VERSO UN NUOVO CAPITALISMO di E. De Marchi e G. La Grassa

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VERSO UN NUOVO CAPITALISMO di E. De Marchi e G. La Grassa, Ed. Unicopli, €13,00.
INDICE DEL SAGGIO DI GIANFRANCO LA GRASSA
UNA TEORIA DI FASE
Per un’epoca di trasformazione
Puntualizzazioni
L’Imperialismo secondo Lenin
La fase attuale per cenni
Il capitalismo in senso proprio
Una transizione “non pensata”
Verso una teoria del conflitto per la dominanza
Lo sviluppo ineguale
Tra teoria generale e analisi di fase
Conclusioni (che non concludono)
1. Puntualizzazioni
Il saggio di De Marchi che precede ha messo in chiara luce varie questioni relative sia a come si è andata configurando la situazione mondiale negli ultimi decenni sia alle diverse concezioni teoriche formulate nel tentativo di inquadrare, da parte di ambienti in qualche modo influenzati dal marxismo, la situazione stessa, spiegando le cause della sua evoluzione al fine di proporre l’eventuale assunzione di determinate posizioni politiche di carattere critico-trasformativo del capitalismo. Ritengo il suddetto saggio molto esauriente e mi risparmierò dunque molte considerazioni in merito, salvo qualche puntualizzazione, prettamente teorica, che la sua lettura mi ha suggerito.
Le analisi marxiste dell’epoca imperialistica esistente nei primi decenni del ‘900, in particolare quella di Lenin, hanno avuto il principale difetto di immaginare un capitalismo arrivato, con la monopolizzazione dei mercati e la crescente finanziarizzazione del capitale, alla fase suprema del suo sviluppo. Tali analisi erano inoltre in gran parte affette da economicismo, pur se Lenin si dimostrò capace di utilizzarle brillantemente in sede di pratica politica (e che pratica!). Tuttavia, i dibattiti marxisti di quell’epoca lontana, riletti oggi, accanto a questa limitatezza di tipo economicistico, manifestano una indubbiamente ampia – pur se teoricamente non compresa – visione geoeconomica e geopolitica, con capacità di indagine della complessità dei rapporti tra le diverse frazioni borghesi e le differenti potenze capitalistiche in lotta, afferrando inoltre spesso i mutamenti, anche rapidi, che intervenivano in merito alle rispettive posizioni di forza, di prevalenza, tra queste frazioni e queste potenze. I dibattiti fra marxisti (o similtali) sviluppatisi nel secondo dopoguerra (fino agli anni ’70, massimo inizio ’80, del ‘900, poiché in seguito sono divenuti asfittici) appaiono invece singolarmente limitati, abbastanza meschini; ben forniti a volte di formule e tabelle, altre volte di buona sensibilità per la storia, ma poveri di contenuto teorico, di inventività scientifica, e affetti da uno schematismo a volte disarmante, che ha provocato non pochi danni sul piano politico (e sindacale).
In Italia in particolare – che è stato, tra i paesi dell’occidente capitalistico, quello con il più forte partito comunista e ricco inoltre (nei primissimi decenni del dopoguerra) di una nutrita schiera di intellettuali influenzati, bene o male, dal marxismo – il dibattito o ha portato, maggioritariamente, verso sbocchi di neosocialdemocrazia (in qualche guisa kautskiana) e di opportunismo parlamentaristico, piegando la teoria marxista ad una sorta di evoluzionismo storicistico, o ha dato vita a correnti “eretiche” minoritarie, che hanno però operato una gravissima distorsione di tale teoria impoverendola in misura pressoché irrimediabile; talché ancor oggi, nei (rimasugli) “marxisti” critici rimasti in campo, risentiamo gli echi di quell’impoverimento. I principali autori
esiziali a tal proposito sono stati i cosiddetti (del tutto impropriamente) “operaisti”, che avevano ben poco a che vedere con il reale movimento operaio. Mentre Marx chiarì, oltre ogni possibilità di dubbio (vedi ad es. le Glosse a Wagner), che il soggetto della sua analisi era la merce e non il processo di lavoro (dove pure avviene il fenomeno cruciale dell’estrazione del pluslavoro/plusvalore), mentre Hilferding, nella sua discussione con Bóhm-Bawerk, sostenne che la teoria del valore di Marx aveva come suo centro di gravità l’analisi della merce, cioè una storicamente specifica forma dei rapporti sociali fondata sulla generale produzione di merci (e dunque di valori), i suddetti “operaisti” (assai poco o per nulla marxisti) concentrarono l’analisi proprio sui processi di lavoro e le modificazioni tecnico-organizzative da questi via via subite, in particolare con il passaggio dalla sussunzione formale a quella reale del lavoro al capitale, facendo così del taylorismo-fordismo l’inveramento, la forma suprema, dei metodi di estrazione del plusvalore relativo.
