VUOTI A PERDERE

 

Le crisi sono una costante nell'arco della storia umana. Il loro determinarsi ha sempre rivelato l'inadeguatezza dell'uomo, che tende per sua natura ad elaborare sistemi e costruzione teoriche che mirano all'equilibrio o che su esso si fondano malgrado l'osservazione critica della Storia riveli chiaramente che è lo squilibrio la condizione preponderante nell'ambito delle vicende umane. Si è cercato quindi di correggere il tiro, e di rendere tali teorie e costruzioni teoriche "equilibrate" adattabili al contesto di per sé "squilibrato" al fine di superare le crisi cicliche che molto spesso presentano analogie evidenti con quelle precedenti. Analizzando con spirito critico il passato si evince però l'inutilità di avanzare la pretesa di elaborare costruzioni teoriche assolute, ricette infallibili che consentano di risolvere ogni tipo di problema prescindendo da tutte le numerosissime variabili che entrano giocoforza in campo. Questa verità lapalissiana risulta però regolarmente ignorata dagli "specialisti" del nostro tempo; economisti, politici, militari, sociologi la cui tendenza a sezionare la realtà in compartimenti stagni mette in luce la loro colossale incapacità di produrre feconde visioni d'insieme da cui partire per individuare gli squilibri che determinano le crisi e (tentare di) escogitare soluzioni in grado di riequilibrare la situazione. Essi si limitano ad osservare le crisi solo dal loro specifico punto di vista e ad analizzarle solo nei loro aspetti tecnici, ignorando il contesto in cui maturano e le interconnessioni attive tra tutti i vari ambiti che le hanno causate. Ciò porta ad ignorare le differenze sostanziali tra le varie crisi – che si ripresentano ciclicamente, ma ognuna è portatrice di specifiche e irripetibili caratteristiche – e ad applicare sempre la stessa ricetta, così come i generali che durante la Prima Guerra Mondiale mandarono al macello milioni di soldati facendo ricorso a tattiche e conoscenze del passato. Con i ben noti esiti. La stessa storia pare ripresentarsi ora, con economisti, politici e “specialisti” d’ogni sorta che intendono ridurre le ragioni della crisi all'avidità di pochi e reclamare il  disseppellimento di vecchie reliquie del passato (come il keynesismo) o l'asservimento totale alle logiche attualmente in voga (il pieno dispiegamento del cosiddetto "libero mercato") per far fronte alla tragica situazione. E' bene allora prendere in esame ciò che accadde durante i caldissimi anni settanta, e analizzare la crisi petrolifera cui si è dovuto far fronte, sottolineandone le cause scatenanti e i relativi rimedi che vennero adottati. All'inizio degli anni Settanta gli USA erano invischiati pesantemente nelle sabbie mobili del Vietnam, nel tentativo di piegare i comunisti del nord ed impedire il pericoloso "slittamento" dell'intero paese nell'orbita sovietica e cinese. Quella guerra costrinse i suoi diretti promotori (il democratico Johnson prima e il repubblicano Nixon poi) a far fronte alle esorbitanti spese militari senza inasprire la pressione fiscale su una popolazione già ampiamente contraria all'intervento. Ciò determinò la crescita del deficit pubblico, cui andò a sommarsi il disavanzo nei conti con l'estero dovuto all'aumento della domanda interna keynesianamente trainata dalla forte spesa pubblica, che favorì le importazioni. L'intero assetto economico statunitense venne quindi posto al servizio delle spese militari a discapito di tutti gli altri settori, che persero inevitabilmente di competitività. Gli accordi di Bretton Woods ponevano gli USA nelle condizioni di finanziarsi il proprio debito stampando dollari accettati come moneta di riserva – in virtù della loro convertibilità con l'oro – da tutti i paesi firmatari. Tuttavia l'aggravarsi dei conti pubblici e di quelli con l'estero spinse gli USA ad abusare del loro ruolo, e a stampare dollari in quantità tale da indurre tutti gli altri paesi a dubitare della reale capacità di Washington di convertire in oro quel mare di banconote stampate. Tale sospetto si tradusse in una improvvisa crescita della domanda internazionale di oro, stimolata dal timore della possibile svalutazione del dollaro. In quel frangente si distinse il generale Charles De Gaulle, che dall'Eliseo rese edotto il resto del mondo che la Francia, a causa di profonde divergenze con gli USA, sarebbe uscita dalla NATO e avrebbe dato il via alla conversione in oro di tutte le proprie riserve di dollari. La "Force de frappe" era la garanzia posta a tutela di tale audace scelta. Gli Stati Uniti si videro costretti ad aprire gli scrigni di Fort Knox per soddisfare la domanda internazionale d'oro, consci però del fatto che si erano andati a cacciare in un vicolo cieco che li avrebbe portati alla rovina. Il pericolo della svalutazione portò i mercati internazionali a interrogarsi, riflessivi come sono, sulla