Vincolo virtuoso o patto leonino? – di Giancarlo Paciello
Premessa – Parte prima: la logica della falsificazione, moderati contro estremisti – La lettera del Premier – La Voce del Padrone – La voce del servitore – Parte seconda: La verità sulla reale situazione palestinese – La posizione “occidentale”: “Processo di pace e “Due popoli due Stati” – La posizione “islamica”: “La Palestina ai palestinesi” – Divagazioni sulla comunità internazionale – Ancora su “Due popoli, due Stati”- Conclusioni – Appendice I (Lettera di Prodi al Corriere sul caso Hamas) 15 agosto ’07 – Appendice II (Lettera dell’ambasciatore americano in Italia al “Corriere”) 23 agosto ‘07- Appendice III (Articolo di Piero Ostellino sul “Corriere” del 24 agosto ‘07)
Premessa
Il presente articolo consta di due parti. La prima prende spunto da una lettera dell’ambasciatore americano in Italia, indirizzata al Corriere della Sera, e polemizza con le sue posizioni, del resto assai diffuse (e condivise) sui mezzi di comunicazione di massa di mezzo mondo. Costituisce, come si diceva una volta, la pars destruens dell’argomentazione, dal momento che mette in evidenza la versione falsificata della realtà, proposta in primo luogo dagli Stati Uniti sulla questione palestinese. La seconda parte invece rappresenta un tentativo di esplicitare con coerenza (la pars construens), a partire dal piano storico, la reale condizione del popolo palestinese, da più di quarant’anni sottoposto ad una feroce occupazione militare e ad un processo di espropriazione della propria terra attraverso una sfrenata colonizzazione. Essa si articola sostanzialmente sull’analisi critica di due espressioni, “processo di pace” e “Due popoli due Stati”, sulle quali si fonda la mistificazione “occidentale”.
Parte prima: La logica della falsificazione, moderati contro estremisti
Il 23 agosto 2007, il Corriere della Sera ha pubblicato una lettera, inviata al direttore, dell’Ambasciatore in Italia degli Stati Uniti d’America, Ronald Spogli, (che riporto in appendice), dal titolo, redazionale immagino, “Trattativa: i vincoli da rispettare”. Il giorno successivo, con zelo che lascio qualificare ai lettori (dal momento che, in appendice, ne riporto il testo), Piero Ostellino commenta (si fa per dire), la lettera di Ronald Spogli, visto che non fa altro che parafrasare il contenuto della lettera, accentuando a volte il tono intimidatorio della stessa.
Facciamo un passo indietro. Sia pure con un’ambiguità e una prontezza alla smentita a livelli berlusconiani, nei giorni precedenti il 23 agosto, sia il ministro
degli esteri D’Alema, sia il primo ministro Prodi, avevano accennato alla importanza che alle trattative sulla Palestina partecipasse anche Hamas.
Nella mattinata del 13 agosto, ospite, a Castiglione della Pescaia, di un incontro organizzato dalla “Opera per la gioventù Giorgio La Pira” (con la partecipazione di un centinaio di ragazzi italiani, israeliani, palestinesi e russi sia cattolici che ortodossi), Prodi ha affrontato la questione mediorientale. E alla domanda su come vada gestito il rapporto con Hamas, il presidente del Consiglio ha risposto:
“Stiamo aiutando fortemente, lealmente e con energia lo sforzo di Abu Mazen e Olmert per fare gesti di pace, che sono difficilissimi. Ma sono convinto che non possiamo avere la pace se i palestinesi sono divisi, lo capiscono benissimo anche loro. C’è la chiara consapevolezza che non possiamo avere una pace di lungo periodo con due Palestine”,
aggiungendo subito dopo:
“Hamas esiste, ed è una struttura molto complessa, dobbiamo aiutarla ad evolversi. Ma questo deve essere fatto apertamente, con trasparenza, discutendone, come ho fatto, con Abu Mazen e Olmert nel mio ultimo viaggio”.
E Prodi ha concluso che, se l’obiettivo della politica italiana in questa zona è quello di avere “due popoli e due nazioni che vivono in pace come due paesi europei”, bisogna spingere al dialogo perché questo avvenga.
“Non bisogna chiudersi al dialogo con nessuno”.
Il portavoce di Hamas a Gaza, Sami Abu Zuhri accoglie positivamente le parole del capo del Governo italiano:
“Siamo pronti ad aprire un dialogo franco con la comunità internazionale come auspicato da Romano Prodi. Noi apprezziamo molto il ruolo svolto dall’Italia, che anche altre volte ha esortato per un dialogo con il nostro movimento. L’atteggiamento italiano testimonia il desiderio europeo di riconsiderare la sua posizione verso Hamas”.
Secondo Sami Abu Zuhri:
“il mondo occidentale sta capendo che è stato un errore non trattare con Hamas in passato, e ora noi ci auguriamo che le dichiarazioni del primo ministro italiano vengano ascoltate dall’Unione europea, all’interno della quale ci sono altri gruppi parlamentari che sostengono la medesima esigenza di trattare con noi. Hamas è pronto ad aprire un dialogo franco con la comunità internazionale”.
La replica di Israele non si fa aspettare. Giudica dannosa qualsiasi apertura agli “estremisti” proprio mentre esiste un esile filo di trattativa con il presidente palestinese, il moderato Mahmoud Abbas. Arriva dunque una chiusura totale all’invito di Prodi. Mark Regev, il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, dichiara:
“Riportare Hamas nell’attuale contesto avrebbe solo l’effetto di guastare il clima positivo (tra Olmert e Abbas)”. Il governo dell’Autorità palestinese è guidato oggi da moderati, impegnati per la pace e una soluzione basata su due stati. Se si riportano dentro la cornice gli estremisti che respingono la pace e la riconciliazione, si danneggerebbe questo processo”.
Anche sul fronte interno, le parole di Prodi hanno una grande eco. Il centrodestra chiede a Prodi di spiegare in Parlamento la posizione del governo
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italiano su Hamas (Paolo Bonaiuti). Stessa richiesta fa Alleanza Nazionale. Gasparri la spara grossa, sostenendo che Prodi
“plaude ai terroristi islamici di Hamas con parole gravi e irresponsabili che confermano il ruolo pericoloso del governo italiano, noto nel mondo per le posizioni di apertura ai movimenti sanguinari della Palestina e del Libano”.
Ah, Gasparri, Gasparri, sempre più realista del re, anche in regime repubblicano?
Calderoni gli fa buona compagnia, dichiarando che il presidente del Consiglio
“non esita a porsi al di fuori della comunità internazionale e ad aprire ad Hamas, ovvero a ciò che per la comunità internazionale resta un pericolo terrorista”.
Ovviamente, i partiti della sinistra dell’Unione difendono l’apertura del premier, ma il portavoce del governo, Silvio Sircana comincia con i distinguo, per chiarire la posizione di palazzo Chigi:
“Prodi ha detto che con Hamas è necessario lasciare aperto un canale di dialogo, che è cosa ben diversa dal negoziato, portato avanti da Olmert, da Abu Mazen e dal Quartetto guidato da Blair. Questo negoziato, ha ribadito Prodi, ha il pieno appoggio del governo italiano”, aggiungendo che Prodi
“ha parlato di lasciare aperto uno spiraglio di dialogo con Hamas per aiutarli a uscire da questa situazione, per scongiurare il pericolo che ci si trovi di fronte a due Stati palestinesi. Ad Hamas sono stati dettati paletti ben precisi, dal riconoscimento dello Stato di Israele alla fine del terrorismo, che rimangono e su cui nessuno intende soprassedere o dimenticare”. E Sircana si affretta concludere che:
“chi vuole leggere nelle parole un cambio di rotta rispetto alle politiche europee si è sbagliato di grosso”.
Piero Ostellino scrive lo stesso giorno, il 14 agosto, un commento alle dichiarazioni di Prodi. Non l’ho letto, Prodi ne fa cenno nella sua lettera di Ferragosto al Corriere, immagino si sarà trattato di una critica alle dichiarazioni del premier, una prova per l’articolo del 24 agosto, scritto dopo aver ascoltato the master’s voice!
Ma non anticipiamo. Siamo arrivati al giorno di Ferragosto e Prodi ritiene opportuno scrivere la lettera cui ho appena accennato e che riporto in appendice.