Tale distorsione ha sterilizzato il marxismo, incanalandolo verso tesi politiche perfino imbarazzanti per la loro superficialità e dissennatezza. I rapporti tra capitale e lavoro sono stati trasformati in una “singolar tenzone” tra due entità soggettivate nella loro compattezza ed unitarietà, senza alcuna analisi delle frazioni interne ai due “soggetti” con le loro reciproche lotte, la loro dispersione nel “campo” costituito dalla società nel suo complesso, i problemi dell’egemonia delle une sulle altre, o di date loro frazioni su altre, ecc. Inoltre, la lotta è stata pensata in base all’elementare modello della sfida-risposta, dove chi sfidava era la Classe Operaia e chi rispondeva era il Capitale (sempre tutto maiuscolo ovviamente). Si è arrivati ad un certo punto, in sede sindacale, a sostenere che il salario era la variabile indipendente, cui si doveva poi adeguare il profitto, e via dicendo. Oggi, certe sciocchezze sono dimenticate, o fanno sorridere, ma non sono ancora stati digeriti ed espulsi dall’organismo tutti i residui di ciò che ne era all’origine: una teoria falsamente marxista (al massimo, in certi esponenti, neoricardiana) e che, lo ripeto, ha spesso centrato la sua analisi sul processo di lavoro, sulla sua tecnologia e organizzazione, riducendo tutta la “lotta di classe” allo schema duale capitale/lavoro (anzi, pardon, Capitale/Lavoro).
A livello internazionale, si sono sviluppate altre teorie, senz’altro più interessanti, di cui la principale, quella della dipendenza, cercava di prendere atto e dare una spiegazione del fatto che la lotta tra oppressori (capitalistici) e oppressi si era spostata rispetto al conflitto capitale/lavoro (salariato) – enfatizzato dai marxisti e comunisti del mondo capitalistico avanzato e tutto interno invece alla riproduzione di questa formazione sociale e alla distribuzione della “torta” prodotta – con l’entrata nella scena storica delle masse diseredate del Terzo Mondo in lotta contro il capitalismo avanzato (USA in testa). Tuttavia, il modello tradizionale restava di fatto in vigore, con la mera sostituzione di tali masse alla classe operaia dell’impostazione marxista tradizionale; stessa visione semplicisticamente dicotomica della divisione della società in sfruttatori e sfruttati, spossessamento (prelevamento del plusvalore) prodotto nel terzo mondo a favore del primo, il cui arricchimento veniva interpretato come fosse soltanto dovuto a questo processo di autentica e semplice spoliazione. Al di là di ogni critica teorica, che ho fatto in altra sede, basti pensare allo sviluppo capitalistico cui sono andati incontro, negli ultimi decenni, prima il sud-est asiatico e successivamente i due più popolosi paesi del mondo (già considerati, dopo la Conferenza di Bandung del 1955 e per alcuni decenni, alfieri dei paesi dell’area sottosviluppata). Il primo (la Cina) potrebbe anche essere (ma surrettiziamente) pensato come un caso di accumulazione originaria del capitale basata sulla forte centralizzazione del potere politico, in grado di sostituire la funzione avuta in tal senso nell’occidente capitalistico dalla concorrenza mercantile; il secondo (l’India) non può nemmeno dar origine a simile (fasulla) ipotesi ad hoc, che già, come ben sappiamo, indebolisce la credibilità di una teoria scientifica.