situazione e ad abbandonare ben presto il dollaro per investire sul marco tedesco. Il presidente Nixon recise il pericoloso nodo gordiano legato alla catastrofe economica che sarebbe prima o poi arrivata con un vero e proprio colpo di spugna, che sancì – nell'agosto 1971 – la fine della convertibilità dei dollari in oro, del sistema dei cambi fissi tra valute e l'istituzione di una politica protezionistica di chiara vocazione listiana atta a rilanciare i settori industriali strategici caduti precedentemente in rovina per favorire l'industria bellica. Il prezzo della guerra del Vietnam, con il crescere parallelo del disavanzo pubblico e di quello con l'estero degli Stati Uniti, era stato altissimo, aveva provocato la fine degli accordi di Bretton Woods e l'istituzione di un nuovo modello economico fondato sulla fluttuazione dei tassi di cambio. Ciò rese il mercato estremamente instabile, cosa che indirizzò la domanda degli investitori verso quei settori in grado di garantire un sufficiente margine di sicurezza, come le materie prime. L'attenzione dei grandi speculatori internazionali si focalizzò su questo ramo del mercato, e in breve tempo si verificarono miriadi di scommesse sull'alterazione dei prezzi, favorite anche dal moltiplicarsi delle variabili legate alle oscillazioni dei tassi di cambio. Il mancato contenimento delle oscillazioni fece si che la bolla delle materie prime andasse così gonfiandosi a dismisura, cosa che portò i paesi produttori a far leva sulla situazione di favore per recuperare posizioni e potere d'acquisto rispetto ai paesi importatori. La disastrosa Guerra del Kippur irruppe in questo scenario, e la vittoria di Israele su Egitto e Siria determinò la ritorsione dei paesi arabi aderenti all'OPEC nei confronti del blocco occidentale schierato a fianco di Tel Aviv, nei confronti dei quali disposero un embargo petrolifero che preluse a un rincaro pesantissimo del prezzo del greggio. Fu una catastrofe, che produsse una crisi economica spaventosa in grado di ridisegnare l'intero modo di concepire l'economia. Fino a quel momento la dottrina economica era incentrata sulla domanda, cui occorreva far corrispondere un'offerta in grado di soddisfarla. La crisi petrolifera del 1973 scaturita dalla Guerra del Kippur fu invece caratterizzata da una bassa crescita in presenza di un'alta inflazione e di un tasso di disoccupazione altrettanto preoccupante. Si cercò, come da manuale, di intervenire sulla domanda, escogitando sistemi in grado di limitare la dipendenza dal petrolio, ma il prezzo del petrolio si mantenne ugualmente alto. Si tentò di applicare le soluzioni roose
veltiane del "New Deal", assurgendo gli Stati a principali punti di riferimento per l'economia, senza ottenere alcun risultato tangibile. Il che dimostrava l'obsolescenza delle teorie di Keynes, rese inadeguate dal presentarsi di fattori inediti e dal verificarsi di condizioni mai affrontate in precedenza. L'intervento pubblico a sostegno della domanda che si presumeva avrebbe stimolato la crescita si scontò infatti con il drastico aumento dell'inflazione, con le relative, pesantissime ripercussioni sull'occupazione. Occorreva quindi stimolare la crescita mantenendo basso il tasso d'inflazione. Le anomalie della faccenda erano molte, a partire dalla natura dell'OPEC, un cartello petrolifero che raggruppava uno sparuto numero di paesi produttori in grado di mantenere alto il prezzo del petrolio pur in presenza di un cospicuo calo di domanda internazionale, mandando in frantumi le teorie sulla concorrenza. Occorreva cambiare paradigma, e intervenire sull'offerta piuttosto che sulla domanda. Di norma l'inflazione era considerata la cartina tornasole utile per saggiare la stabilità dell'economia. Un suo aumento significava che si stava premendo troppo il pedale della crescita, sfruttando oltre misura le capacità produttive generando un forte calo della disoccupazione che avrebbe ridotto l'offerta di manodopera e conseguentemente spinto al rialzo la remunerabilità dei salari. Una sua diminuzione avrebbe significato invece che era in atto un calo della produttività, una recessione associata ad un alto tasso di disoccupazione. La crisi petrolifera produsse invece quello che era considerato al tempo un vero paradosso per la dottrina economica, ovvero la "stagflazione"; una recessione abbinata a un forte aumento dell'inflazione. Si comprese quindi che la crisi era determinata da un aumento del prezzo del petrolio in assenza di una crescita della domanda internazionale, frutto di una decisione presa a tavolino da un manipolo di nazioni produttrici accordatesi di proposito. Questa consapevolezza innescò un processo di progressiva liberalizzazione di tutti i settori, atta a rendere maggiormente efficiente un mercato considerato vincolato da regolamenti eccessivamente severi e opprimenti che ne compromettevano il