La lettera del Premier
In essa, il premier ribadisce le linee portanti della politica italiana in Medio Oriente, sintetizzandole nella formula:
“cercare di favorire in ogni circostanza le prospettive di pace e di stabilità della
regione”, sempre consapevoli che la pace si fa con gli avversari, (e forse avrebbe fatto meglio a dire, più correttamente, con i nemici).
Per Prodi, la politica italiana in Medio Oriente si articola in 4 punti:
1) Presenza nel Libano meridionale, con un’azione di leadership apprezzata da tutta la comunità internazionale per mettere fine al conflitto che si era innescato l’anno scorso (Missione Onu dell’Unifil), contribuendo con 3.000
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uomini a garantire il cessate il fuoco fissato dalla risoluzione 1701 e la sicurezza della frontiera settentrionale di Israele.
Opera di coinvolgimento della Siria nelle dinamiche negoziali della regione. Un’azione non facile ma ormai (a detta di Prodi), riconosciuta e seguita da tutti i paesi dell’Unione Europea. E che sembra dare segnali di una ripresa del dialogo tra Israele e Siria, e anche nel campo arabo se si pensa alla scelta di Damasco come sede del prossimo Vertice della Lega Araba. Un’importante apertura di credito questa per il Presidente Assad, che Prodi si augura venga colta al volo. Senza però attendersi risultati immediati.
Fermo sostegno sul fronte del processo di pace israelo-palestinese, sostenendo con profonda convinzione e con atti concreti il rinnovato dialogo tra il Primo Ministro Olmert ed il Presidente Abbas, nonché i coraggiosi sforzi di riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese del neo Primo Ministro Fayyad, con la convinzione che non esistono alternative a questo dialogo. Prodi ci tiene poi a sottolineare di essere stato, nel quadro di questo sostegno, uno dei primi leader politici mondiali ad affermare pubblicamente il diritto all’esistenza di Israele come Stato ebraico (sottolineatura nostra). E a ribadire però che:
“l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è che si crei una frattura incolmabile nel popolo palestinese e che si possano creare due entità palestinesi”.
Posizione su Hamas. Per Prodi le condizioni per il ritorno nel gioco politico palestinese di Hamas dipendono da loro stessi, nel senso che le regole sono quelle fissate dal Quartetto nel gennaio 2006: cessazione della violenza, riconoscimento degli accordi precedenti sottoscritti da Olp ed Israele e riconoscimento del diritto all’esistenza dello Stato ebraico. E il premier ne aggiunge una e cioè la necessità di ripristinare la legalità nella striscia di Gaza, confidando
“anche sugli sforzi di Tony Blair in nome e per conto del Quartetto nonché sull’opera paziente di paesi della regione mediorientale, dall’Egitto, all’Arabia Saudita, alla Giordania”.
La lettera si conclude con una dichiarazione:
“L’Italia sia bilateralmente che in ambito europeo ed alle Nazioni Unite continuerà a lavorare in questa direzione ed a dare il proprio contributo ad una positiva evoluzione della situazione. Pur nella consapevolezza della sua complessità e dei vincoli entro cui ci muoviamo, continueremo ad incoraggiare tutte le parti a dare prova di coraggio politico e di leadership, che sono le vere condizioni in base alle quali si potrà assicurare una pace duratura e stabile in Medio Oriente”.
La Voce del Padrone
Passano pochi giorni e arriva la lettera di Spogli al Corriere. Uno splendido esordio:
“alcune popolazioni del Medio Oriente dovranno fare scelte importanti molto presto”,
di una vaghezza impressionante (se si pensa alla specifica presenza degli USA in Medio Oriente), seguito da:
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“e noi, quali membri della comunità internazionale, abbiamo la responsabilità di aiutarle a prendere decisioni che favoriscano la stabilità regionale e mondiale, a optare per la moderazione contro l’estremismo violento, e a fare scelte che promettano un futuro migliore”.
Quale ipocrisia! Sono decenni che gli USA si intromettono dovunque e in ogni modo, ignorando la comunità (e il diritto) internazionale, ed ecco il suo ambasciatore in Italia che rivendica “un noi”, dopo decenni e, in particolare dopo l’ 11 settembre, di totale unilateralismo.
Ma proseguiamo. Sembra che l’ambasciatore voglia entrare nel merito, si riferisce a “israeliani e i palestinesi” ma subito dopo parla di loro come soggetti “[che] hanno l’opportunità di fare progressi” e ritorna sugli Stati Uniti, la comunità internazionale, sotto la guida del Quartetto, “[che] devono aiutare entrambe le parti a perseguire tale obbiettivo”. Da far concorrenza al papa!
Insomma, in una situazione che vede precipitare le sorti di un popolo, quello palestinese, nella più cupa disperazione, sottoposto com’è ad un’occupazione militare da quarant’anni, ad un embargo della “comunità internazionale” per aver eletto liberamente il proprio governo (che la comunità internazionale non ha riconosciuto), e ad una sollecitazione aperta alla guerra civile, il rappresentante in Italia del più potente Stato del mondo, delinea così i compiti e gli interlocutori di questa drammatica situazione che “la comunità internazionale” ha completamente determinato, permettendo allo Stato d’Israele anche di ignorarla? Capisco la diplomazia, ma “est modus in rebus” avrebbe detto il mio corregionale Orazio!
Proviamo a dire sinteticamente come stanno veramente le cose. In una ventina di righe, a far data da oggi, 18 settembre 2007.
Sessant’anni fa, c’era la Palestina, sotto mandato britannico e non c’era lo Stato d’Israele. Quasi sessant’anni fa, il 29 novembre 1947, una risoluzione dell’ONU propose di dividerla in tre parti: uno stato ebraico, uno stato arabo e un territorio sotto controllo internazionale.
Il 14 maggio 1948 nacque lo Stato d’Israele, che, nel corso della guerra del 1948, conquistò, con le armi, un ulteriore 22% del territorio della Palestina mandataria e una metà di Gerusalemme. Durante la stessa guerra, La Transgiordania occupò la Cisgiordania (21% del territorio) e l’altra metà di Gerusalemme. l’Egitto occupò la striscia di Gaza uno 0,015 % del territorio.
Lo stato arabo non nacque e dal suo territorio furono espulsi 750.000 profughi.Circa 20 anni dopo, con una guerra-lampo (sei giorni), lo Stato d’Israele conquistò, con le armi, tutta la Palestina mandataria, oltre al Sinai (egiziano) e alle Alture del Golan (siriane). Altri 300.000 palestinesi dovettero abbandonare tutto. Una risoluzione (la 242) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU votata all’unanimità, in piena sintonia con il diritto internazionale, dichiarò illegittima l’intera occupazione di detto territorio. Ma Israele l’ha sempre ignorata. E, da 40 anni, occupa militarmente questi Territori, a parte il Sinai restituito all’Egitto, dopo un trattato di pace, ricoprendoli di colonie!.
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Oggi, in meno di 60 anni, La Palestina è scomparsa dalla carta geografica, sostituita da Stato d’Israele e Territori occupati. Pensate che vita, per i palestinesi!
Fatta un po’ di concreta chiarezza sul contesto palestinese, riprendiamo a seguire l’ambasciatore, appassionato della logica della genericità cui le figure “moderati ed estremisti” appartengono di diritto! Ed eccolo definire i ruoli da svolgere nel processo di pace per il Medio Oriente.
“i Paesi membri del Quartetto possono e devono incidere sui rapporti di forza tra moderati ed estremisti. I palestinesi devono fare una scelta e alcuni dei loro leader, guidati dal presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), sono favorevoli alla scelta moderata”.
Dunque nessuna considerazione storico-politica. Nessun diritto per il popolo palestinese. Sembra che tutta la questione sia affidata ai palestinesi, al loro senso di responsabilità, alla loro scelta moderata. E i paesi membri del Quartetto (tutto il mondo in pratica, visto che questo comprende gli USA, l’UE, la Russia e, udite udite, l’ONU!) non devono fare altro che incidere “sui rapporti di forza” tra moderati ed estremisti.
Ossessiva e monomaniacale la lettera! Un problema irrisolto da più 60 anni può trovare soluzione oggi, strozzando Hamas. E già, perché avevamo dimenticato il male! Sentite come insiste Spogli:
“Spetta ai politici di quell’area e alla comunità internazionale sostenere i leader del governo palestinese disposti a cogliere le opportunità di pace, poiché essi rischiano molto ed è nostro dovere aiutarli. Molti, anzi direi la maggioranza, sia sul fronte israeliano che su quello palestinese concordano sui principi fondamentali della pace”.