Non posso in questa sede diffondermi nemmeno sulla scuola dell’economia-mondo, che ha i suoi meriti – soprattutto, come posto in risalto da De Marchi, per il suo impianto antistadiale e più orientato in senso ciclico – ma mi sembra che la netta distinzione tra imperi-mondo e, appunto, economia-mondo (del periodo capitalistico) trascuri in definitiva l’importanza della sfera politica (non soltanto dello Stato, mera condensazione di quest’ultima e dei conflitti che in essa si svolgono)
nella società moderna; soprattutto, però, nella distinzione tra centro, semiperiferia, periferia, vi è una certa coloritura ultra (o super)imperialistica di vecchio stampo, pur se magari con trasferimento del centro dominante capitalistico di epoca in epoca; sono convinto che tale tesi, malgrado l’attuale strapotere statunitense, sia poco realistica, e vedo anzi riprendere oggi nuovo vigore la concezione leniniana relativa allo sviluppo ineguale del capitalismo, che dovrà essere meglio sondata.
Comunque, la critica (che è nel contempo una radicale autocritica) di quelle che sono, secondo la mia attuale opinione, degenerazioni pseudomarxiste è stata da me sviluppata da ormai oltre dieci anni a questa parte; e chi ha voglia di leggerne il consuntivo lo può fare nel recente testo Gli strateghi del capitale (Manifestolibri, gennaio 2006), cui ho aggiunto una sorta di corollario, La teoria come pratica (politica), anch’esso già pubblicato (Editrice apuana, 2006). Cerchiamo invece adesso di prendere in considerazione la fase attuale, però in riferimento a determinati presupposti teorici ed confrontandosi anche con il passato.
9. Conclusioni (che non concludono)
E’ possibile, ripetendosi certo un po’, trarre alcune sommarie conclusioni del tutto provvisorie da quanto è stato sostenuto in questo saggio.
Il termine imperialismo – ma non quello di Impero, vero inganno retorico dovuto alla penna di (finti) esteti della rivoluzione totale ed estrema, che nella loro vita hanno inventato un numero incredibile di fasulli “soggetti rivoluzionari”, approfittando di una lunga e sistematica opera di distruzione della scienza marxiana e della memoria storica delle lotte comuniste, da essi stessi favorita e promossa – può essere utilizzato, ma con la precisa consapevolezza del suo uso solo politico e agitatorio. In senso scientifico, esso è troppo legato a precise concezioni emerse durante il dibattito (interno ed esterno al marxismo) nei primi decenni del novecento. Malgrado la diversa connotazione dell’imperialismo, tutti gli autori di quel tempo lontano – da Kautsky a Hilferding a Lenin alla Luxemburg a Hobson, e tanti altri – erano accomunati da una impostazione prevalentemente economicistica e dalla convinzione che il capitalismo, inteso nel solito e tradizionale senso (quello del secolo precedente), si fosse innalzato ad un nuovo “stadio” del tutto irreversibile, che avrebbe creato problemi di tendenziale stagnazione; pur se poi, sulle ricette per uscire da quest’ultima, i vari studiosi (e politici) divergevano.
