indice di quella presunta “marcescenza” del capitalismo che avrebbe da tempo dovuto condurre al collasso finale), ma svolge anche funzioni dinamiche e, soprattutto, coinvolge allo stesso modo tutti i più importanti agenti del capitale. Anche in questo caso, quindi, l’eventuale alleanza tattica con questo o quel gruppo di “dominanti” non sembra poter condurre ad un rilancio di politiche similkeynesiane.
Ben altra capacità conflittuale, sembra di poter concludere, è necessaria per chi voglia ottenere risultati anche solo parziali a favore delle classi e dei ceti che hanno pagato il prezzo maggiore della controrivoluzione neoliberista. Una capacità conflittuale che abbisogna, per svilupparsi, anche del confronto fra diversi modelli teorici diversi fra loro, ma analoghi, per serietà e profondità, a quelli illustrati nelle pagine che state per leggere.
Torino, agosto 2006
3 Una riflessione che non potrà che essere aiutata dall’annunciata pubblicazione della nuova traduzione italiana del capolavoro di Althusser.