corretto funzionamento. Si decise quindi di ridurre le misure protettive di tutte le professioni, nella convinzione che liberalizzandole si sarebbe stimolata la concorrenza e quindi riequilibrata la situazione. Oggetto principale delle liberalizzazioni fu quel ramo che raggruppava i settori che si occupavano di energia, incaricati di innovare le conoscenze in materia al fine di mettere in scacco il predominio incontrastato del petrolio e dell'OPEC nell'ambito dell'offerta internazionale. Arrivarono negli anni risposte convincenti a tale esigenza, con uno sviluppo tecnologico tale da permettere di ricercare petrolio anche nelle zone più impervie nel pianeta. Giacimenti di petrolio vennero infatti individuati nel Mare del Nord e in Canada, in Messico e in Venezuela, in Nigeria e in Alaska. Per quanto riguarda le fonti alternative, si moltiplicarono le capacità di sfruttamento del gas e molti paesi si dotarono delle conoscenze e delle attrezzature necessarie per dare il via a una serie di programmi nucleari atti a coprire parte del fabbisogno nazionale. Inoltre, si riuscì a ridurre ed ottimizzare i consumi. Questo insieme di risultati consentì ai paesi consumatori di ridurre la propria dipendenza dal petrolio e di intaccare lo strapotere dell'OPEC nell'ambito dell'offerta di energia. Il prezzo del petrolio iniziò infatti a riagganciarsi in breve tempo al meccanismo di domanda e offerta fino al 1979, quando la detronizzazione dello Shah di Persia Reza Pahlavi – uomo assai gradito a Washington – e la conseguente ascesa al potere dell'Ayatollah Ruollah Khomeini causarono la nazionalizzazione delle imprese petrolifere e la conseguente riduzione dell'esportazioni di petrolio da parte dell'Iran. Il prezzo del petrolio tornò a salire generando tensioni internazionali che sfociarono con l'aggressione, su mandato degli USA, dell'Iraq all'Iran che causò la morte di almeno un milione di persone e compromise la capacità di esportazione di entrambi gli attori coinvolti del conflitto, cosa che fece nuovamente impennare il prezzo del petrolio. In breve, tuttavia, tutto tornò alla normalità. Le misure che vennero adottate all'epoca consentirono di uscire dalla crisi petrolifera ma crearono nuovi squilibri direttamente connessi alla devastante crisi economica attuale. La crisi aveva infatti costretto i paesi consumatori a indebitarsi, mentre i paesi produttori dell'OPEC avevano tratto vantaggio dalla loro posizione di privilegio per ottenere ingenti profitti. Gli uni necessitavano di ripianare la propria voragine di debiti, mentre gli altri intendevano piazzare i propri proventi in investimenti sicuri e remunerativi. Due esigenze apparentemente opposte che coincisero di colpo e che accelerarono ulteriormente il già avviato processo di finanziarizzazione dell'economia. I paesi dell'OPEC iniziarono così a investire pesantemente nelle grandi banche d'affari internazionali (Goldman Sachs, JP Morgan ecc.), che a loro volta escogitarono pacchetti finanziari mai visti prima al fine di adempiere la domanda crescente di opzioni finanziarie sicure e remunerative. La reazione a catena fu sbalorditiva, e produsse costruzioni finanziarie talmente astruse e sciagurate (i cosiddetti "titoli tossici") da dar luogo a uno squilibrio spaventoso, sfociato nell'attuale congiuntura di crisi. Dinnanzi ad essa gli "specialisti" sopra citati si dividono per lo più tra quelli "di sinistra" che auspicano l'intervento pubblico sull'economia sulla scorta di Keynes e quelli "di destra" che pontificano su un ulteriore liberalizzazione del mercato che favorisca concorrenza e premi la competitività. Ancora una volta, ricette del passato per far fronte a questioni con il presente, e non solo nell’affrontare la crisi economica. Si ignora infatti beatamente il peso soverchiante che gli sciagurati e a dir poco infruttuosi interventi militari statunitensi stanno esercitando sulla condizione economica occidentale, si ignorano il disastro ecologico che ha sconvolto la Russia durante la scorsa estate (che ha mandato in fumo qualcosa come l'1% della produzione mondiale di grano) e le relative scommesse sul rialzo del prezzo del cibo nell'approcciare con le prime rivolte arabe, che si blatera sarebbero causate da una sedicente “voglia di democrazia” dovuta al divieto di usare Facebook e Twitter posto dai "tiranni" di turno. E così via. Nessuna visione d'insieme. Nozioni tecniche arrabattate asetticamente in fretta e furia per riequilibrare situazioni il cui squilibrio è dovuto a una miriade di fattori convergenti. Si rende così impossibile produrre un qualsivoglia progetto politico, una strategia credibile per risalire la china e raddrizzare la pericolosa situazione. Il che significa che la vera crisi riguarda l’intelligenza umana, che sta sempre più lasciando il posto a un vuoto pneumatico che produrrà effetti catastrofici negli anni a venire.