Hobson era convinto di una possibile rivitalizzazione produttiva del capitalismo mediante politiche che in qualche modo anticipavano temi poi sviluppati da Keynes in modo analiticamente più elaborato e raffinato. Luxemburg, fissandosi semplicisticamente e scolasticamente sul concetto di modo di produzione, nel cui ambito i salari (reali), secondo le sue tesi, non si sarebbero potuti sviluppare oltre certi limiti (altrimenti sarebbero stati intaccati a fondo i profitti), pensava all’impossibilità di realizzare il plusvalore all’interno dell’area capitalistica in senso stretto. Kautsky e Hilferding affermavano anch’essi l’impossibilità della prosecuzione dello sviluppo capitalistico, con motivazioni non del tutto dissimili da quelle della Luxemburg, ma ne traevano la conclusione di una “pressione delle cose” in direzione di una evoluzione pacifica, mediante “libere” elezioni parlamentari, del capitalismo in socialismo. Lenin formulò l’ipotesi ad hoc della rottura rivoluzionaria nell’anello debole della catena imperialistica (costituita dai paesi capitalistici avanzati in conflitto per la supremazia mondiale) onde conciliare la rigorosa adesione ai più tradizionali principi teorici marxisti (nella loro schematica e semplicistica versione kautskiana) con l’attacco all’attendismo opportunistico e al tradimento dei socialdemocratici, schieratisi a fianco delle proprie borghesie imperialistiche.
Di fatto, comunque, Lenin sostenne, ai fini della pratica rivoluzionaria, una serie di tesi su cui riflettere ancora oggi proprio per uscire dal marxismo scolastico e dottrinario. Con i discorsi intorno alle masse dell’oriente, arretrate socialmente ma politicamente più avanzate del movimento operaio occidentale, egli mise il dito sulla piaga, anche se non volle – ma proprio perché non lo poteva fare a quel tempo – trarre le definitive conclusioni, anche in teoria, dalle sue convinzioni “intuitive” (e di prassi politica). La “classe” operaia non è una classe, non è un soggetto; e tanto meno è quel
soggetto cui lo sviluppo del capitale assegnerebbe il compito storico del passaggio al comunismo. La “classe” in questione è un coacervo di lavoratori salariati, progressivamente sempre meno dotati di coesione e di intenti comuni, con mansioni lavorative sempre più differenziate e con livelli retributivi e posizioni nella gerarchia, sia dei processi di lavoro che dell’organizzazione sociale complessiva, sempre più divaricati.
Il capitalismo non è semplicemente un modo di produzione, ma una formazione sociale; da non intendersi però nel senso attribuitole da Lenin, in specie negli scritti sulla NEP dopo la Rivoluzione d’ottobre, in quanto mera articolazione di più modi di produzione; si ha qui una nuova ipotesi ad hoc che impedisce di uscire da una visione puramente dicotomica della divisione sociale, individuata solo in verticale: da una parte un sempre più ristretto gruppo di dominanti (sfruttatori, oppressori) e, dall’altra, una massa crescente di dominati (sfruttati, oppressi). Pensare la (mitica) rivoluzione globale e la palingenesi degli oppressi è allora assai facile; la stragrande maggioranza, in condizioni di crescente disagio sociale ed essendo sempre più povera in relazione alla ristretta minoranza di ricchi (e potenti), non potrebbe che ribellarsi. Solo che purtroppo, man mano che i paesi si sviluppano capitalisticamente – e un numero sempre maggiore di paesi al mondo, in un trend di lunghissimo periodo, si sviluppano secondo tali modalità – coloro che pensano in termini di rivoluzione comunista si riducono a piccole sette di visionari o a (comunque) ristretti gruppi sociali nella loro prima condizione giovanile di disagio e “belle speranze”, in quell’età in cui è ancora bello sognare e provare emozioni che costano assai poco in fatica (di vivere) e addirittura nulla in apprendimento rigoroso, in lenta e completa maturazione delle proprie capacità di riflessione sulla “realtà”.
La formazione sociale, in un marxismo che la smetta di essere catechistico, deve essere pensato quale complessa struttura sociale, pur se certo costruendo un modello tipizzante, e non invece pretendendo di riprodurre ciò che l’empirista banale e il praticone politicante pensano sia la “realtà concreta”. Si tratta pur sempre di schemi teorici, di mappe, di “tagli” effettuati su date concrezioni sociali dette “reali”. Solo che un concetto di formazione sociale di questo tipo non accetta di essere ridotto, sul piano dell’orizzontalità, alla mera giustapposizione di più modi di produzione, ognuno dei quali è strutturato solo verticalmente e caratterizzato dalla solita dinamica puramente dicotomica. La formazione sociale, in quanto griglia interpretativa – pur semplificata, ridotta all’osso per consentire una qualche pur ipotetica e provvisoria conclusione – va considerata sotto due prospettive diverse: quella spazialmente globale (il mondo) e quella relativa a singole “regioni” (in genere, ancor oggi paesi) della totalità mondiale.