Ed ecco, subito dopo, il diktat, il patto leonino.
“Principi molto chiari: la soluzione che prevede due Stati, il rifiuto della violenza e del terrorismo, il riconoscimento a entrambe le parti del diritto di esistere, e l’adesione al processo di pace. Coloro che rifiutano di accettare tali principi non meritano il nostro sostegno e non dovrebbero sedere al tavolo dei negoziati”.
Non una parola sul ritiro dello Stato d’Israele dai territori occupati, non una parola sulle colonie create a centinaia sul territorio palestinese in barba ad ogni diritto (compreso quello internazionale) e contro i diritti dei palestinesi, non una parola su quella mostruosità, il Muro della vergogna, costruito su terre palestinesi con il solo scopo di rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Arrendetevi, poi si vedrà!
Seguono poi parole dolci verso la Lega araba che nel decidere la sua iniziativa di pace, “segnalava il desiderio di pace da parte araba”. E di nuovo, la reiterazione:
“Del resto, gli Stati Uniti non si sarebbero lanciati nell’impresa se non avessero creduto che nella regione esiste il desiderio di intraprendere la strada della pace. Per unirsi a loro e a noi a quel tavolo, i palestinesi e i loro leader devono optare per le stesse cose: la soluzione che prevede due Stati, il rifiuto della violenza e del terrorismo, il riconoscimento a entrambe le parti del diritto di esistere, e l’adesione al processo di pace”.
A questo punto l’ambasciatore si dilunga, spiegando che:
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“gli Stati Uniti stanno prendendo le proprie decisioni in merito a coloro che governano secondo le norme internazionali”.
Ma ecco la ciliegina sulla torta “Ordini imperiali”, Dopo l’affermazione precedente, la lettera continua:
“Ciò è largamente condiviso a livello internazionale, incluso il Quartetto di cui fanno parte l’Italia come membro dell’Unione Europea e gli Stati Uniti, e alle cui decisioni gli stessi Stati Uniti come anche l’Italia sono vincolati”.
Orazio avrebbe detto: in cauda venenum.
L’ambasciatore non ce la fatta più e ha dovuto tirare in ballo l’Italia, il vero obiettivo della lettera. L’Italia deve scegliere e non può che scegliere quello che ordinano gli Stati Uniti. Che Prodi non meni il can per l’aia!
“Tutto il popolo palestinese, non importa se residente in Cisgiordania o a Gaza, ha rappresentanti legittimi con i quali riteniamo di poter ottenere risultati in tal senso. E’ fuorviante nei confronti dei palestinesi sostenere che si possa evitare di fare quella scelta. Non è possibile. Ed è altrettanto fuorviante sostenere che coloro che rifiutano le condizioni del Quartetto possano far parte dell’ accordo. Non possono”.
Finalmente il nostro si è liberato del rospo, può anche parlare di quello che dovranno fare gli israeliani, “affrontare l’enorme sfida di un nuovo modello di sicurezza”(?!?) E di tutto lo scempio fatto in Cisgiordania? Avamposti israeliani non autorizzati dovranno essere rimossi e l’allargamento degli insediamenti fermato. Dunque basterà autorizzare e mai eliminare colonie! Sentite come si esprime ancora l’ambasciatore (ben sapendo che le sue parole saranno messe al vaglio israeliano), per indicare gli ulteriori (?) compiti dello Stato d’Israele:
“Gli israeliani dovranno trovare il modo di alleggerire concretamente la loro presenza fisica all’interno dei territori (il grassetto è nostro), senza tuttavia ridurre il livello di sicurezza. Alla fine, si dovrà giungere a un accordo territoriale, con confini concordati reciprocamente sulla base di status precedenti, di realtà correnti e di correzioni decise congiuntamente”.
Poi, sicuro di aver fatto il suo dovere, l’ambasciatore torna nel regno della totale genericità.
“Il risultato per i palestinesi [di un meeting sul Medio Oriente] sarà un fattore determinante per la stabilità regionale e mondiale negli anni a venire e dipenderà dalla scelta a favore della moderazione, contro l’estremismo violento. Un accordo equo tra israeliani e palestinesi aiuterà a prosciugare il pantano di instabilità nel quale il terrorismo e l’estremismo si alimentano. La comunità internazionale deve aiutare a formulare tale scelta stabilendo incentivi per coloro che scelgono il cammino della moderazione e disincentivi per coloro che optano per la violenza”.
La lettera si chiude poi con un contentino per l’Italia
“[che] ha svolto e continua a svolgere un ruolo fondamentale. Ne abbiamo bisogno e contiamo sul suo impegno costante”. Ma attenta! “Siamo pronti a lavorare con l’Italia per promuovere le aspettative di pace e stabilità nel Medio Oriente, e per isolare le forze che praticano la violenza e l’intolleranza, il cui scopo è quello di ostacolare tali aspettative”.
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La voce del servitore
Quando ero ragazzo, il che vuol dire molto tempo fa, c’era una casa discografica famosissima The Master’s Voice (la Voce del Padrone) e il suo logo era costituito da un grammofono a tromba e da un cagnolino molto attento all’ascolto. Un’immagine fissa nella mia memoria, avendola vista centinaia, forse migliaia di volte sul frontespizio dei dischi, i 78 giri di una volta in particolare, e che mi è tornata in mente alla lettura dell’articolo di Piero Ostellino a commento della lettera di Spogli, dal titolo:
L’ appello dell’ambasciatore Usa Spogli IL VINCOLO VIRTUOSO Ostellino ha colto entrambi gli aspetti della lettera “americana” e cioè il linguaggio “imperioso” e la reprimenda a Prodi ed esordisce dunque così:
“Con il “soffice” linguaggio della diplomazia, l’ ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Ronald P. Spogli, ha spiegato ieri a nuora (i nostri lettori), affinché suocera (il nostro governo) intenda, che quando si partecipa a una iniziativa multilaterale internazionale, come quella in corso in Medio Oriente, ci sono delle regole da rispettare”. Onde evitare
che il lettore perda il filo, continua evidenziando le aperture al “dialogo” di D’Alema, e di Prodi, nei confronti di Hamas, dei giorni passati, senza trascurare di definire Hamas come “il movimento terrorista che si è installato con la violenza a Gaza e che persegue la distruzione di Israele”. Poi Ostellino
evidenzia la delicatezza di Spogli. “Nessun accenno, da parte del diplomatico americano, a queste parole; nessuna critica, neppure indiretta, anzi, al nostro governo, che avrebbe rischiato di suonare come un processo alle intenzioni. Ma pur sempre un’inequivocabile presa di posizione politica, per non dire una lezione di buone maniere diplomatiche”. Capito, “diplomaticamente maleducati”, D’Alema e Prodi? Il
seguito è una lunghissima citazione della lettera di Spogli, che potete andare a leggere in appendice. Quando Ostellino arriva al brano che in precedenza ho chiamato la ciliegina sulla torta “Ordini imperiali” non sa trattenersi dallo spiegare quali siano i vincoli cui tutti, Italia compresa, debbono attenersi
secondo Spogli, citandolo: “Gli Stati Uniti sono pronti a lavorare con l’Italia per promuovere le aspettative di pace e di stabilità in Medio Oriente, e per isolare le forze che praticano la violenza e l’ intolleranza”.
A questo punto, Ostellino si interroga retoricamente sul “Come interpretare la lettera dell’ ambasciatore americano al Corriere?”, per poi fornirne tout court
la sua personale interpretazione: “…una coerente riflessione sui rischi dell’unilateralismo
nella partita diplomatica e politica mediorientale”. E fa notare che: “non è la prima volta che Spogli scrive al Corriere per ricordare quali dovrebbero essere le regole quando si gioca. Era già accaduto quando i possibili acquirenti americani della Telecom erano stati indotti a rinunciarvi per le eccessive pressioni politiche nella vicenda. Non si era trattato, allora, di un’interferenza nei nostri affari interni. Non lo è oggi. La sinistra italiana ha invocato il ritorno a una diplomazia multilaterale – fino al punto di fare dell’Onu una sorta di improbabile “governo mondiale” – ogni volta che gli Stati Uniti, come nel caso della guerra in Iraq, si sono esposti all’ accusa di volersi muovere da posizioni unilaterali”.