Nell’ambito di ogni “regione”, la formazione sociale è costituita da blocchi sociali – a volte saldi, a volte in via di formazione, altre in fase di disfacimento – che vedono al vertice agenti dominanti e, “scendendo” lungo una piramide più o meno alta, la più o meno numerosa serie di strati sociali dominati; ma, forse detto meglio, non dominanti. La formazione (o il disfacimento) dei blocchi, la loro maggiore o minore saldezza, dipende da diverse congiunture di sviluppo o di crisi, che non presentano solo un aspetto economico (che senza dubbio, nel capitalismo, è assai rilevante). E’ necessario indagare, secondo il maggior numero possibile di punti di vista, la lotta che gli agenti dominanti, posti ai vertici dei blocchi in oggetto, conducono gli uni contro gli altri per la supremazia e il governo di quella “regione” o paese (con forme istituzionali assai diverse e anch’esse legate a certe congiunture). La lotta per la supremazia non riguarda esclusivamente, e nemmeno in via principale, la sfera economica (produttiva e finanziaria) ma investe, come il lettore già sa, quella politica e quella culturale (e ideologica). Ma è precisamente in questa lotta che si formano o disfano i blocchi sociali, cioè si rafforza o indebolisce la presa egemonica di dati gruppi di agenti dominanti (strategici) su più vasti raggruppamenti di dominati (o non dominanti). Ed è in questa lotta – quando raggiunga una elevata acutezza, non predicibile con sicurezza quasi deterministica – che avviene, in particolari fasi storiche, lo sgretolamento dei vari blocchi sociali fino ad allora in campo, con l’apertura di possibilità per l’intervento di nuovi gruppi; anche, ma non necessariamente, di dominati (o non dominanti). E soprattutto, non necessariamente vincono questi ultimi gruppi; anzi finora, nei paesi a capitalismo avanzato, hanno prevalso, in situazioni di gravi
crisi, nuovi gruppi di dominanti capaci di aggregare – esercitando egemonia, con le loro particolari forme di lotta, nelle varie istanze della società – nuovi blocchi sociali, nel cui ambito la gran massa torna ad essere subordinata ai nuovi agenti dominanti capitalistici.
Il discorso, tuttavia, non può essere limitato a ciò che avviene nelle singole “regioni” (paesi) della formazione globale. La lotta per l’egemonia si espande dalle “regioni” al complesso di questa formazione mondiale; o comunque, si allarga a “regioni” più vaste (gruppi di paesi di una certa area), poiché questo è l’unico modo per conquistare la supremazia nella propria particolare “regione”, è l’unico modo di esercitare una sempre più salda egemonia sul proprio blocco sociale di riferimento, base indispensabile per i differenti gruppi di agenti dominanti in conflitto al fine di prevalere sul piano “interno” e di espandere la loro influenza o addirittura la propria preminenza verso “l’esterno”. Anche i dominati o non dominanti, quando entrano seriamente in conflitto per il rovesciamento del potere degli agenti (funzionari delle strategie) capitalistici, debbono formare un blocco sociale compatto a partire da una congerie, nient’affatto omogenea e “oggettivamente” unificata, di segmenti e strati sociali; questo implica una articolazione gerarchica del blocco in questione, e la capacità di chi lo dirige di non limitarsi alle prediche sullo sfruttamento, sull’estorsione del plusvalore (pluslavoro), sul semplice miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro; è necessario fare pure appello ad una serie di decisive motivazioni d’ordine extraeconomico, cioè politiche e culturali. L’economico conduce solo al fenomeno da Lenin definito “tradunionismo” (lotta condotta con mentalità semplicemente sindacale). D’altra parte, i fattori politici e culturali sono acquisiti, sentiti, manovrati, ecc. con gradazioni di consapevolezza assai differenti nell’ambito delle varie stratificazioni e segmentazioni costituenti il blocco sociale in conflitto contro gli agenti dominanti capitalistici.
La lotta è dunque assai complicata e la teoria, per quanto debba necessariamente schematizzare le “realtà” sociale in cui questa si svolge, non può ridursi a illustrare lo “sfruttamento” ai fini di un conflitto esclusivamente economicistico, combattuto intorno alla divisione del prodotto del lavoro. La lotta non si sviluppa soltanto in verticale lungo la piramide sociale; essa interessa specialmente le varie partizioni spaziali di ogni formazione sociale: sia di quelle “regionali” (paesi) che di quella complessiva (mondiale). In questa lotta per linee orizzontali, non ci sono semplicemente lavoratori contro il Capitale, o masse diseredate contro l’Impero; e nemmeno si sviluppa il famoso “internazionalismo proletario”, una delle più gravi illusioni e mistificazioni ideologiche propalate dal “marxismo”. Lavoratori, “proletari”, masse diseredate, stanno dentro i blocchi sociali che si affrontano nelle varie formazioni sociali (“regionali” e “mondiale”) per la supremazia in esse. Le truppe della “Rivoluzione” e quelle della “Vandea” sono entrambe costituite da lavoratori, proletari, masse diseredate. Non sono gli agenti dominanti a “spararsi” fra loro (a volte metaforicamente, a volte alla lettera); sono le masse da loro dominate che lo fanno. Sostenere che ciò avviene per tradimenti dei capi dei dominati è la più colossale sciocchezza cui abbiano creduto – certo spesso in buona fede – i comunisti e marxisti; ed è causa non secondaria delle loro cocenti sconfitte: dalla Comune parigina al massacro degli spartachisti tedeschi, ecc. fino al crollo totale, e inverecondo, del “comunismo” mondiale. Un’epoca storica è finita, chi si illudesse di farla risorgere farà la stessa fine dei suoi “padri”.
Comunque, quello che qui mi interessa, giunti al termine (provvisorio) di queste riflessioni, è sottolineare come il conflitto in orizzontale nella formazione sociale – non quale articolazione di modi di produzione, bensì di sfere sociali in cui si affrontano varie strategie tese alla predominanza, con metodologie e contenuti diversi, ma con uno stretto intreccio reciproco – non possa che condurre, per fasi successive di acutizzazione e di relativa stasi (scontro solo più larvato e sotterraneo), a periodici mutamenti dei rapporti di forza tra differenti blocchi sociali nelle varie formazioni “regionali”, e tra queste ultime nella formazione mondiale. Abbiamo, come più volte ricordato, fasi mono e policentriche; in linea generale (e finora), le prime vedono succedersi al vertice (del predominio globale) formazioni “regionali” (paesi, nazioni) differenti, che conoscono, nel corso di un lungo periodo storico, l’ascesa, l’apogeo e poi il declino; con tempi e modalità su cui è lecito, anzi necessario, formulare ipotesi (scientifiche), senza però pretendere di cogliere i caratteri
del passato e di effettuare previsioni per il futuro con certezza o alta probabilità. Nella interpretazioni dei fatti storici passati, e di più ancora nella previsione di quelli futuri, si commettono sempre grossolani errori; e tuttavia, nessuno rinunzia all’analisi interpretativa e predittiva perché questo è l’unico modo di partecipare, nel presente, alle lotte sociali che si verificano senza sosta, sia pure con l’alternarsi di periodi di inasprimento o invece di relativa attenuazione (che nasconde però generalmente il carattere “sotterraneo” e più “morbido” del conflitto).