Una triplice excusatio non petita (Telecom, Israele, Iraq) che la dice veramente lunga sulla fedeltà di Ostellino. La conclusione dell’articolo ci esime da fare ulteriori considerazioni sul titolo del paragrafo. “Sarebbe davvero singolare
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se – adesso che Washington partecipa a una iniziativa multilaterale – il governo di centrosinistra si comportasse in modo unilaterale, violando i «vincoli» multilaterali che le impone la sua partecipazione all’ iniziativa di pace in Medio Oriente. Il sospetto di pretestuosa multilateralità, prima, e di pelosa unilateralità, poi, entrambe dettate solo dal pregiudizio anti-americano, sarebbe allora legittimo. E non solo da parte di Washington”.
Parte seconda: La verità sulla reale situazione palestinese
Ci siamo dilungati così tanto nella polemica con la Voce del Padrone e le relative appendici non certo per un “pregiudizio antiamericano”, quanto piuttosto per lo stravolgimento e la falsificazione della situazione palestinese in atto in tutto il mondo occidentale, con risultati drammatici soprattutto per la popolazione palestinese, nei territori occupati. Da ora in poi sarà dunque necessario precisare analiticamente il processo di falsificazione in atto, ripercorrendo la storia della Palestina.
A proposito della questione palestinese, si sono ormai consolidate, a livello dell’opinione pubblica mondiale, due posizioni che chiamerò “occidentale” e “islamica”, per civettare con il linguaggio che si è ampiamente diffuso sui mezzi di comunicazione di massa, mentre una terza posizione, quella sionista, resta debitamente in ombra. Queste due posizioni vengono utilizzate da Stati, partiti, organizzazioni, associazioni, attribuendo loro particolari significati, uno diverso dall’altro, a seconda degli interessi che Stati, partiti, organizzazioni, associazioni intendono difendere, quasi sempre strumentalizzando la tragedia palestinese. E quella che potrebbe sembrare una divisione netta, addirittura manichea, finisce col nascondere tutta una serie di “usi” dell’una o dell’altra posizione.
La posizione “occidentale”: “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati”
La posizione “occidentale” è riassunta in due slogan “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati”. E’ assai diffusa proprio nell’occidente e sembra porsi in modo equidistante dalle parti. Partiamo dal secondo slogan e analizziamolo. Esso riconosce il popolo israeliano ed il popolo palestinese, il loro diritto ad avere uno Stato, prescindendo sostanzialmente dalla terra, dal territorio sul quale questi Stati avranno il diritto di esercitare il loro potere, o meglio, (dal momento che lo Stato d’Israele esiste già, ed occupa tutta la Palestina mandataria), su quale porzione della Palestina dovrà nascere lo Stato di Palestina e dunque quali territori Israele sarà disposto a lasciare, quasi si tratti di un accordo con i palestinesi e non dell’obbligo, per Israele, di rispettare il diritto internazionale.
In sostanza, la nascita dello Stato palestinese viene affidata ad un “processo di pace”, legato alle concessioni cui è disposto lo Stato d’Israele in relazione al territorio, oltre che al comportamento dei dirigenti palestinesi dell’ANP. Il “processo di pace” dovrà definire perciò i confini dei due Stati, uniformandosi
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immagino (dal momento che non c’è uno straccio di esperto che lo dica esplicitamente), o almeno ispirandosi al diritto internazionale che, a partire dal 29 novembre 1947, suggerì che la Palestina mandataria venisse divisa in uno Stato ebraico, in uno Stato arabo e in un territorio sotto gestione internazionale comprendente Gerusalemme e Betlemme, i Luoghi santi per eccellenza.
Di “processo di pace” ce n’è già stato un esempio disastroso, dal 1993 al 2000, e sono stati gli USA e Israele a decretare le modalità del suo svolgimento, a decidere se fosse credibile o no la rappresentanza palestinese, via via dichiarata terrorista o troppo debole per contrastare il terrorismo, e infine a decretarne concretamente la morte. Dunque a decidere le modalità del processo sono state le stesse forze che potevano essere (e che sono) scarsamente interessate alla nascita dello Stato palestinese, visto che l’ideologia dominante in Israele era (ed è) il sionismo, un’ideologia fondata su un ben diverso slogan:
“Una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Sulla base di questa ideologia, del resto, i sionisti hanno sempre puntato, da più di un secolo, alla creazione di uno Stato ebraico, lo Stato degli Ebrei, come avrebbe detto Theodor Herzl (1896), fondato dunque su una etnia e una religione, visto che si è ebrei per discendenza materna (matrilinearità), anche se sono molti i rabbini che sostengono che spetti soprattutto a loro decidere chi è e chi non è ebreo.
La posizione “islamica”: “La Palestina ai palestinesi”
La posizione “islamica” si fonda su di una rivendicazione storica. Prima della Risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’ONU (sempre 29 novembre 1947), i palestinesi costituivano la maggioranza in Palestina, prima del Mandato (1922) costituivano una grande maggioranza, prima della Prima guerra mondiale (1914), costituivano la grandissima maggioranza del paese, provincia dell’Impero ottomano.
Questo vulnus (la partizione della Palestina mandataria) costò l’espulsione di 750.000 abitanti palestinesi nel 1948, e la perdita di terre e di abitazioni, oltre che lo spazio di vita, diventato una lunga serie di campi profughi, nei paesi confinanti. Nel 1967 poi, ci fu una nuova guerra ed un’ulteriore espulsione, con l’avvio di una colonizzazione dei Territori occupati con la guerra, mai arrestatasi anche in pieno processo di pace, per culminare infine nella recente costruzione del Muro che ha stravolto quel che restava di una vita quotidiana comunque assai drammatica.
L’aspirazione di questa posizione consiste nel recupero totale del territorio palestinese da parte della comunità araba, ignorando la storia, o meglio ipotizzandone cicli più ampi, all’interno dei quali lo Stato d’Israele potrebbe rappresentare una parentesi. Questa posizione viene da lontano, già dai primi anni del 1900, era rappresentata dal rifiuto, da parte dei palestinesi, del sionismo prima, della dichiarazione Balfour poi, della logica imperialista del Mandato successivamente e infine della decisione dell’Assemblea generale
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dell’ONU di “suggerire” di dividere la Palestina, anche con modalità decisamente asimmetriche tra arabi ed ebrei, tutte a favore degli ebrei che rappresentavano soltanto poco più del 30% degli abitanti (e soltanto il 5% della proprietà privata).
E’ in questo quadro che si coglie assai bene l’essenzialità del problema del ritorno dei profughi, cacciati dalle loro case e dalle loro terre, la cui espulsione non è in ogni caso attribuibile alla partizione ma soltanto alla guerra seguita alla partizione stessa, prima tra palestinesi (arabi ed ebrei) e poi tra lo Stato d’Israele e gli Stati arabi, contrari alla partizione (e desiderosi di partecipare alla spartizione della Palestina (Transgiordania ed Egitto in primo luogo).
Il rifiuto di cui abbiamo appena parlato, si riassume nel non riconoscimento dello Stato d’Israele da parte di chi, oggi, si fa portabandiera della posizione islamica, in primo luogo Hamas che preferisce evidenziare la presenza ingombrante ed illegale dell’esercito israeliano e quindi non intende riconoscere nessuno prima che questo nessuno non abbia abbandonato i Territori illegalmente occupati nel 1967. Soltanto dopo, Hamas si dichiara disposto a trattare in un quadro strategico più ampio.
Il discorso si fa più complesso articolandosi su due slogan che si legano dialetticamente, oltre ad opporsi drasticamente, anche se il primo è diventato la condicio sine qua non perché si possa affrontare la questione palestinese, senza essere accusati immediatamente di antisemitismo:
Il diritto dello Stato d’Israele ad esistere
L’entità sionista deve scomparire
Divagazioni sulla comunità internazionale
La comunità internazionale, alla quale l’Italia è rigorosamente allineata, non fa alcun riferimento al diritto internazionale e alla reale illegale occupazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza (sì, anche la striscia di Gaza isolata dal resto del mondo da un controllo asfissiante dell’unico legame con l’esterno, il valico di Rafah, da parte dell’esercito israeliano e dove i carabinieri italiani non si sa bene cosa ci stiano a fare!), e antepone a tutto il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte di chi non ha fatto che subire violenze e ingiustizie da questo Stato.
A me sembra particolarmente ridicolo (ed odioso) aver preteso, dal governo palestinese, uscito dalle elezioni democratiche del gennaio 2006, il rispetto degli accordi di Oslo, (pena il suo non riconoscimento! Un chiaro ricatto, portato fino alle estreme conseguenze, con l’esclusione di Hamas da qualsiasi trattativa, in quanto “terrorista”!) dal momento che lo Stato d’Israele di fatto non ne ha rispettato quasi nessuno ed ormai di questi accordi non ne è rimasto in piedi nessuno, salvo il reciproco riconoscimento fra lo Stato d’Israele e l’OLP!
E’ bene ricordare che la Dichiarazione dei princìpi (alla base del processo di pace) comportava trasferimenti di potere, una forza di polizia palestinese,
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l’elezione a suffragio diretto di un Consiglio legislativo palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, “tappa preparatoria significativa in vista della realizzazione dei diritti legittimi del popolo palestinese”, che l’offensiva del marzo 2002 ha praticamente cancellato. Quanto al parlamento palestinese, molti suoi membri sono nelle carceri israeliane e lo Stato d’Israele non ne riconosce il legittimo governo.
Le regolamentazioni a venire dovevano in ogni caso basarsi sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza dell’ONU. La risoluzione 242 del 22 novembre 1967, (lo ricordo per gli smemorati, compresi diversi miei amici) imponeva l’instaurazione della pace e affermava il principio del “ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati durante il recente conflitto”. La risoluzione 242 inoltre, affermava il dovere “di realizzare una giusta regolamentazione della questione dei rifugiati”. La risoluzione 338 del 22 ottobre 1973, reitera queste richieste, sostiene che una potenza occupante non può modificare, in modo definitivo, il territorio occupato o parte di esso (non può sostanzialmente creare colonie) ed esige di porre fine ai combattimenti.
Che cosa e chi garantisce ad Hamas, governo legittimo palestinese (anche se ora è stato messo da parte e accusato anche di un colpo di stato!) che otterrà qualcosa di sostanziale in termini di cessazione dell’occupazione militare israeliana e non il ritorno al tran-tran di dieci anni fa, con Stati Uniti ed Israele alla guida e con l’ANP come ruota di scorta? Unica cosa certa, per Hamas è che, se tutto questo avvenisse, perderebbe quel credito accumulato nei confronti dei palestinesi, fatto di solidarietà sociale e di correttezza amministrativa! Meglio avere qualche carta, anche se difficile da giocare sul piano dei media occidentali, piuttosto che subire diktat e basta! E la comunità internazionale? Via Hamas, vediamocela con Abu Mazen!
Nessuno ha paura del ridicolo in questa storia! Sapete quali sono le dimensioni della Striscia di Gaza, lo spazio cioè sul quale Hamas avrebbe compiuto un colpo di stato? 350 kmq! E le dimensioni della Cisgiordania? 5660 kmq! Ammesso (e non concesso dagli israeliani) che i palestinesi disponessero di tutti i territori occupati, Hamas avrebbe fatto un colpo di stato (in uno stato che non esiste) assicurandosi il controllo dello 0,06 del territorio, insomma il 6%. Altro che scontro religioso, ha ragione Benedetto XVI non c’è più religione, ma tanta faccia tosta!
Ancora su “Due popoli, due Stati”
Lo slogan Due popoli, due Stati, che abbiamo visto riassume la posizione occidentale, ma è anche condivisa dalla componente palestinese legata ad Abu Mazen, di fatto nasconde un’ambiguità enorme, favorendo in particolare l’opportunismo delle forze politiche.
A livello dei governi, sembra giusto (ma anche comodo) sostenerlo. Quanto poi a riconoscere che di Stato ce n’è uno solo ed è quello che occupa il territorio sul quale dovrebbe nascere l’altro, è un altro problema. A livello partitico la
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situazione è ancora più ingarbugliata. Tutti però fanno una premessa, come se realmente esistesse un pericolo per lo Stato d’Israele o se il riconoscerlo ne riduca i pericoli, e cioè che occorre riconoscere preliminarmente lo Stato d’Israele.
Ma perché? Per un occidentale, forse, è molto più semplice capire che lo Stato d’Israele è ormai un fatto storico e, in quanto tale, occorre farsene una ragione, pur avendo chiara a mente la sua nascita artificiale, (come è avvenuto anche per altri Stati), ma in ogni caso non dimenticando sulle spalle di chi è nato, ma per un mediorientale, un arabo, un palestinese non è la stessa cosa!
Una cosa è leggere su di un libro di storia che nel 1947 l’ONU decise di dividere la Palestina in due Stati (dei quali ne è nato soltanto uno!) e una cosa è far parte del popolo che ha subito l’espulsione, dal 78% della propria terra, di 750.000 persone nell’arco di pochi mesi! E, come se non bastasse, il rimanente 22% della terra è occupato militarmente da 40 anni. I palestinesi non sono tenuti a riconoscere lo Stato d’Israele, quanto piuttosto a misurarsi con questa situazione storica che si è determinata e trovare, realisticamente, una soluzione giusta, non certo aspettare le briciole del banchetto israeliano che sembra non arrestarsi mai!
Analizziamo dunque un po’ meglio lo slogan Due popoli, due Stati.
Innanzitutto detta formulazione si rifà ad una situazione che vede già nato lo Stato d’Israele e dunque trascura le ragioni dei palestinesi che, sin dal primo congresso sionista di Basilea del 1897, si erano opposti ad uno Stato ebraico in Palestina. Ma anche a voler trascurare questo aspetto, occorre avere il coraggio di dire che l’ipotesi Due popoli, due Stati, è da tempo fallita.
Ripercorriamo una volta per tutte gli eventi a partire dalla Risoluzione 181. Secondo la Risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del 29 novembre 1947, la Palestina mandataria avrebbe dovuto essere divisa in:
– uno Stato arabo, con una popolazione di 758.530 arabi e di soli 9520 ebrei, che avrebbe coperto il 42,88% della superficie totale del paese (11.287.312 dunum);
– uno Stato ebraico che si sarebbe esteso sul 56,47% della superficie (14.864.611 dunum), con una popolazione di 905.000 abitanti di cui 498.000 ebrei e 407.000 Arabi, senza però tenere conto dei beduini presenti nell’area assegnata allo stato ebraico (105.000). Si sarebbe trattato perciò di uno stato a maggioranza… araba! In sede di commissione si provvide poi, a cancellare almeno questa assurdità, assegnando Jaffa allo Stato arabo.
– la zona internazionale di Gerusalemme posta sotto l’egida dell’ONU che avrebbe coperto il restante 0,65% (171.100 dunum), con una popolazione di 105.000 Arabi e 100.000 ebrei.
Dunque la Risoluzione 181 dell’ONU sanciva la nascita di due Stati, che sarebbe dovuta avvenire due mesi dopo la fine del Mandato britannico, fissata dalla Gran Bretagna per il 15 maggio 1948. A parte il fatto che, dopo il voto, i delegati arabi dichiararono di non sentirsi legati ad essa ed abbandonarono la
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seduta, ascoltiamo cosa disse in quella occasione, il delegato del Pakistan, Zafrulla Khan:
“[…] È stata appena presa una grave decisione. Cala il sipario. Il presidente americano ha detto: ‘Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per fare il bene così come Dio ce lo ha mostrato’. Egli è effettivamente riuscito a persuadere un numero sufficiente di nostri colleghi-rappresentanti perché vedessero il diritto così come lui lo percepiva, senza permettere loro di sostenere il diritto per come loro lo concepivano.
I nostri cuori sono tristi, ma la nostra coscienza è tranquilla. Non lo sarebbe se avessimo fatto parte dell’altro schieramento. Gli imperi appaiono e scompaiono […]. Oggi non si parla che di Americani e di Russi. [ … ] Nessuno può dire se la proposta che questi due grandi paesi hanno patrocinato e appoggiato sarà benefica o nefasta. Noi temiamo tuttavia che gli effetti benefici, se ce ne saranno, saranno poco importanti se confrontati con i danni causati da questa spartizione.
Questa decisione è priva di qualsiasi validità legale. Noi non proviamo alcun rancore verso coloro che sono stati spinti, con pesanti pressioni, a cambiare schieramento e a dare il loro voto per appoggiare una proposta, che consideravano ingiusta. Proviamo anche simpatia nei loro confronti”.
Di fatto, dopo la guerra del 1948, nacque un solo Stato, quello ebraico, sul 78% della Palestina e con una popolazione per l’85% ebraica e una componente araba pari al 15%. Nacquero anche 750.000 rifugiati e il quadro non sarebbe completo se non si ricordasse che del restante 22%, l’Egitto occupò l’1% (la striscia di Gaza) e la Transgiordania il 21% (la Cisigiordania), mentre Gerusalemme diventava un po’ ebraica (Gerusalemme Ovest) e un po’ transgiordana (Gerusalemme Est).