Di conseguenza, non credo si possa oggi parlare, in senso proprio, di imperialismo, poiché tale definizione si attaglia semmai ad un’epoca di acutizzazione dello scontro; e non certo tra blocchi sociali all’interno delle formazioni “regionali”, bensì proprio fra queste ultime alla ricerca, nel pieno di una fase policentrica, della vittoria definitiva sul piano mondiale. Oggi, soprattutto dopo il crollo del “socialismo reale” – che ha trascinato con sé l’intero comunismo mondiale – viviamo una fase monocentrica fondata sul predominio degli Stati Uniti. Possiamo anche constatare una tendenziale accentuazione del caos e disordine a livello globale, e da questo fenomeno trarre la sensazione (e l’auspicio) dell’incipiente declino di questa potenza centrale. Farei tuttavia attenzione ad avanzare conclusioni definitive prima del prodursi di processi nettamente più evidenti; tanto più che le nostre teorizzazioni sono ancora schiave di vecchie categorie, piene zeppe delle tipiche ideologie sia della scienza sociale dei dominanti sia di quella dei marxisti; anzi, se debbo essere sincero, ritengo che quest’ultima sia arrivata al capolinea, a meno che non ci si metta di buzzo buono per rivitalizzare, con atteggiamento assai radicale, un pensiero che ha ben più di cent’anni, e ormai li dimostra tutti.
Tuttavia, va rilevato che Lenin ci ha lasciato in eredità un’altra importante tesi, pur se ancora rudimentale, non elaborata adeguatamente: quella dello sviluppo ineguale del capitalismo. Nei miei termini, si tratta di quello sviluppo caratterizzato dallo scontro tra dominanti che sconvolge continuamente – pur se con intensità e modalità differenti nelle diverse fasi, mono o policentriche – la strutturazione dei loro rapporti. Dobbiamo capir meglio – con maggiore finezza d’analisi, con più puntuale individuazione dei blocchi sociali (nella loro stessa articolazione interna) in lotta – sia i mutamenti dei loro reciproci rapporti di forza, più o meno radicali e violenti o “democratici” a seconda delle congiunture, nell’ambito delle formazioni “regionali”; sia le modificazioni degli assetti internazionali, cioè delle inter(rel)azioni tra queste formazioni “regionali”, con l’apertura delle fasi policentriche e i successivi passaggi a quelle monocentriche che comportano il trasferimento della predominanza da una formazione “regionale” all’altra. Si è già più sopra rilevato che tali passaggi di centralità dominante sul piano globale si accompagnano a mutamenti strutturali dei rapporti sociali pur sempre definibili – in base alla configurazione della sfera economico-produttiva (se vogliamo, usiamo ancora il termine modo di produzione) – capitalistici. Detti passaggi, però, avvengono appunto tramite sconvolgimenti sociali sia globali che “regionali”, caratteristici delle fasi policentriche che sono in genere quelle più dense di eventi rivoluzionari; precisamente perché lo sviluppo ineguale, tipico di queste fasi, crea linee di indebolimento e frattura sia all’interno delle formazioni “regionali”, sia nel sistema dei loro rapporti a livello mondiale.
Mi permetto di consigliare – soprattutto ai più giovani non ancora contaminati, almeno spero che ce ne siano alcuni, dalle vecchie teorie ideologiche – un radicale rivolgimento delle categorie d’analisi fondate sui concetti di modo di produzione e di formazione sociale (nel suo significato tradizionale), calandosi, con nuovi concetti, nell’indagine degli attuali assetti di un’epoca ancora monocentrica a predominio (almeno in larga parte) statunitense. Ci si sforzi di elaborare una nuova teoria e la si provi in analisi di fase, relative ai diversi ambiti – “regionali” e mondiale – in cui avvengono gli affrontamenti tra blocchi egemonizzati da agenti dominanti (funzionari del capitale), nel cui ambito soltanto si possono inserire coloro che hanno pretese anticapitalistiche. Di più, al momento, non mi consento di dire, essendo io stesso terribilmente impastoiato nel vecchiume di quella che, un secolo e più fa, fu una scienza, ma che oggi sussiste soltanto come oggetto di fede in sette del tutto minoritarie e ineffettuali.