Forse ci si sarebbe dovuto aspettare che la risoluzione 181, unica a legittimare Israele a livello internazionale, venisse fatta rispettare per intero! E invece niente di niente. Due popoli, due Stati? Un completo fallimento!
Nel 1967, Israele conquistò con la guerra, oltre al Sinai e alle alture del Golan, anche il restante 22% della Palestina, quel territorio cioè dove, dal 1948, avrebbe potuto nascere uno Stato palestinese. Nascono invece i Territori occupati. La Risoluzione 242, adottata il 22 novembre 1967, dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, all’unanimità, [ … ]
1. Afferma che il compimento dei princìpi della Carta esige l’instaurazione di una pace giusta e durevole nel Medio Oriente, che dovrebbe comprendere l’applicazione dei due princìpi seguenti:
ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati durante il recente conflitto;
cessazione di tutte le affermazioni di belligeranza o di tutti gli stati di belligeranza e rispetto e riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ciascuno Stato della regione e del loro diritto di vivere in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute, al riparo da minacce o da atti di forza.
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Israele deve dunque ritirarsi dai territori occupati. Non succede niente! Passa il tempo e va avanti la colonizzazione. Un’altra guerra ed un’altra risoluzione, la 338 (1973), secondo la quale non si possono modificare stabilmente territori occupati con la guerra e dunque non si possono costruire colonie.
Non succede niente? Succede, succede! Le colonie continuano a crescere sempre di più, la terra sottratta ai palestinesi pure. Rivolte e poi l’Intifada ma mai nessuno che dica ad Israele di liberare i Territori occupati e se qualcuno glielo ricorda (le innumerevoli risoluzioni ONU) Israele fa orecchio da mercante e si gode il fatto compiuto.
Si arriva così al “processo di pace”. Due popoli, due Stati. E che succede? Colonie a non finire, il 70% della Cisgiordania e della striscia di Gaza sotto controllo militare israeliano. Il “processo di pace” dovrebbe aver fine nel 1998, poi nel 1999. Di palestinese nasce, anzi si accresce soltanto l’umiliazione, la limitazione dei movimenti, il numero di prigionieri. E’ il definitivo fallimento dell’ipotesi presa in considerazione.
Ma quale territorio avrebbe comunque dovuto ospitare lo Stato palestinese? Non più del 40% del 22% e cioè l’8,8% della Palestina dove tutti i palestinesi vivevano prima della tragedia del ’48, legittimata dalla risoluzione 181. Ma perché allora, si continua a dire tra i politici, a gridare nelle piazze, Due popoli, due Stati? A me sembra una coazione a ripetere quanto avviene nei cortei, soprattutto pacifisti, certamente un’ossessiva dichiarazione di equidistanza… soltanto per evitare la condanna, immancabile, per antisemitismo, già in caldo nelle redazioni!
Di fatto lo slogan Due popoli, due Stati, che affida tutto ad un patto leonino (USA-Israele versus palestinesi), lascia incancrenire la situazione, la sposta sul terreno palestinesi moderati – palestinesi estremisti, islam moderato – fondamentalismo, sul terreno del terrorismo caro a Bush, ma non risponde mai con chiarezza a queste tre domande:
Qual è il territorio su cui dovrebbe nascere lo Stato palestinese?
Qual è la sorte del “diritto al ritorno” dei rifugiati, sancito da una specifica risoluzione dell’ONU, la 194 del 1948?
Quale sarà la capitale dello Stato palestinese? Gerusalemme Est?
Il richiamo da parte di Hamas per tutti i palestinesi ad unirsi nella lotta sacrosanta per liberare i territori occupati è del tutto ragionevole. E la loro liberazione infatti risponderebbe positivamente a tutte e tre le domande. Come si vede, la richiesta del riconoscimento, a priori, da parte di Hamas, dello Stato d’Israele, nasconde una realtà assai diversa e troppo scomoda per l’occidente perché se ne discuta!
Proviamo ora a considerare, di nuovo, la condizione dei palestinesi come quella di un popolo in lotta per la liberazione nazionale, che punta dunque all’autodeterminazione e ci renderemo subito conto di quanto sia inconcepibile la richiesta al popolo in lotta del riconoscimento del proprio nemico! Un nemico che viceversa ha deciso di riconoscerlo soltanto quando (1993) ha
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potuto continuare, con altri mezzi, il suo disegno secolare di colonizzazione e di conquista della Palestina. La richiesta di Hamas punta dunque ad evidenziare non un’astratta posizione ideologica, quanto piuttosto la necessità, per i palestinesi, di sfuggire alla trappola “occidentale” “Due popoli, due Stati”.
In realtà, il diritto ad esistere dello Stato d’Israele si fonda non sull’accettazione di coloro che, come abbiamo già visto, lo hanno sempre rifiutato, ma sul diritto internazionale che lo ha creato. Perché pretendere da Hamas o da Ahmadinejad ciò che non garantisce loro nulla, né la liberazione dei territori occupati, che costituiscono l’obiettivo della resistenza di Hamas, né la tranquillità per l’Iran di non essere attaccato dagli Stati Uniti magari per il tramite di Israele, come si sente dire sempre più spesso?
In particolare Ahmadinejad si serve di una lettura assai corrente nel mondo islamico relativa alla creazione dello Stato d’Israele, quella cioè che questo Stato è una costruzione artificiale del mondo occidentale, fatta sulle spalle del mondo arabo, per richiamare all’unità un mondo islamico, fatto a pezzi dagli interventi degli Stati Uniti e dei suoi alleati, e che ha trovato nella resistenza di Hetzbollah alla guerra scatenata da Israele in Libano nel luglio 2006, una risposta fondamentale.
Lasciano il tempo che trovano i pennivendoli del nostro paese quando, in stretta assonanza con Israele e Stati Uniti, parlano di un burattinaio iraniano e di marionette libanesi e palestinesi! Come se le armi israeliane fossero di produzione locale e non statunitensi e a pagarle fosse il contribuente israeliano e non gli Stati Uniti d’America attivati da benemerite consorterie capaci di far garantire un’assistenza economica e finanziaria allo Stato d’Israele, da più di cinquant’anni!
Conclusioni
Che dire? La situazione è estremamente sfavorevole per i palestinesi. La collusione statunitense-sionista, che ha sempre puntato (divide ut imperes), a dividere i palestinesi, non sembra trovare crepe. E anche vero però che Abu Mazen ha poco, niente da offrire con la sua sfrenata disponibilità, ai suoi “conterranei”.
Sul fronte internazionale, c’è poco da sperare dalla Disunione Europea e anche le posizioni di D’Alema e Prodi rischiano di trasformarsi in un balbettio di assenso. Quello che i giornali hanno definito un lungo periodo di gelo tra D’Alema e Condy Rice sembra stia per terminare. Il 13 settembre i due si sono telefonati, a seguito di una richiesta del ministro italiano ed un incontro di quest’ultimo, (indovinate con chi?) con Spogli. Ora, un comunicato della Farnesina parla di una sosta a Roma della Rice, all’inizio o alla fine del suo tour in Medio Oriente.
Certamente ciò è dovuto all’intensa attività diplomatica di Prodi e D’Alema. L’arrivo a Roma di Peres, del vicepresidente siriano Faruq el Shara e del vice ministro degli esteri iraniano Salili, l’incontro di D’Alema, a Ramallah con Abu
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Mazen e il premier Fayyad, a Gerusalemme con Olmert, Livni e Barak ed infine in Egitto con Mubarak e molti esponenti della Lega araba, costituiscono un segno evidente dell’iniziativa italiana. Ma proprio in questo tour di D’Alema in Medio Oriente si evidenziata una certa correzione di rotta del nostro ministro degli esteri sulla necessità di un dialogo con Hamas. Quanto all’importanza di una riconciliazione tra i palestinesi ne ha parlato assai poco, insistendo sull’impegno italiano a sostenere Abu Mazen.
C’è un altro aspetto che riavvicina Condy e Massimo. La “conferenza di pace” sul Medio Oriente, annunciata da Bush per la metà di novembre, da tenersi a Washington. Entrambi puntano a svolgere un ruolo importante, Condy per riproporre una soluzione “controllata” e Massimo per potersene attribuire qualche merito. Ma già la conferenza sembra essere stata declassata a livello di meeting. E allora? Molte chiacchiere e la prosecuzione del tallone di ferro sulla Palestina.
Come si vede, niente di buono sotto il sole!
Del resto Prodi, anche nel suo guizzo di autonomia, aveva lasciato molto veleno nella coda del suo discorso, quando aveva rivendicato di essere stato tra i primi, non solo a sostenere il diritto dello Stato d’Israele ad esistere, ma anche al diritto di esistere in quanto Stato ebraico! Ora è vero, si insiste molto sullo Stato d’Israele così com’è, ma, con buona pace di Prodi, uno stato sionista (e non sono soltanto io a qualificarlo così, ma tutto l’establishment israeliano), può essere realmente democratico, e cioè rispettoso di tutti i cittadini, a prescindere dalla razza, dalla religione, ecc. e di tutti i loro diritti?
Sarebbe stato più opportuno che il nostro premier avesse accennato ad un’ipotesi di evoluzione post-sionista dello Stato d’Israele, cosa che avrebbe aiutato tutti a pensare ad un Medio Oriente in cui, venuta meno la contrapposizione oppressore-oppresso, occupante-occupato, i due popoli potrebbero vivere tranquillamente sulla stessa terra.
Sempre che venga meno la sindrome israeliana della vittima che, soltanto se armata fino ai denti, e con una spiccata propensione alla guerra (basti pensare al Libano semidistrutto per salvare (!?) la vita di un caporale a Gaza e di due soldati in Galilea) pensa di poter conservare il controllo del territorio e conservare se stessa. Ma forse è troppo presto per crederci!
In ogni caso, il quadro complessivo del Medio Oriente non spinge a considerazioni ottimistiche. Occorre tener presente che le iniziative dell’imperialismo americano sovradeterminano sempre, ora come in passato, le situazioni locali. Entrambe le Intifada sono state sovradeterminate da una guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq.
Quella del 1990-91 creò (e impose) le condizioni della Conferenza di Madrid, le attese per una soluzione in Medio Oriente e quindi gli Accordi di Oslo, espressione anche della dirigenza palestinese nata dall’Intifada, desiderosa di pace.
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Quella invece del marzo 2003 (preceduta dalla guerra all’Afghanistan ed ancora in corso), ha creato (ed imposto) le condizioni per l’offensiva contro il fondamentalismo islamico, ma che dico, “contro il terrorismo”!
Ora, a sentire il ministro degli esteri francese Kouchner, la guerra all’Iran è alle porte e se non verrà battuta l’assurda pervicacia americana nello scatenare una guerra dopo l’altra, pervicacia carica di falsità (tanto da ridicolizzare la favola di Fedro “Il lupo e l’agnello”), la situazione palestinese continuerà ad essere sovradeterminata dalla politica imperialistica americana e di pace ce ne sarà poca per tutti in Palestina e nel mondo!
Appendice I (Lettera di Prodi al Corriere sul caso Hamas) 15 agosto ’07
Caro Direttore,
le polemiche, tra cui l’articolo di Piero Ostellino, generate dalle mie dichiarazioni su Hamas mi offrono l’occasione per ribadire nuovamente le linee portanti della politica italiana in Medio Oriente. Essa è sintetizzabile in una formula molto semplice: cercare di favorire in ogni circostanza le prospettive di pace e di stabilità della regione.
Lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo anche consapevoli che — come amava ricordare il compianto Yitzhak Rabin — “la pace si fa con gli avversari”.
Abbiamo iniziato con il Libano meridionale, giusto un anno fa, svolgendo un’azione di leadership apprezzata da tutta la comunità internazionale per mettere fine al conflitto che si era innescato e che rischiava di avere ramificazioni ulteriormente destabilizzanti. Oggi 3.000 militari italiani sono schierati nel Libano meridionale nell’ambito della Missione Onu dell’Unifil. Essi contribuiscono a garantire il cessate il fuoco fissato dalla risoluzione 1701 e la sicurezza della frontiera settentrionale di Israele.
Nel contempo abbiamo stimolato una riflessione su come coinvolgere in maniera costruttiva la Siria nelle dinamiche negoziali della regione. È stata un’azione non facile e che certamente richiede ancora un forte impegno da parte della comunità internazionale. Si tratta però di una pista che ormai viene riconosciuta e seguita da tutti i paesi dell’Unione Europea. Oggi registriamo con interesse crescenti segnali di una ripresa del dialogo tra Israele e Siria ed il fatto che Damasco ospiterà il prossimo Vertice della Lega Araba. Quest’ultima circostanza rappresenta un’importante apertura di credito e mi auguro che il Presidente Assad saprà coglierla in pieno.
Naturalmente sarebbe da ingenui attendersi immediati risultati positivi da questi sforzi. In Medio Oriente le evoluzioni politiche seguono una tempistica molto particolare, assai lenta. Occorre saper decifrare con molta attenzione segnali timidissimi di apertura, essere pronti a ricorrenti battute d’arresto e soprattutto avere molta pazienza.
Abbiamo continuato ad operare sul fronte del processo di pace israelo-palestinese, sostenendo con profonda convinzione e con atti concreti il rinnovato dialogo tra il Primo Ministro Olmert ed il Presidente Abbas, nonché i coraggiosi sforzi di riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese del neo Primo Ministro Fayyad. Poco meno di un mese fa, in occasione del mio proficuo viaggio in Israele e nei Territori Palestinesi, ho riconfermato a tutti e tre il fermo sostegno del Governo italiano ai loro sforzi di pace e la convinzione che non esistono alternative a questo dialogo.
In questo contesto mi limito a ricordare che sono stato uno dei primi leader politici mondiali ad affermare pubblicamente il diritto all’esistenza di Israele come Stato ebraico ed il primo ad essersi recato nella cittadina di Sderot, offrendo solidarietà concreta ai suoi abitanti minacciati dai lanci di razzi Kassam da Gaza.
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Per me è di fondamentale importanza che la Palestina possa divenire uno Stato in grado di vivere in condizioni di pace e sicurezza con i suoi vicini ed innanzitutto con Israele, così come Israele possa vivere sicuro e libero dai pericoli del terrorismo e degli attacchi suicidi. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è che si crei una frattura incolmabile nel popolo palestinese e che si possano creare due entità palestinesi. Su questo punto ho avuto assicurazioni sia da parte del Presidente Abbas che del Primo Ministro Fayyad.
Quanto ad Hamas — come ho sempre coerentemente sostenuto — le condizioni per il suo ritorno nel gioco politico palestinese dipendono solo da loro e sono quelle fissate dal Quartetto del gennaio 2006: cessazione della violenza, riconoscimento degli accordi precedenti sottoscritti da Olp ed Israele e riconoscimento del diritto all’esistenza dello Stato ebraico. A queste si aggiunge evidentemente ora anche la necessità di ripristinare la legalità nella striscia di Gaza riconsentendo al Presidente Abbas di esercitare nuovamente la propria autorità su quel territorio. In questo contesto contiamo molto anche sugli sforzi di Tony Blair in nome e per conto del Quartetto nonché sull’opera paziente di paesi della regione mediorientale, dall’Egitto, all’Arabia Saudita, alla Giordania. L’Italia sia bilateralmente che in ambito europeo ed alle Nazioni Unite continuerà a lavorare in questa direzione ed a dare il proprio contributo ad una positiva evoluzione della situazione. Pur nella consapevolezza della sua complessità e dei vincoli entro cui ci muoviamo, continueremo ad incoraggiare tutte le parti a dare prova di coraggio politico e di leadership, che sono le vere condizioni in base alle quali si potrà assicurare una pace duratura e stabile in Medio Oriente.
Appendice II (Lettera dell’ambasciatore americano in Italia al “Corriere”)
23 agosto
Caro direttore,
alcune popolazioni del Medio Oriente dovranno fare scelte importanti molto presto e noi, quali membri della comunità internazionale, abbiamo la responsabilità di aiutarle a prendere decisioni che favoriscano la stabilità regionale e mondiale, a optare per la moderazione contro l’estremismo violento, e a fare scelte che promettano un futuro migliore. Gli israeliani e i palestinesi hanno l’opportunità di fare progressi e gli Stati Uniti, con la comunità internazionale, guidati dal Quartetto, devono aiutare entrambe le parti a perseguire tale obbiettivo. Nel processo di pace per il Medio Oriente, i Paesi membri del Quartetto possono e devono incidere sui rapporti di forza tra moderati ed estremisti. I palestinesi devono fare una scelta e alcuni dei loro leader, guidati dal presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), sono favorevoli alla scelta moderata. Spetta ai politici di quell’area e alla comunità internazionale sostenere i leader del governo palestinese disposti a cogliere le opportunità di pace, poiché essi rischiano molto ed è nostro dovere aiutarli. Molti, anzi direi la maggioranza, sia sul fronte israeliano che su quello palestinese concordano sui principi fondamentali della pace. Principi molto chiari: la soluzione che prevede due Stati, il rifiuto della violenza e del terrorismo, il riconoscimento a entrambe le parti del diritto di esistere, e l’adesione al processo di pace. Coloro che rifiutano di accettare tali principi non meritano il nostro sostegno e non dovrebbero sedere al tavolo dei negoziati. C’è la possibilità concreta, fondata sulla reiterazione dell’Iniziativa araba per la Pace di quest’anno, dell’adesione al processo di pace di un elemento regionale. Nel momento in cui la Lega araba decideva la sua iniziativa di pace, segnalava il desiderio di pace da parte araba. L’iniziativa conteneva l’idea di un convegno internazionale. Del resto, gli Stati Uniti non si sarebbero lanciati nell’impresa se non avessero creduto che nella regione esiste il desiderio di intraprendere la strada della pace. Per unirsi a loro e a noi a quel tavolo, i palestinesi e i loro leader devono optare per le stesse cose: la soluzione che prevede due Stati, il rifiuto della violenza e del terrorismo, il
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riconoscimento a entrambe le parti del diritto di esistere, e l’adesione al processo di pace. Tenendo conto di ciò, gli Stati Uniti stanno prendendo le proprio decisioni in merito a coloro che governano secondo le norme internazionali. Ciò è largamente condiviso a livello internazionale, incluso il Quartetto di cui fanno parte l’Italia come membro dell’Unione Europea e gli Stati Uniti, e alle cui decisioni gli stessi Stati Uniti come anche l’Italia sono vincolati. Tutto il popolo palestinese, non importa se residente in Cisgiordania o a Gaza, ha rappresentanti legittimi con i quali riteniamo di poter ottenere risultati in tal senso. E’ fuorviante nei confronti dei palestinesi sostenere che si possa evitare di fare quella scelta. Non è possibile. Ed è altrettanto fuorviante sostenere che coloro che rifiutano le condizioni del Quartetto possano far parte dell’ accordo. Non possono. Non tutto però è sulle spalle dei palestinesi. Gli israeliani dovranno affrontare l’enorme sfida di un nuovo modello di sicurezza. Avamposti israeliani non autorizzati dovranno essere rimossi e l’allargamento degli insediamenti fermato. Gli israeliani dovranno trovare il modo di alleggerire concretamente la loro presenza fisica all’interno dei territori senza tuttavia ridurre il livello di sicurezza. Alla fine, si dovrà giungere a un accordo territoriale, con confini concordati reciprocamente sulla base di status precedenti, di realtà correnti e di correzioni decise congiuntamente. Da parte nostra, ci impegneremo a fondo per accrescere la fiducia di entrambe le parti nella soluzione che prevede due Stati. A tale riguardo, il Presidente Bush ha sollecitato un meeting internazionale in autunno per esaminare gli sviluppi e dare sostegno alle parti. Il risultato per i palestinesi sarà un fattore determinante per la stabilità regionale e mondiale negli anni a venire e dipenderà dalla scelta a favore della moderazione, contro l’estremismo violento. Un accordo equo tra israeliani e palestinesi aiuterà a prosciugare il pantano di instabilità nel quale il terrorismo e l’estremismo si alimentano. La comunità internazionale deve aiutare a formulare tale scelta stabilendo incentivi per coloro che scelgono il cammino della moderazione e disincentivi per coloro che optano per la violenza. L’Italia ha svolto e continua a svolgere un ruolo fondamentale. Ne abbiamo bisogno e contiamo sul suo impegno costante. Grazie alla sua vicinanza geografica e ai suoi legami storici con il Medio Oriente, alla sua voce autorevole nell’Unione Europea e nel G8, alle truppe in campo nelle missioni Unifil nel Libano e Eubam a Rafah, e al seggio che ricopre attualmente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’Italia ha un forte interesse nella stabilità di una regione così cruciale. Siamo pronti a lavorare con l’Italia per promuovere le aspettative di pace e stabilità nel Medio Oriente, e per isolare le forze che praticano la violenza e l’intolleranza, il cui scopo è quello di ostacolare tali aspettative.
Ambasciatore in Italia degli Stati Uniti d’America, Ronald Spogli
Appendice III (Articolo di Piero Ostellino sul “Corriere” del 24 agosto) L’ appello dell’ ambasciatore Usa Spogli IL VINCOLO VIRTUOSO
Con il «soffice» linguaggio della diplomazia, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, Ronald P. Spogli, ha spiegato ieri a nuora (i nostri lettori), affinché suocera (il nostro governo) intenda, che quando si partecipa a una iniziativa multilaterale internazionale, come quella in corso in Medio Oriente, ci sono delle regole da rispettare. Dopo le aperture al «dialogo» – da parte del nostro ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, e dello stesso presidente del Consiglio, Romano Prodi, nei confronti di Hamas, il movimento terrorista che si è installato con la violenza a Gaza e che persegue la distruzione di Israele – il leader di Hamas, Ismail Haniyeh aveva detto al Corriere: «Diamo il benvenuto a Prodi. Il suo è un approccio equilibrato che riconosce Hamas e il pieno valore della nostra vittoria elettorale.
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Chiedo a Prodi di aiutarci a cancellare l’embargo». Nessun accenno, da parte del diplomatico americano, a queste parole; nessuna critica, neppure indiretta, anzi, al nostro governo, che avrebbe rischiato di suonare come un processo alle intenzioni. Ma pur sempre un’inequivocabile presa di posizione politica, per non dire una lezione di buone maniere diplomatiche. Le popolazioni mediorientali, e i loro governi – dice Spogli – devono fare una scelta fra moderazione ed estremismo a favore di una soluzione di pace che preveda la nascita dello Stato palestinese a fianco di Israele, il rifiuto della violenza e del terrorismo, il riconoscimento del diritto di entrambi gli Stati a esistere. Poiché alcuni leader palestinesi, guidati dal presidente Abu Mazen, sono per una scelta moderata, spetta alla comunità internazionale sostenerli e aiutarli. «Ciò – ed è qui che il «soffice» linguaggio diplomatico dell’ambasciatore americano diventa più esplicito – è largamente condiviso a livello internazionale, incluso il Quartetto di cui fanno parte l’Italia come membro dell’Unione Europea e gli Stati Uniti, e alle cui decisioni gli stessi Stati Uniti come anche l’Italia sono vincolati». Quali siano, poi, questi «vincoli» da rispettare è presto detto. Gli Stati Uniti sono «pronti – conclude Spogli – a lavorare con l’Italia per promuovere le aspettative di pace e di stabilità in Medio Oriente, e per isolare le forze che praticano la violenza e l’ intolleranza». Come interpretare la lettera dell’ ambasciatore americano al Corriere? Personalmente, la definirei una coerente riflessione sui rischi dell’unilateralismo nella partita diplomatica e politica mediorientale. Non è la prima volta che Spogli scrive al Corriere per ricordare quali dovrebbero essere le regole quando si gioca. Era già accaduto quando i possibili acquirenti americani della Telecom erano stati indotti a rinunciarvi per le eccessive pressioni politiche nella vicenda. Non si era trattato, allora, di un’interferenza nei nostri affari interni. Non lo è oggi. La sinistra italiana ha invocato il ritorno a una diplomazia multilaterale – fino al punto di fare dell’ Onu una sorta di improbabile «governo mondiale» – ogni volta che gli Stati Uniti, come nel caso della guerra in Iraq, si sono esposti all’ accusa di volersi muovere da posizioni unilaterali. Sarebbe davvero singolare se – adesso che Washington partecipa a una iniziativa multilaterale – il governo di centrosinistra si comportasse in modo unilaterale, violando i «vincoli» multilaterali che le impone la sua partecipazione all’ iniziativa di pace in Medio Oriente. Il sospetto di pretestuosa multilateralità, prima, e di pelosa unilateralità, poi, entrambe dettate solo dal pregiudizio anti-americano, sarebbe allora legittimo. E non solo da parte di Washington.
Ostellino Piero
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